di Card. Tettamanzi
In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO ROMANO, curata dal cardinale Dionigi Tettamanzi.
Matteo (14,22-33)
Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». Appena saliti sulla barca, il vento cessò.
L’umiltà di affidarsi
«Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (Mt 14,27). È la risposta rassicurante che il Maestro dà ai suoi discepoli, mentre, camminando sul mare, andava verso di loro per placare il vento e le onde che agitavano la barca. «Non abbiate paura!» è la risposta che vorremmo sentire anche noi, quando travolti dalle tempeste della vita la nostra fede diviene flebile, sbiadita, come un fantasma lontano incapace di darci coraggio. Anche noi, quando le difficoltà del vivere ci soffocano, imploriamo come Pietro: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te» (Mt 14,28), come per dire: «Se tu sei Dio, fammi sentire la tua presenza con un prodigio. Sollevami da terra e crederò in te».
La nostra fede, ancora immatura, ci porta a credere che la presenza di Dio debba manifestarsi in maniera spettacolare con la stessa forza di un vento impetuoso, di un terremoto o di un incendio capaci di sconvolgere la natura. La presenza di Dio, invece, è una presenza costante che si manifesta senza fare rumore, nel silenzio, nel «sussurro di una brezza leggera» (1Re 19,12).
Una presenza che sa avvertire chi nella quotidianità degli eventi, belli o brutti che siano, ha fede nella parola del Signore che sussurra al nostro cuore: «Coraggio!». Solo nella Parola, infatti, possiamo trovare le risposte che cerchiamo, la forza di andare avanti anche nei momenti più bui.
Se, al contrario, oltre la Parola ci ostiniamo a cercare segni prodigiosi, inevitabilmente il dubbio si insinuerà in noi e impauriti affonderemo nei nostri dolori. Andare verso Gesù è un camminare verso di lui con la certezza di poter attraversare il mare dell’esistenza, forti della sua Parola, anche quando il vento spira forte. Proprio nei momenti più difficili, il Signore continua a chiamarci e per darci coraggio nell’ora della prova ci ripete: «Vieni!» (Mt 14,29), ma chi, come Pietro, non si accontenta della sua Parola continua a gridare: «Signore, salvami» (Mt 14,30), senza capire che sul legno della croce il Signore ci ha già salvati da ogni morte. Il suo amore è così grande che nemmeno nel momento del dubbio ci abbandona e, quando l’acqua ci arriva alla gola, ci tende la mano e ci afferra per non lasciarci annegare nei nostri dubbi.
Se nei momenti di sconforto avessimo l’umiltà di affidarci a Dio, di aggrapparci a quella mano tesa che ci viene in soccorso, forse sentiremmo nel nostro cuore la voce del Maestro ripetere: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato? » (Mt 14,31). Più che un rimprovero, le parole del Signore risuonerebbero come quelle di una madre che, carezzando il suo bambino, intenerita dalla sua ingenua paura del buio, lo esorta al coraggio, perché anche nel buio lei è sempre lì, pronta a proteggerlo.
Pubblicato il - Commenti ()
Matteo (14,13-21)
Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». [...] E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla. Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene.
Il vero prodigio: la condivisione
«Voi stessi date loro da mangiare » (Mt 14,16). Una frase emblematica, questa del Maestro, che comanda ai discepoli di dar da mangiare a quella folla affamata che lo aveva seguito, al di là del lago, ai piedi della città. Una frase sulla quale si riflette poco, affascinati dal prodigioso evento della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Spesso ancora oggi ci poniamo di fronte a questa pagina del Vangelo in maniera sbagliata, chiedendoci perché il Signore non continui a moltiplicare pani e pesci per le folle affamate del nostro tempo. Lui, che con un solo gesto diede da mangiare a cinquemila uomini, senza contare donne e bambini, perché oggi non prova la stessa compassione per i tanti bambini che muoiono di fame, per i disoccupati, per le famiglie che non arrivano a fine mese?
Una domanda senza risposta per chi continua a cercare Cristo per ridurre Dio ai propri bisogni. Chi cerca il Maestro per i suoi poteri è pronto a farlo re, come fece quella folla saziata da quei cinque pani e due pesci moltiplicati all’infinito. Troppe volte anche noi vorremmo farlo re, come racconta Giovanni nel suo Vangelo, per costringerlo a diventare nostro servo e risolvere magicamente ogni nostro problema. Anche oggi, «sul far della sera» (Mt 14,15), quando l’ingiustizia perpetrata a danno dei più deboli oscura la terra, rimaniamo inermi ad aspettare che un miracolo economico ci dia la possibilità di moltiplicare pani e pesci.
Ma il prodigio non avviene, perché non siamo capaci di ripetere lo stesso gesto del Maestro, né siamo attenti alle sue parole. Strano a dirsi, Gesù non fece nessun gesto portentoso, né recitò una formula propiziatoria, ma ringraziò il cielo per quei cinque pani e fece il gesto più semplice del mondo, che sa fare anche un bambino quando divide la sua merenda con un amico: «Spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla» (Mt 14,19). Un gesto semplice, dettato dalla compassione di chi, pronto a patire con chi è nel bisogno, divide, condivide, il poco che ha con chi non ha nulla.
Forse dovremmo essere più attenti alle parole del Sacro libro: «Così dice il Signore: ...perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia?» (Is 55,1-2). E noi, figli del consumismo, siamo davvero sicuri che la nostra abbondanza di cose superflue non possa supplire all’indigenza di chi chiede pane? Troppe volte spendiamo il nostro guadagno, che potrebbe saziare altri, in cose inutili per poi rimanere affamati di altro. E nell’inutile attesa che si moltiplichino pani e pesci, continuiamo a dividere il mondo in ricchi e poveri, dimenticando le parole di Gesù, le uniche capaci di operare il miracolo: «Voi stessi date loro da mangiare».
Pubblicato il - Commenti ()
Matteo (13,44-52)
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra. Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci».
Il regno dei cieli nel nostro cuore
«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto... a una perla di grande valore... a una rete gettata nel mare» (Mt 13,44-47). Altrove, Gesù dice che «il regno dei cieli è vicino» (Mt 4,17) e da sempre si è creduto che fosse vicino nel tempo. Più volte nefaste profezie hanno annunciato l’imminente fine del mondo, come se la vita su questa terra stesse per terminare per dare inizio a quella del cielo. E invece probabilmente il Maestro intendeva dire che il regno dei cieli è vicino nello spazio, più vicino di quanto possiamo immaginare. Perché il regno dei cieli è dentro di noi, nel cuore di ciascuno.
Se solo riuscissimo a gettare la rete nel mare dei nostri desideri e pensieri, allora impareremmo a buttare via la cupidigia, l’egoismo, la brama del possesso e, sgombrato il campo, troveremmo quella perla preziosa, quel tesoro nascosto dentro di noi, quella scintilla divina che ci riempie di gioia. Se solo riuscissimo a fare silenzio, e lontani dal frastuono del mondo imparassimo ad ascoltare il battito del cuore, allora sentiremmo l’essenza della vita che vale più di tutti i nostri averi.
Ognuno di noi, almeno una volta, ha sentito il paradiso dentro: ogni volta che amiamo qualcuno e lottiamo per la sua felicità sentiamo non solo la gioia, ma una forza nuova che ci rende capaci di spostare le montagne. Eppure, quasi mai ci accorgiamo che questa forza è il nostro sostegno, la manifestazione, concreta e decisiva di Dio nella nostra vita. «Dio è amore» (1Gv 4,8) e ogni volta che sperimentiamo l’amore dovremmo riscoprire il regno dei cieli dentro di noi.
Ma raramente ce ne rendiamo conto. Forse dovremmo risvegliare quel “fanciullino” che alle ragioni dell’intelletto, non sempre in grado di spiegare ogni cosa, sa dare spazio alle ragioni del cuore per spingere lo sguardo oltre il mondo sensibile. Allora, con occhi incantati, saremmo capaci di scorgere l’essenza che si nasconde dietro la realtà e come un bambino, con il linguaggio dell’amore, daremmo un nuovo nome alle cose, «cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52), scoprendole nella loro freschezza originaria.
Sordi al battito del cuore per il troppo rumore del mondo, che grida il valore dell’avere su quello dell’essere, tra le tante cose inutili che possediamo, l’amicizia, l’accoglienza, l’amore restano parole preziose, tesori nascosti e dimenticati in un regno dei cieli, che rimane una vaga astrazione, di là da venire. Forse dovremmo pregare come Salomone e chiedere a Dio un cuore docile, saggio, che sappia distinguere il vero bene dal male (cf 1Re 3,9), allora il Signore ci concederà di trovare il tesoro nascosto.
Pubblicato il - Commenti ()
Matteo (13,24-43)
In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. [...] E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. [...] Al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio”».
Siamo grano e zizzania
«Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo» (Mt 13,37). Ancora tre parabole che, come il Vangelo di domenica scorsa, ci parlano del Regno dei cieli, «simile al lievito» (Mt 13,33) mescolato nella farina, e della forza della parola di Dio, «il più piccolo di tutti i semi» (Mt 13,32). Un seme buono, il seme dell’amore, che seminato nel mondo potrebbe produrre grano per tutti e risolvere le tante miserie che affliggono l’umanità. Ma ecco che «mentre tutti dormivano » (Mt 13,25) sui dolori del mondo, storditi dall’ingordigia, venne il nemico della dignità umana e seminò la zizzania che crebbe insieme al grano fino al tempo della mietitura.
Una parabola, questa del grano e della zizzania, che desta un’immediata attenzione e forse non è un caso che anche i discepoli, delle tre parabole ascoltate, chiedano al Maestro: «Spiegaci la parabola della zizzania» (Mt 13,36). Il timore di essere puniti alla fine dei tempi è tale che impedisce di comprendere il significato profondo della parabola, intimamente legata alle altre due, in cui la metafora del piccolo seme e del lievito ci assicurano che la parola di Dio, al tempo della mietitura, avrà convertito il mondo intero, quando sulla terra ci sarà «un solo gregge e un solo pastore» (Gv 10,16).
Il nemico che semina il male, il diavolo, il divisore, di cui parla il Maestro, è in questo caso quella parte di noi che, lasciandosi sedurre da falsi valori, ci allontana dal progetto di Dio e ritarda l’avvento del Regno.
In questo senso ognuno di noi è grano e zizzania e se con umiltà analizziamo noi stessi, i
nostri limiti e le nostre debolezze, possiamo imparare a eliminare la zizzania che cresce dentro di noi ogni volta che ci tiriamo indietro di fronte a un fratello che ci chiede aiuto o che implora il nostro perdono.
Nessuno di noi è totalmente grano o totalmente zizzania, l’esperienza ci insegna che la vita è un camminare con noi stessi in sentieri a volte spianati, a volte tortuosi. Ci sono giorni esaltanti e giorni in cui ci crolla il mondo addosso, situazioni in cui siamo capaci di grande generosità e situazioni in cui prevale il nostro egoismo, eppure siamo sempre noi stessi e così come siamo, grano e zizzania che crescono insieme, siamo amati dal Signore che ha dato la sua vita per la salvezza del mondo.
Forse, più che cercare di capire a quale categoria apparteniamo, dovremmo pregare affinché quel piccolo seme cresca dentro di noi fino a diventare un albero rigoglioso, per imparare da noi stessi a estirpare dal cuore dell’umanità la zizzania che soffoca il seme della pace. È necessario pregare con fede per la salvezza di tutti, consapevoli che «lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza» (Rm 8,26).
Pubblicato il - Commenti ()
Matteo (13,1-23)
Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte
cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».
La Parola che dà vita
«Ecco, il seminatore uscì a seminare» (Mt 13,3). Il seme è la parola di Dio, il seminatore è Cristo. Una parabola apparentemente di facile comprensione, soprattutto per gli ascoltatori dell’epoca che conoscevano le abitudini dei contadini palestinesi e le peculiarità dei loro campi. La strada, i terreni sassosi, i rovi e i terreni molto fertili rappresentano nella similitudine le diverse disposizioni dell’animo umano ad accogliere la Parola.
Ognuno sa che, pur smuovendo dentro di noi sentimenti ed emozioni, non sempre questo seme di vita eterna riesce a far germogliare i frutti necessari a renderci felici. Spesso, come spiega il Maestro, ascoltiamo senza comprendere e alle prime tribolazioni viene meno la nostra fiducia in Dio; ancora più spesso le preoccupazioni del mondo e le seduzioni della ricchezza soffocano la Parola e ci impediscono di imboccare i sentieri della speranza.
Troppe volte ci lasciamo prendere dal pessimismo e riflettendo sulle tante tragedie che affliggono l’umanità ci sentiamo impotenti, come in un deserto senza vita in cui nessun seme può generare frutti, dimenticando che «le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi» (Rm 8,18).
Troppo spesso crediamo di credere, ma non siamo realmente convinti del fatto che la parola di Dio per il suo essere forza creatrice, indipendentemente dalla nostra piena adesione, riesce a far nascere un fiore nuovo sulla terra brulla della nostra esistenza. Forse nemmeno i discepoli, all’inizio della loro predicazione, riuscivano a comprendere che quel regno di Dio, annunciato dal Maestro e iniziato in maniera poco incoraggiante, avrebbe ottenuto un così grande raccolto.
Nonostante le persecuzioni e i venti contrari del potere di ogni tempo, sarebbe arrivato nei secoli fino a noi, uomini del terzo millennio. Come un raccolto miracoloso, che solo un seme divino poteva produrre, il regno di Dio, come diceva il Maestro, è ancora vicino, è ancora tra noi, in noi. E «come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra» (Is 55,10), così la Parola non tornerà indietro fino a quando non avrà seminato nel cuore dell’umanità il seme della giustizia, della solidarietà, della pace, dell’amore.
Forse la parabola del seminatore più che distinguere i veri credenti dagli increduli, coloro che perseverano nella fede rispetto a quanti accolgono la Parola in maniera superficiale, vuol far comprendere a chi ha orecchi per intendere che anche nelle avversità della vita, anche quando la terra sembra essere oscurata dal male, non bisogna temere: la parola di Dio farà il suo corso, perché Gesù ha vinto il mondo.
Pubblicato il - Commenti ()
Matteo (11,25-30)
In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Nell’abbraccio del Padre
«Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). Come sempre la parola del Maestro risuona come una carezza consolatrice nel silenzio di un mondo, mai come oggi, in preda alla paura di non farcela. Paura della crisi economica, paura dell’inquinamento, delle catastrofi ambientali, paura delle malattie, paura di amare, di perdere le persone care, paura di vivere, paura di morire, paure umane, giustificate.
In un tempo in cui tutto appare instabile, precario, la paura di perdersi, di non saper affrontare le difficoltà della vita, è una paura che richiede un grande coraggio, non quello dei dotti e dei sapienti, ma quello dei piccoli, dei puri di cuore che con la sola forza della fede affrontano la vita nella sua verità drammatica e meravigliosa a un tempo: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita» (Mt 11,29).
Tutta la scienza di questo mondo non sa dare risposte a chi perde il posto di lavoro, alle famiglie che non arrivano a fine mese, ai bambini che muoiono di fame a causa di un’economia che ha fatto i suoi conti con il valore del denaro, ma non con quello della giustizia. La scienza non può fermare un terremoto, né sa guarire tutte le malattie, ma chi ha fede non ha più paura, sa che il «Signore sostiene quelli che vacillano e rialza chi è caduto» (Sal 145,14).
Anche nelle avversità vive la vita in una luce diversa, non sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, perché lo Spirito di Dio abita in lui (cf. Rm 8,9). Chi ha fede ha il coraggio delle idee che genera democrazia, giustizia, pace; il coraggio etico che rifiuta la massificazione e smaschera la menzogna di un mondo che ci vorrebbe tutti uguali rifiutando chi è diverso; il coraggio di lottare, con le armi dell’amore, alla ricerca di sé e degli altri, nell’accettazione dei propri limiti e di quelli altrui, per darsi una mano nei giorni felici e in quelli più bui e andare insieme alla sequela di Cristo dove ogni giogo diviene soave e leggero.
In un tempo che sembra uccidere ogni speranza, chi ha il coraggio della fede, chi segue Gesù e osserva la sua Parola, sente l’abbraccio di un Padre misericordioso e pietoso che, «lento all’ira e grande nell’amore» (Sal 145,8), sconfigge ogni morte e rivela ai piccoli la gioia del suo Regno. «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Mt 11,27) e Gesù rivelerà il suo volto a quanti con il coraggio della fede, anche nella tempesta, non avranno paura di andare controcorrente per annunciare al mondo il suo Vangelo.
Pubblicato il - Commenti ()
Giovanni (6,51-58)
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo»
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui».
Il pane del cielo
«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (Gv 6,56). In quel tempo, dopo aver moltiplicato pani e pesci, il Maestro ammaestrava la folla con un linguaggio duro, suscitando non poche incomprensioni: «Come può costui darci la sua carne da mangiare? » (Gv 6,52).
Stanco di una umanità che lo seguiva per i suoi prodigi, alla ricerca di un cibo che perisce, Gesù, pronto a dare sé stesso per la vita del mondo, mette a nudo la profondità del suo essere: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo» (Gv 6,51), il pane che dà la vita eterna, ben diverso dalla manna «che mangiarono i padri e morirono» (Gv 6,58).
Il Maestro promette di restare presente per sempre nel cuore della storia e di lì a poco, nella cena delle consegne, spezzando il pane e alzando il calice, avrebbe compiuto il suo più grande miracolo: l’istituzione dell’Eucaristia, vero cibo e vera bevanda. Il santissimo corpo e sangue di Cristo, realmente presenti in un pezzo di pane, ci consentono di partecipare alla cena del Signore. Il tempo si ferma e nel miracolo della transustanziazione, memoriale della salvezza, ogni volta che mangiamo Cristo, Cristo rimane in noi e noi in lui.
Un miracolo di cui non sempre siamo realmente consapevoli, che a volte si vela di scetticismo come per il sacerdote incredulo di Orvieto che solo dopo aver visto il sangue sgorgare dall’ostia che aveva nelle sue mani, comprese davvero. E proprio allora nacque la solennità del Corpus Domini, una festa cara alla pietà popolare che un tempo, nella semplicità dei giorni, era molto sentita. Quando le città erano a dimensione umana, anche i bambini partecipavano alle processioni, si addobbavano i balconi e si preparavano i fiori per il passaggio di Gesù Eucaristia. La solennità del Corpus Domini era una festa di colori, una festa che dava gioia perché la gente, lontana dai sofismi dei nostri giorni, con fede sincera s’inginocchiava al passaggio del Signore con cuore puro, certa della sua promessa: «Chi mangia questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,58).
Una festa che darà gioia anche a noi se al passaggio di Gesù Eucaristia, mentre piegheremo il ginocchio dinanzi a lui, ci sentiremo davvero in comunione con il suo corpo, con il suo sangue sparso per noi in remissione dei peccati. E «poiché vi è un solo pane» (1Cor 10,17) per essere in comunione con Cristo è necessario essere in comunione con i nostri fratelli, imparando a perdonare, a spartire il pane, a condividerlo, a moltiplicarlo come fece Gesù. Non possiamo essere in comunione con Cristo se mangiamo il pane da soli, perché «noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (1Cor 10,17), quello vivo, disceso dal cielo.
Pubblicato il - Commenti ()
Giovanni (3,16-18)
In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».
Provocati dal mistero
«Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (Gv 3,16). Nessun padre sarebbe disposto a sacrificare un figlio per la salvezza di altri, ma il Padre nostro che è nei cieli ci ama di un amore così grande, incommensurabile, incomprensibile, tanto da sacrificare il Figlio, «perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
Come un padre che con il suo amore rimane accanto ai figli anche quando sono lontani, così il Padre, quando richiama a sé il Figlio per glorificarlo, fa ancora un passo verso di noi. Per rimanerci accanto, per abitare in noi, manda un altro Consolatore, lo Spirito di verità che ci insegnerà ogni cosa: «In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi» (Gv 14,20).
Ed ecco che Dio si svela come azione d’amore, come eterna comunione tra Padre, Figlio e Spirito Santo, un Dio uno e trino, fondamento della nostra fede, della prima preghiera che ci viene insegnata da bambini con un semplice gesto, il segno della Croce, che rimanda alla
realtà in cui crediamo. Eppure la Trinità, che permea la nostra esistenza cristiana, si ri-vela
nella storia credente come mistero, che da sempre i grandi teologi hanno cercato di spiegare.
Indubbiamente è impossibile per l’uomo, infinitamente piccolo dinanzi alla grandezza del totalmente Altro, riuscire a comprendere l’essenza della Trinità, ma nemmeno sarebbe onesto sfuggire alla responsabilità di crescere nella fede senza lasciarsi provocare dal mistero del Dio trino e unico. Certo è più semplice fermarsi all’idea di un Dio onnipotente che risolve ogni problema, è più comodo abbandonarsi a fanatismi e superstizioni, che essere come viandanti in un cammino di ricerca, suffragato dall’umiltà del passo, e lasciarsi attrarre dal mistero trinitario di Dio, senza la presunzione di possederlo ma con il desiderio di esserne posseduti.
Il mistero certo rimane, ma se crediamo che «Dio è amore» (1Gv 4,8), allora forse comprendiamo che nell’unione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo si svela il segreto
della vita: abbattere ogni barriera che divide l’umanità in ricchi e poveri, padroni e schiavi,
cittadini ed extracomunitari, sani e malati, per riscoprire nell’unità l’armonia presente all’origine del mondo.
«Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore» (Es 34,6) guiderà i nostri passi, se ogni volta che facciamo il segno della Croce, con la semplicità di un bambino, esprimiamo la volontà di aprire la ragione al Cielo per essere con il Padre, il cuore agli altri per essere con il Figlio, di operare per il bene comune con la forza dello Spirito, vivo nel nostro agire, per sentire Dio, uno e trino, nel nostro cuore.
Pubblicato il - Commenti ()
Giovanni (20,19-23)
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Una tempesta d’amore
«Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22). Soffiando sui discepoli il Risorto dava vita all’uomo nuovo che, libero dalla schiavitù del passato, iniziava la sua corsa verso Dio. Pentecoste inaugura il tempo dello Spirito, che la Sacra Scrittura chiama Roah, termine ebraico, onomatopeico, il cui suono rimanda al rumore del vento nel deserto, perché l’uomo del deserto sa che solo il vento genera vita. E come il vento smuove la sabbia e rompe la staticità del paesaggio, come muove le onde del mare, come porta il polline di fiore in fiore per rigenerare la natura, così la Roah, la forza dello Spirito, dal fango genera ogni creatura: «Togli loro il respiro muoiono, e ritornano nella polvere. Mandi il tuo spirito e sono creati» (Sal 103,29).
Spesso rappresentato da una colomba, immagine riduttiva che ci porta lontano dal significato originario della Roah, lo Spirito Santo è come una tempesta d’amore che viene a lenire le nostre piaghe, a correggere i nostri passi, a vincere ogni paura, a trasformare ogni cosa. Annunciato da un rombo, con la forza di un vento gagliardo, lo Spirito Santo discese sui discepoli come lingue di fuoco a donare pace e a ricongiungere l’umanità che a Babele era stata divisa.
Un cedere quasi violento della natura fece sì che l’uomo cessasse di esistere per sé stesso
e si aprisse al linguaggio della vita: a ciascuno fu data «una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune» (1Cor 12,7). Unita a Cristo, mediante un solo Spirito, come le membra di un solo corpo (cf. 1Cor 12,12), l’umanità redenta parlava ora una lingua nuova, quella della comprensione universale, che non ha bisogno di parole perché tutti riconoscono il linguaggio dell’amore. Dal giorno di Pentecoste ogni credente in Gesù Cristo rincorre l’antico e mai tramontato evento di un cenacolo di paure spalancato definitivamente, rincorre le stesse parole, lo stesso desiderio: «Vieni, Spirito d’amore!».
Consapevole che il fuoco dello Spirito è capace di ristrutturare la storia, di smuovere ogni realtà stagnante e oppressiva, ogni credente leva al cielo il suo grido: «Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra». Un grido che sposa l’ebbrezza del salmo, un salto brioso di chi, come un bambino, cerca a mani tese di aggrapparsi al collo del padre: «Sei tanto grande, Signore, mio Dio» (Sal 103,1).
Il desiderio è legittimo, Pentecoste, fuoco dello Spirito, capace di formidabile vittoria su ogni circostanza avversa, su ogni mortale debolezza, è pronto a divorare chi lo cerca, ma chi lo cerca sa che dovrà uscire allo scoperto, venire fuori. Chi crede nel Risorto sa che Pentecoste è il tempo dell’impegno: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» (Gv 20,21).
Pubblicato il - Commenti ()
Matteo (28,16-20)
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Ora il cielo è aperto
«Andate dunque e fate discepoli tuttii popoli» (Mt 28,19), questo il mandato affidato agli apostoli, questo il senso ultimo dell’Ascensione di nostro Signore, quando «fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi” (At 1,9).
Da quel lontano giorno la terra si è ricongiunta al cielo, il cielo è dentro la terra. Terminata la storia umana di Gesù, in Cristo la terra diviene la base per il cielo. Più volte, nella sua vicenda terrena Gesù di Nazaret aveva raccontato quanto quel cielo fosse ampio, quanto grande fosse la misericordia di Dio che lo aveva inviato nella storia umana non per condannare il mondo, ma perché il mondo riscoprisse il volto autentico della sua sostanza,
l’origine della sua esistenza.
Crocifisso per i nostri peccati, ora il Padre aveva dato al Figlio risorto «ogni potere in cielo e sulla terra» (Mt 28,18). Con l’Ascensione il Maestro di Galilea tornava a casa e i discepoli quasi si aggrapparono ai suoi piedi, forse per trattenerlo ancora, forse ancora di più per potersi sollevare insieme a lui dal suolo e correre le vie del cielo. Non più dolore, non più affanno, non più lacrime.
Il cielo è il trono di Dio, la terra il suo sgabello, qui sul suolo degli avvenimenti la vicenda umana si snoda tra gioia e dolore, tra ore esaltanti e tempo di disperazione, ma ora il cielo è aperto, finalmente la risposta è data: possiamo ritornare a casa.
Ora sta a noi intraprendere la via del ritorno: «Uomini di Galilea perché state a guardare il cielo?» (At 1,11). L’uomo fatto di terra scorge la realtà del cielo e comprende di essere parte di un progetto al quale bisogna partecipare con risposte concrete, testimonianza di cielo nell’ora della terra. Il vero cristiano è, dunque, colui che con «uno spirito di sapienza e di rivelazione» (Ef 1,17) passa dalla quieta accettazione di chi guarda il cielo alla tormentata ricerca nell’impegno terreno. È colui che, libero da tutto ciò che impedisce di respirare l’aria del cielo, va e annuncia il Vangelo per far comprendere a quale speranza siamo stati chiamati e portare conforto a chi è solo, prigioniero delle ore, in un mondo contagiato dal pessimismo, da profondi squilibri, da laceranti ingiustizie.
L’uomo di Dio non si ferma a guardare il cielo, va e affronta la vita per quello che è con la certezza del passato, la consapevolezza del presente e il futuro negli occhi.
l cristiano va e ammaestra le genti e fa discepoli per insegnare a osservare tutto ciò che Gesù ci ha comandato ed educare gli uomini a costruire sulla terra la realtà del cielo con il coraggio, la fiducia, la certezza di chi ha nel cuore le parole del Signore: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Pubblicato il - Commenti ()
Giovanni (14,15-21)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei Comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei Comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».
Un testamento d’amore
«Non vi lascerò orfani» (Gv 14,18). Pronto ad affrontare la sua ora il Maestro consegna ai discepoli e a quelli che verranno il suo testamento: «Se mi amate, osserverete i miei Comandamenti... Chi mi ama sarà amato dal Padre mio» (Gv 14,15.21). Un testamento d’amore da fratello a fratello, il cui pensiero è la felicità dei suoi cari, una felicità assicurata da un ultimo dono, un’ultima promessa: «Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete» (Gv 14,19). Sembra quasi di acchiappare il sussurro dalle sue labbra: non siate tristi, io torno al Padre, ma vi lascerò il mio amore, vi invierò il Consolatore, «un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità» (Gv 14,16-17), che renderà presente l’amore mio e del Padre.
Gesù sapeva che il mondo, accecato dal potere, vinto dall’odio, preda di falsi valori, non lo avrebbe riconosciuto, per questo ci esorta a osservare i suoi Comandamenti, perché chi li osserva è colui che lo ama e chi lo ama sarà amato dal Padre (cf. Gv 14,21) e, attraverso lo Spirito, Cristo vivrà in lui.
Chiamati, dunque, come pecore in mezzo ai lupi, a dare ragione della speranza che è in noi (cf. 1Pt 3,15) se, uniti nell’amore, riusciremo a entrare per la porta stretta, usciremo per la larga porta di un cuore rinnovato e redento dal Signore. L’amore ci salverà, sarà la nostra forza, il segno che il nuovo mondo è già iniziato.
Da come ci ameremo, gli altri capiranno che siamo di Cristo, luce del mondo per indicare a tutti gli uomini la strada del ritorno a casa. Se il nostro amore sarà amore che sana, che guarisce, che risponde alle attese della storia, se sarà amore salvifico, amore di pace e di giustizia, se saprà superare la legge, allora Cristo si manifesterà a noi, perché dove ci sarà amore, lì ci sarà Dio. L’amarezza e la delusione delle inevitabili sconfitte potranno insidiare il nostro cammino, ma se avremo misericordia per chi cade, se scioglieremo i legacci che opprimono il loro cuore, se daremo speranza ai disperati e pace agli infelici, se sapremo perdonare il torto subito, lo Spirito di verità ci renderà capaci di rispondere alla chiamata del Signore con il coraggio del suo amore.
Affinché la parola del Maestro corra veloce, attraversi gli oceani e arrivi al cuore di tutti i popoli, Pietro ci ricorda che Cristo «è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio» (1Pt 3,18). Se allora rimaniamo nel suo amore, anche quando il mondo crederà di aver vinto la sua battaglia contro di noi, la nostra afflizione muterà in gioia perché il Signore ha promesso: «Non vi lascerò orfani: verrò da voi» (Gv 14,18). Coraggio! Sta per nascere l’umanità redenta.
Pubblicato il - Commenti ()
Giovanni (14,1-12)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. [...] Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre».
La via verso il Padre
«Signore, mostraci il Padre» (Gv 14,8). La richiesta che Filippo fa al Maestro è la stessa richiesta che in maniera inconsapevole facciamo anche noi quando, di fronte a un dolore o ai mille problemi che ci affliggono, vorremmo una risposta immediata da Dio. Anche i discepoli pensavano che se c’è un Dio che salva deve salvarci dalla sofferenza, deve risponderci subito.
In fondo, Gesù sapeva che il suo Vangelo era per molti solo un’appendice sul bisogno di risposte tempestive. Più compiva miracoli, più avvertiva l’equivoco sul suo annuncio. Egli guariva per annunciare l’amore del Padre e salvare per sempre l’uomo dal suo limite, ma era consapevole che la maggioranza delle persone lo cercava per i suoi prodigi e non per quello che insegnava.
Il Maestro capiva che non era facile far coincidere il suo disegno di salvezza, la parola nuova da dire all’umanità, con il desiderio degli uomini. Più volte aveva spiegato che solo la fede salva, più volte dopo aver compiuto un miracolo aveva detto: «La tua fede ti ha salvato» (Mc 10,52), proprio per far capire che la fiducia in Dio è l’unica strada per ottenere
il miracolo più grande, quel miracolo che non solo guarisce da una infermità, ma dà significato alla storia e rende degni della vita anche nel giorno della prova.
Il Maestro sapeva che credere ai miracoli è semplice, credere per amore della verità è una scelta decisiva. D’altronde, sapeva anche che il desiderio di vedere il Padre è un desiderio legittimo che risponde al bisogno di entrare in contatto diretto con Dio per potergli parlare
a viso aperto, faccia a faccia, ed essere sicuri della sua vicinanza. E, proprio perché è un desiderio naturale, non ci viene negato, a patto di comprendere che Dio ha scelto di mostrarsi nel Figlio.
La visione di Dio giunge a noi attraverso la sua Parola, attraverso Gesù, Verbo incarnato: «Io sono nel Padre e il Padre è in me» (Gv 14,11). Alla richiesta di Filippo, Gesù infatti risponde: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). Una risposta che riflette il piano d’amore che Dio ha sull’uomo, una risposta che contiene in sé l’annuncio di un cielo ritrovato e apre la strada per arrivare al Padre: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6).
Vedere il Padre è dunque possibile se seguiamo Gesù, se crediamo alle sue opere e facciamo nostra la sua Parola, se la mettiamo in pratica, se obbedienti alla volontà di Dio ci abbandoniamo a lui, come un bimbo in braccio a sua madre. Allora conosceremo il Padre e non temeremo più nulla, perché come un’eco che arriva da lontano verrà a confortarci la voce del Maestro: «Non sia turbato il vostro cuore» (Gv 14,1).
Pubblicato il - Commenti ()
Giovanni (10,1-10)
In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. [...] Io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».
La voce di chi dà la vita
«Io sono la porta delle pecore» (Gv 10,7). È una porta stretta quella che bisogna attraversare per lasciarsi alle spalle una vita senza senso, dove nella futilità dei giorni, il sopruso dei potenti della terra, che soffocano ogni anelito di libertà e di giustizia, ci induce a credere che non ci sia nulla da fare per cambiare questo mondo.
Eppure, in ogni epoca della storia c’è sempre una voce che chiama l’umanità a ritrovare sé stessa, a rinascere dall’alto, quando il deserto delle speranze provoca fame di pane diverso. Come un tarlo nella mente, c’è sempre una voce che propone di distruggere ogni torre che, eretta con superbia per sconfiggere Dio, ha procurato solo morte.
È la voce dei profeti, è il segnale di una presenza luminosa, di altro dentro l’uomo, che muove la speranza di uscire dal fango. Voce di dentro che rimanda alla Parola creatrice, come un’eco che nel tempo ricorda all’uomo la sua appartenenza all’alto.
Una voce che, ora debole, ora forte, ascoltata o rinnegata, è sempre presente nel deserto della storia umana. Una voce piovuta dal cielo, come acqua che irrora la terra, così è la voce dei profeti che nel corso dei millenni annunciano ciò che ascoltano al di là del muro che separa il tempo dall’eterno. Perenne provocazione nel cuore sofferente dell’uomo, essa suscita il desiderio del cielo nella solitudine di una terra malata. In ogni tempo c’è sempre chi è pronto a gridare all’uomo l’uomo, per spronarlo a trovare, anche nelle piaghe di una storia degradata dal male, il coraggio della sua origine divina.
Tra tutte sovrasta la voce del Buon pastore, che con parole di vita eterna «chiama le sue pecore, ciascuna per nome» (Gv 10,3). Una voce che invita ogni uomo a non lasciarsi stordire dalle voci del mondo, per ascoltare la voce della coscienza e ritrovare la sua dignità creaturale. Vincastro e bastone della nostra speranza, il Buon pastore, pronto a lasciare il gregge per ritrovare la pecora smarrita, non ha paura di affrontare a viso aperto il lupodell’ingiustizia, della miseria, della morte.
«Salvatevi da questa generazione perversa!» (At 2,40), gridava Pietro alle pecore disperse del suo tempo. E anche noi se vogliamo salvarci da un’epoca che vorrebbe portarci lontano dalla nostra dignità, non lasciamoci ingannare dai mercenari. Tra le voci di ladri e briganti, che rubano la lana delle pecore vendendo menzogne, dobbiamo imparare a riconoscere la voce del Buon pastore che ha dato la vita per le sue pecore, affinché «vivessimo per la giustizia» (1Pt 2,24). Solo allora quella porta stretta, ma sempre aperta, ci condurrà a verdi pascoli e ad acque tranquille e abiteremo «nella casa del Signore per lunghissimi anni» (Sal 22,6).
Pubblicato il - Commenti ()
Luca (24,13-35)
Due dei [discepoli] erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo [...] Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero.
Si aprirono i loro occhi
«Resta con noi, perché si fa sera» (Lc 24,29). Come tanti di noi, quando i giorni felici sono al tramonto e lungo il cammino cala la sera, i discepoli di Emmaus si chiedevano come fosse possibile continuare a vivere se i sogni naufragano nel dolore, se tutto si riduce a una manciata di ore. Anche loro, che pure avevano visto il Maestro far camminare gli zoppi e vedere i ciechi, moltiplicare pane e pesci, adesso che era morto sentivano una profonda tristezza: il passato e il presente, tutto diviene insopportabile se nell’ora della prova non c’è possibilità di un futuro riscatto.
Quando la nostra storia ci appare senza senso è facile cadere nella tentazione di non credere più a nulla: la fede ci appare d’improvviso l’avvenire di un’illusione, i nostri occhi accecati dal dolore ci impediscono di riconoscere il Signore nelle persone che ci sono accanto. E quando alle nostre preghiere non arrivano risposte immediate, quando la nostra strada sembra portarci a una meta diversa da quella desiderata, Gesù ci appare un
forestiero incontrato per caso lungo il cammino della nostra vita.
Quando la malinconia della sera prende il sopravvento, incapaci di avvertire la compagnia del Maestro, non ci accorgiamo che Gesù è sempre sulla nostra strada, sempre attento a camminare al nostro fianco quando i sentieri della vita sono quelli del dolore.
Troppo spesso, chiusi in noi stessi, schiacciati dal peso delle nostre croci non vediamo le croci degli altri, non ci lasciamo aiutare, né siamo disposti a offrire aiuto, dimenticando che solo nella condivisione si può vincere ogni dolore, perché solo la compagnia facilita il passo lungo la via. «Resta con noi perché si fa sera», è allora la richiesta di chi, sulle strade del mondo, cerca un compagno sincero per affrontare la notte. Non è un caso che i discepoli di Emmaus, che pure avevano creduto alla parola e alle opere del Maestro, sul calar della sera non riconobbero la sua voce, ma nel vederlo spezzare il pane: «si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (Lc 24,31).
«Resta con noi, perché si fa sera», la tua presenza ci aiuterà a superare la notte, è la preghiera di quanti, sicuri che il Signore sarà al loro fianco nel tratto di strada che manca alla meta, spezzano il pane con l’affamato. Se sapremo schierarci senza paura dalla parte di chi soffre, di chi è nel bisogno, anche noi sentiremo ardere il nostro cuore, riconosceremo la voce del Maestro che parla di vita, quella redenta, quella amata dal Padre. Allora con fede sincera leveremo al cielo la nostra preghiera: «Proteggimi, o Dio, in te mi rifugio... Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra» (Sal 16,1.11).
Pubblicato il - Commenti ()
Seconda domenica di Pasqua o della divina misericordia
Giovanni (20,19-31)
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!».
Mio Signore e mio Dio
«Pace a voi!» (Gv 20,19), con queste parole il Risorto, entrato nel cenacolo, salutò i suoi discepoli, e come il Padre soffiò sul primo uomo per donargli la vita, così il Maestro soffiò su di loro per rigenerarli a nuova vita: «Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22). Quello stesso Spirito che in principio aleggiava sulle acque, ora entrava nella storia di una umanità nuova a portare pace, non la pace che offre il mondo, ma quella interiore di chi credendo in Cristo, morto e risorto, non teme più nulla. Anche nell’ora del dolore chi ha incontrato Gesù sa ripetere con fede: «Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza» (Sal 118,14).
La sera di quel giorno i discepoli, ancora chiusi nel cenacolo per timore dei Giudei, gioirono nel vedere Gesù, solo ora potevano comprendere che «il suo amore è per sempre» (Sal 118,2).
Solo Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, proprio quel giorno, quando il Maestro entrò nel cenacolo, non era lì. Fu l’unico dei discepoli a non averlo visto risorto. L’unico, che aveva avuto il coraggio di uscire dal cenacolo per capire cosa stesse accadendo ai seguaci del Maestro, non aveva avuto la gioia di rivederlo, si era perso il dono della sua presenza, quel soffio di vita nuova.
Escluso dalla festa, non gli rimaneva altro che l’amarezza e l’imbarazzo di credere omeno al racconto degli amici: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi... io non credo » (Gv 20,25). Come chi nel dolore cerca il Signore e, non riuscendo a vederlo, nel cercarlo lo nega, così Tommaso, quando poi vide il Risorto, grato si perse con lo sguardo nella vita risorta. Il discepolo non più incredulo non chiese più niente, nemmeno toccò il Maestro, non trapassò i fori delle suemani, ma si abbandonò a lui e, inginocchiatosi ai suoi piedi, gli gridò il suo amore: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28).
Icona dell’incredulità, Tommaso, proprio per la sua caparbietà nel voler toccare con mano ciò in cui credeva, per il suo tormento sincero, contrariamente a quanto si pensa è invece icona del vero credente. Chi non si accontenta di quanto affermano gli altri, di una fede accettata per tradizione culturale, chi non teme di porsi domande, chi non si ferma di fronte agli ostacoli che la ragione pone alla fede, come sant’Agostino, crede per comprendere e comprende per credere.
Chi risponde con il cuore, in prima persona alla domanda del Maestro: «Chi dice la gente che io sia?» (Mt 16,13) ha davvero incontrato il Risorto. Sarà beato perché crede senza aver visto e in pace con sé stesso, rigenerato dal soffio dello Spirito, come Tommaso, superato ogni dubbio, saprà dire: «Mio Signore e mio Dio!».
Pubblicato il - Commenti ()
|
|