Don Sciortino

di Card. Tettamanzi

In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO ROMANO, curata dal cardinale Dionigi Tettamanzi.

 

13 novembre 2011 - XXXIII del Tempo ordinario


Matteo (25,14-30)


«Si presentò anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, [...] avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha”».


Talenti da far fruttare

«A chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha» (Mt 25,29). Ancora una parabola sulla fine dei tempi con cui il Maestro spiega come partecipare alla gioia del Regno, facendo fruttare i doni che il Signore dà a ognuno di noi: «A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno » (Mt 25,15).

Ogni uomo, unico e irripetibile, è diverso dall’altro: c’è chi è più intelligente, chi più creativo, chi è più forte, in perfetta salute, chi è più fragile nel corpo e nello spirito, ma ognuno ha sempre qualcosa da dare. Ognuno secondo le sue capacità può e deve contribuire alla costruzione di un regno di pace e di amore nella società in cui vive.

Il Signore non ci chiede mai di più di quanto siamo in grado di fare, ma sempre premia lo sforzo profuso da chi, affamato di giustizia, lavora con fedeltà nella sua vigna: «Della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e avrai ogni bene» (Sal 28,2). Non importa se ha ricevuto in consegna cinque talenti o solo due, l’importante è farli fruttare.

Certo, non tutti siamo in grado di assurgere alle vette della scienza e produrre un vaccino che libera l’umanità da un male incurabile, non tutti siamo capaci di realizzare un’opera d’arte che eleva lo spirito, non tutti sappiamo fare grandi cose per il bene dell’umanità, ma ognuno, anche con un solo talento, «fedele nel poco può avere potere su molto» (cf. Mt 25,21).

Ognuno può fare una piccola cosa per gli altri: una carezza a un bimbo che piange, un’ora di compagnia a chi è solo, un pasto caldo a chi ha fame. Chiunque ha il coraggio di rischiare, di investire il suo talento a beneficio degli altri, avrà la sua ricompensa e sentirà nel silenzio del cuore la voce di Dio che gli sussurra: «Prendi parte alla gioia del tuo padrone» (Mt 25,21).

Chi, invece, per timore di essere escluso da una società che induce a perseguire solo i propri interessi, chi per paura di perdere quello che ha non si cura degli altri, chi pensando solo a sé stesso nasconde il suo capitale per metterlo al sicuro e vivere in pace, sarà escluso dalla gioia del regno: «Quando la gente dirà: “C’è pace e sicurezza!”, allora d’improvviso la rovina li colpirà» (1Ts 5,3).

A chi, come un «servo malvagio e pigro» (Mt 25,26), sotterra il suo talento nell’ozio o nella noia, a chi lo spreca sciupando la propria vita in futili piaceri, in lussurie e ubriachezze, a chi dorme sul dolore del mondo all’improvviso gli «verrà tolto anche quello che ha» (Mt 25,29). Come sorpreso da un ladro di notte, gli sarà portata via ogni possibilità di essere felice. «Beato», allora, «chi teme il Signore e cammina nelle sue vie» (Sal 128,1).

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6 novembre 2011 - XXXII del Tempo ordinario


Matteo (25,1-13)


«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. [...] A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi”. [...] Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».


Una risposta personale

«Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora» (Mt 25,13). La parabola delle dieci vergini allude al ritorno di Cristo alla fine dei tempi, quando tutti saremo chiamati ad andare incontro allo Sposo. L’allegoria è desunta dalle usanze dell’epoca, ma la similitudine delle vergini serve al Maestro per indicare quella condizione interiore di purezza, indispensabile per accogliere la parola di Dio dentro di sé, come Maria che nella sua verginità accolse il Verbo nel suo grembo. Dio non può entrare nel cuore di chi, amando altro più di lui, non è pronto, con le lampade accese, ad accoglierlo nella sua vita.

L’attesa presuppone la verginità del cuore e una fede sempre viva, perché chi aspira all’unione totale con il Signore, come le vergini sagge, insieme alle lampade prende anche «l’olio in piccoli vasi» (Mt 25,4). I cristiani, per essere luce del mondo, devono alimentare la loro fede, fragile come piccoli vasi, attingendo alla forza dello Spirito, alla grazia di Dio, che come l’olio mantiene acceso l’amore per il Signore.

Chi invece lungo la strada che conduce alle nozze si addormenta ogni volta che lo Sposo ritarda, come le vergini stolte, corre il rischio di trovarsi con le lampade quasi spente, per mancanza di olio. La sua fede si affievolisce ogni volta che Dio sembra non rispondere immediatamente alle sue richieste e a nulla serve, come nella parabola, chiedere aiuto alle vergini sagge: «Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono» (Mt 25,8).

Nessuno può donare la propria fede a un altro, si può testimoniare con la propria vita la piena adesione a Cristo, si può aiutare chi è nel bisogno, consolare chi è afflitto, dare speranza a chi è disperato, ma la risposta che ognuno dà a Dio è necessariamente personale. Le vergini sagge, infatti, risposero: «No... andate piuttosto dai venditori e compratevene» (Mt 25,9).

Il rifiuto delle vergini sagge non è dunque un atto di egoismo, piuttosto sta a significare che il dono della fede non arriva per pura magia ma implica una scelta, l’adesione a un progetto di salvezza, un “andare” verso, un voler “prendere” dalla parola di Dio quell’olio che ci rende capaci di affidarci completamente al Signore, aspettando i suoi tempi che mai coincidono con le nostre attese. Chi anela all’incontro è capace di vegliare e nell’attesa del giorno e dell’ora s’impegna con saggezza nella ricerca della Via, della Verità, della Vita, perché «La sapienza... si lascia trovare da quelli che la cercano» (Sap 6,12).

La fede nasce dal desiderio intimo, personale, di andare incontro allo Sposo; nasce nel cuore di chi è assetato di vero amore: «Ha sete di te, Signore, l’anima mia» (Sal 63,2).

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30 ottobre 2011 - XXXI del Tempo ordinario


Matteo (23,1-12)


Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. [...] Voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo».


Il grembiule dell’umiltà

«Chi si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato» (Mt 23,12). Con questo paradosso, il Maestro insegna ai suoi discepoli la via dell’umiltà che, diversamente dalla falsa modestia, è l’unica strada per essere grandi agli occhi del Padre. Gesù, che sempre guarda al cuore delle persone e mai all’apparenza, mette in guardia i suoi discepoli dalla tentazione di mettersi in cattedra, come gli scribi e i farisei che, seduti sulla cattedra di Mosè, «dicono e non fanno» (Mt 23,3).

L’annuncio del Vangelo è un lavoro faticoso che non si esaurisce in un atteggiamento teorico e presuntuoso di chi, ritenendosi migliore degli altri, unico depositario della verità, si erige a giudice e maestro: «Non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro» (Mt 23,8). Il Vangelo non si annuncia «occupando posti d’onore nei banchetti» (Mt 23,6), ma con la testimonianza, mettendo la propria vita al servizio degli altri. Sull’esempio di Gesù, che «non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò sé stesso assumendo la condizione di servo... e umiliò sé stesso... fino alla morte» (Fil 2,6-8), i discepoli del Signore devono saper indossare il grembiule dell’umiltà.

Soprattutto chi occupa i primi posti, se vuol essere discepolo di Cristo, deve essere di insegnamento con una pratica esistenziale che coinvolge le scelte, orienta le determinazioni, dà senso al proprio essere nella società in quel particolare ruolo di privilegio. E invece di tendere alla conquista del consenso, «dei saluti nelle piazze» (Mt 23,7), si avvale del suo ruolo per abbattere le strutture dell’ingiustizia.

Spesso chi occupa i primi seggi usa il suo potere per professare falsi valori e indottrinare gli uomini con un moralismo ipocrita, per schiacciarli sotto il peso del peccato, legando «fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono toccarli neppure con un dito» (Mt 23,4). Chi annuncia Cristo, invece, educa alla libertà della coscienza per rendere gli uomini capaci di discernere, in piena maturità e consapevolezza, il bene dal male.

I discepoli di Gesù non annunciano il Vangelo «per essere ammirati dalla gente» (Mt 23,9), ma per liberare gli uomini da quel senso di colpa che imprigiona il rapporto con Dio in un senso di oppressione, anziché portare alla pace interiore propria di chi, affidandosi al Signore, si sente «quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre » (Sal 131,2).

Su quanti, facendosi chiamare «guide», usano il potere per i propri interessi, un giorno tuonerà il monito del Signore: «Voi invece avete deviato dalla retta via e siete stati d’inciampo.

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23 ottobre 2011 - XXX del Tempo ordinario


Matteo (22,34-40)


Un dottore della Legge lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il più grande comandamento?». Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il più grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».


Un amore concreto

«Maestro, nella Legge, qual è il più grande comandamento?» (Mt 22,36). È la domanda che un dottore della Legge pone a Gesù «per metterlo alla prova» (Mt 22,35). Probabilmente sperava che considerasse un precetto più grande degli altri, ben sapendo che la Legge andava osservata nella sua interezza. Ma Gesù risponde: «Amerai il Signore tuo Dio... e il tuo prossimo come te stesso» (Mt 22,37), ribadendo così l’importanza e soprattutto l’inscindibilità del primo e del secondo comandamento, per sottolineare l’unico principio che dà valore agli innumerevoli precetti.

Contro la tentazione di frazionare la parola di Dio in un’infinità di norme per giustificare la propria condotta con faziose interpretazioni e false questioni morali, Gesù, coerente al suo
insegnamento, afferma: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22,40).

Non può esservi infatti nessun comandamento che prescinda dall’amore: «Non molesterai il forestiero... Non maltratterai la vedova o l’orfano... Se tu presti denaro a qualcuno... non ti comporterai con lui da usuraio » (Es 22,20-24). È evidente che al di là delle tante situazioni contingenti, chi agisce con amore e per amore, in qualsiasi contesto, può essere certo di aver agito secondo la legge di Dio.

Di fatto, contro la sterile osservanza di precetti, legati più alle tradizioni che all’amore per il Signore, Gesù più volte ribadisce il valore dell’intenzione. Ai farisei che accusavano i suoi discepoli di non lavarsi le mani prima di toccare il cibo, risponde: «Non quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello che esce dalla bocca» (Mt 15,11).

Ciò che a Dio importa sono i sentimenti che l’uomo ha dentro di sé: «Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi» (Mt 15,19). E l’amore per Dio diventa pura astrazione se, invece di esprimersi nell’amore per il prossimo, si perde in pratiche rituali: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

L’amore per Dio si misura nel mettere in pratica la sua Parola: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare» (Mt 25,35). Non c’è altro modo di amare il Signore che amare il prossimo: «Se uno dicesse: “Io amo Dio”, e odiasse il suo fratello, è un mentitore» (1Gv 4,20). E l’amore per il prossimo parte dall’amore di sé, non in termini narcisistici, ma come rispetto di sé: del nostro corpo, tempio dello Spirito, dei nostri limiti e dei nostri talenti, nel riconoscimento della nostra dignità di creatura amata da Dio, così come siamo.

«Ama e fa’ ciò che vuoi», diceva sant’Agostino, e allora cominciamo ad amare noi stessi e ameremo il prossimo, ameremo Dio «con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente» (Mt 22,37).

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16 ottobre 2011 - XXIX del Tempo ordinario


Matteo (22,15-21)


I farisei [...] mandarono da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, dì a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».


La via del Vangelo

«Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21). Con questa emblematica affermazione il Maestro risponde, senza possibilità di replica, all’ipocrisia dei farisei che, cercando di trarlo in inganno, in presenza degli erodiani gli chiesero: «È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?» (Mt 21,17).

Una domanda astuta per trascinare il Maestro sul terreno politico e fargli dichiarare apertamente da che parte stava: se avesse risposto “sì”, avrebbe riconosciuto l’autorità divina dell’imperatore; se avesse risposto “no”, sarebbe stato ritenuto colpevole di sollevare il popolo contro Roma. Ma Gesù non cade nella trappola: sapeva bene che ogni potere viene da Dio, tanto che anche a Pilato avrebbe risposto: «Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto» (Gv 19,11). Sapeva anche di essere il Re dei re, ma il Re di un regno che non è di questa terra e pertanto non gli importava di concedere ai potenti del mondo quanto fosse loro dovuto.

Intento a insegnare «la via di Dio secondo verità» (Mt 21,16), come gli stessi farisei affermano, non aveva alcuna intenzione di mettere gli uomini contro le istituzioni, ma a quanti, ancora oggi, gli chiedono quale sia la via di Dio, risponde: «Seguimi!» (Mt 9,9), «Io sono la Via» (Gv 14,6). Al Maestro non interessano le nostre preferenze politiche, l’importante è seguire la sua via, quella del Vangelo, «per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi» (Lc 4,18).

Se nelle nostre scelte guardiamo a Cristo, poco importa da che parte stiamo, ma se abbandoniamo i poveri, se siamo prigionieri dei nostri interessi, accecati da pregiudizi e oppressi da condizionamenti economici che ci impediscono di seguire la via di Dio, allora non abbiamo alibi.

Spesso, in questo nostro tempo, dove l’apparenza vale più della sostanza, siamo pronti a svendere noi stessi pur di fare carriera e, accettato ogni sorta di compromesso, ci giustifichiamo dinanzi a Dio pensando con malizia di poter distinguere le ragioni della fede da quelle della vita pratica, e così facendo interpretiamo in maniera erronea la massima di Gesù.

Nel dire: «Date a Cesare quello che è di Cesare», il Maestro non intende creare una sorta di dualismo tra l’autorità dello Stato e quella di Dio. Egli ci chiede di comportarci secondo Dio e non secondo gli uomini e costruire una società che renda giustizia agli ultimi della terra. Nessuno è costretto a seguire la via di Cristo, ma chi vuol far parte del Regno è chiamato a testimoniare il Vangelo in ogni circostanza della vita e cantare «al Signore un canto nuovo» (Sal 96,1).

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9 ottobre 2011 - XXVIII del Tempo ordinario


Matteo (22,1-14)


«Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. [...] Allora il re [...] disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. [...] Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».


Chiamati alla vera gioia

«Molti sono chiamati, ma pochi eletti» (Mt 22,14). Come il re della parabola mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze del figlio, così noi tutti siamo chiamati a partecipare alla gioia del Regno. Una gioia diversa da quella che propone il mondo, perché chi accetta l’invito, chi aderisce al progetto di Cristo, assapora la vita in maniera diversa. Libero dalla schiavitù del possesso, non si lascia sedurre da falsi bisogni, né si lascia guastare la gioia della festa da inutili affanni. Iniziato «alla sazietà e alla fame» (Fil 4,12), fiducioso cammina
nei sentieri di Dio «che colmerà ogni bisogno » (Fil 4,19).

La sua gioia non deriva dal benessere materiale, ma da quello interiore di chi, in pace con sé stesso, è felice di spartire il pane con gli affamati: «Bontà e fedeltà gli saranno compagne tutti giorni della sua vita» (cfr. Sal 23,6). Chi si appresta a partecipare alla festa sa essere felice di ogni piccola cosa e quando il dolore visita la sua storia non teme alcun male, ma prega come il salmista: «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla» (Sal 23,1).

La gioia del Regno, a cui tutti siamo chiamati, ricchi e poveri, sani e malati, «cattivi e buoni», la sperimenta chi nel miracolo della vita, aperta da Cristo all’eternità, indossato l’abito della festa, sa cogliere l’infinita bontà del Signore che «per tutti i popoli preparerà un banchetto di grasse vivande... asciugherà le lacrime su ogni volto» (Is 25,6.8).

Non tutti, però, sono interessati a partecipare al banchetto nuziale, chi è preso dai propri affari, intento ad accumulare ricchezze, preferisce rinunciare alla festa. Altri, invece, accettano l’invito ma, come nella parabola, non si curano di indossare l’abito nuziale, un abito pulito e decoroso: «Beati coloro che lavano le loro vesti» (Ap 22,14).

Certo, sembrerebbe un paradosso se invitati alle nozze anche quanti vivono ai crocicchi delle strade, poi si butta fuori chi non ha un vestito adeguato. Qual è allora l’abito a cui si allude? È l’abito di chi abbandona le vie degli empi e si lascia rivestire dalla grazia di Dio: «Mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto col manto della giustizia» (Is 61,10). Molti, infatti, pur essendo chiamati, continuano a camminare nelle tenebre e legati mani e piedi alle loro stesse menzogne, si sentono fuori dalla gioia del Regno: «Fuori... chiunque ama e pratica la menzogna» (Ap 22,15).

Se allora vogliamo essere felici, indossiamo la veste splendente, quella delle opere giuste (cfr. Ap 19,8), l’abito nuziale di chi, illuminato da Cristo, partecipa con fede alla gioia della festa. Consapevole delle proprie debolezze, ripete a sé stesso: «Tutto posso in colui che mi dà forza» (Fil 4,13).

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2 ottobre 2011 - XXVII del Tempo ordinario


Matteo (21,33-43)


Gesù disse: «[...] Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». E Gesù disse loro: «[...] Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».


Guidati dalla giustizia

«Avoi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti» (Mt 21,43). Ancora una volta il Maestro usa parole dure per i capi dei sacerdoti che avrebbero dovuto guidare sulla via del Signore il popolo eletto. Ancora una parabola che paragona il regno dei cieli a una vigna dove i contadini, invece di lavorare per il padrone, pensano solo ai propri interessi, fino a uccidergli il figlio per accaparrarsi l’eredità. Anche questa volta la similitudine è di facile comprensione: il padrone è Dio e il figlio che viene ucciso è il Cristo, che inviato dal Padre affinché la sua vigna producesse frutto, fu crocifisso dagli interessi del mondo, venduto per trenta denari.

E ancora una volta la parabola riguarda non solo i giudei dell’epoca, ma anche noi che, pronti a svendere la verità per ottenere ricchezza, alla Parola preferiamo le parole menzognere di un mondo che mette al primo posto il benessere materiale e l’interesse personale, calpestando ogni principio etico e ogni criterio di giustizia. L’unica eredità che si vorrebbe da Dio è la sua onnipotenza per sentirsi al di sopra del bene e del male e ottenere ogni cosa, a qualsiasi costo: la fame, la disoccupazione, le nuove povertà, le guerre, il terrorismo, tutto fa parte del gioco. Dio «si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi» (Is 5,7).

Tutto si sacrifica sull’altare del potere e del denaro, pur di guadagnare il mondo intero, e così facendo la nostra vigna anziché produrre uva buona produce acini acerbi (cfr. Is 5,2). E invece di sentirci felici siamo tutti preda di un disagio interiore. La dipendenza ossessiva
dal denaro, lungi dal produrre benessere, ha imprigionato l’umanità in uno stato di malessere individuale e sociale: chi ha già tutto, invece di godersi la vita, è afflitto dalla preoccupazione di difendere il suo capitale e guadagnare sempre di più, chi non ha nulla è angosciato dall’impossibilità di vivere con dignità. Il vuoto interiore da un lato e lo stomaco vuoto dall’altro finiscono col determinare quelle inevitabili drammatiche contrapposizioni tra chi ha tutto e chi niente, allontanando sempre più ogni possibilità di pace e di giustizia.

Se invece facessimo oggetto dei nostri pensieri «quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro» (Fil 4,8), potremmo chiedere al Signore: «Visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato» (Sal 80,15-16). Se ci lasciassimo guidare dalla giustizia di Dio, potremmo chiedergli ogni cosa «con preghiere, suppliche e ringraziamenti»
(Fil 4,6). Avremmo il centuplo quaggiù e l’eternità: «E il Dio della pace», scriveva Paolo, «sarà con voi!» (Fil 4,9).

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25 settembre 2011 - XXVI del Tempo ordinario


Matteo (21,28-32)


Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».


Il Regno è per tutti

«In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio» (Mt 21,31). Un’affermazione forte, questa con cui il Maestro spiega ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo il significato della parabola dei due figli che, invitati dal padre a lavorare nella vigna, si comportarono in maniera opposta: il primo rispose: «“Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò» (Mt 21,30). Il secondo rispose: «“Sì, signore”. Ma non vi andò» (Mt 21,29).

La parabola sembrerebbe di facile interpretazione, tanto che alla domanda del Maestro: «Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?» (Mt 21,28) i capi dei sacerdoti risposero senza alcun dubbio, come avremmo risposto anche noi: «Il primo» (Mt 21,31). Se dunque avevano compreso il senso della parabola, perché il Maestro usò nei loro confronti parole così dure?

Innanzitutto, va chiarito che i giudei, ritenendosi il popolo eletto, osservanti della legge, non avevano mai accettato che Gesù frequentasse pubblicani e prostitute, né potevano comprendere che il Regno di Dio fosse aperto a tutti, anche ai pagani, ai non giudei. Certo era più comodo ritenersi giusti per il solo fatto di appartenere alla razza ebraica, che impegnarsi in un reale cammino di fede, di giustizia, di carità.

Essi, infatti, non avevano creduto a Giovanni Battista che, venuto sulla «via della giustizia» (Mt 21,32), aveva chiamato tutti al pentimento. Era più comodo osservare ogni precetto pedissequamente, al di là della reale conversione del cuore, che lavorare davvero nella vigna del Signore. Loro non potevano, o non volevano, comprendere che seguire le vie di Dio implicasse ben altra fatica, perché non chi dice: «“Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli» (Mt 7,21).

A Dio non interessa una fede professata con le labbra, ma non con il cuore, né divide gli uomini tra praticanti e non praticanti. Ancora oggi, egli scruta nel profondo dell’anima e, al di là della distinzione dell’epoca tra giudei e pagani, la parabola riguarda anche noi, cristiani del nostro tempo, che a volte ci riteniamo superiori agli altri, pur coscienti di aver aderito alla nostra fede più per tradizione culturale che per sentito convincimento.

Il Signore non parte da un giudizio preconcetto, ma «indica ai peccatori la via giusta» (Sal 25,8), perché il Regno è per tutti, pubblicani e prostitute di ogni tempo, per quanti, riconosciuti i propri errori, pentiti, sono pronti a lavorare nella sua vigna. L’uomo di fede, allora, è colui che non si accontenta di osservare i precetti e mettendosi di continuo in discussione, non giudica nessuno ma, riconoscendo i suoi limiti, prega in piena umiltà: «Fammi conoscere, Signore, le tue vie» (Sal 25,4).

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18 settembre 2011 - XXV del Tempo ordinario


Matteo (20,1-16)

«[...] Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano [...]. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio?”».


Dio è amore gratuito

«Non posso fare delle mie cose quello che voglio?» (Mt 20,15) è la risposta del padrone della vigna agli operai della prima ora, che protestano per aver ricevuto la stessa paga dei lavoratori dell’ultima ora. Una risposta che non ammette repliche e irrita la mentalità corrente, sempre pronta a gestire qualsiasi rapporto in termini puramente commerciali. Soprattutto oggi, abituati a mercanteggiare ogni cosa, ognuno si aspetta di essere ripagato nella stessa misura con cui ha dato, escludendo da ogni rapporto la libertà del dono.

Certo la parabola è una metafora che non può essere letta in termini di giustizia retributiva o la morale del racconto rischia di apparire una clamorosa ingiustizia. D’altronde, chi ricorda che il Maestro altrove afferma che «l’operaio è degno della sua mercede» (Lc 10,7) non può fraintendere il senso ultimo della parabola, in cui la vigna è paragonata al Regno dei cieli.

Solo se teniamo presente questa similitudine possiamo comprendere la provocazione del Maestro. Dio si comporta come il padrone della vigna e il suo metro di giudizio è diverso dal nostro: «I miei pensieri », dice il Signore, «non sono i vostri pensieri » (Is 55,8). La sua misura non è basata su un calcolo matematico, ma sull’amore che tutto dona, perché «buono è il Signore verso tutti» (Sal 145,9), indipendentemente dall’agire degli uomini.

Con questa parabola il Maestro vuole eliminare ogni tentazione di ridurre il rapporto con Dio a uno scambio commerciale: nessuno è in grado di presentare il conto al Signore, nessuno può permettersi tale oltraggio. Tutto ciò che abbiamo dalla vita, anzi la vita stessa, è un dono gratuito di Dio che ci ha offerto la salvezza per pura bontà. Come il padrone della vigna ha avuto pietà per gli operai dell’ultima ora, così Dio ha compassione degli uomini che ripaga in maniera spropositata a prescindere dai meriti di ciascuno.

Chi a tutti i costi vuole ridurre Dio ai suoi bisogni e ha l’ardire di giudicare il suo operato con criteri umani, non potrà che provare invidia per quanti ricevono misericordia da un Padre che, nella sua infinita libertà, elargisce la grazia su tutti gli uomini: «Il Signore è vicino a chiunque lo invoca, a quanti lo invocano con sincerità» (Sal 145,18).

Chi ha la presunzione di credere di avere più diritto di altri a una ricompensa perché osserva ogni precetto, si comporta come quei farisei che, vantando di essere figli di Abramo, credevano di essere primi dinanzi a Dio, senza capire che la logica dell’amore non è quella dell’esatta retribuzione. L’amore va oltre la legge, tanto che il Maestro chiude la parabola con le parole più note del Vangelo: «Gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi» (Mt 20,16).

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11 settembre 2011 - XXIV del Tempo ordinario


Matteo (18,21-35)


Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette. A questo proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciàti i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. [...] Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito».


Il principio del perdono

«Se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli?» (Mt 18,21). La domanda che Pietro pone al Maestro è la stessa che tante volte poniamo a noi stessi, quando ci sentiamo incapaci di perdonare per l’ennesima volta chi ci ha fatto del male. E quasi a giustificare il nostro desiderio di vendetta, assolviamo noi stessi perché, come Pietro, siamo convinti di essere abbastanza magnanimi, se capaci di perdonare «fino a sette volte» (Mt 18,21). Un numero simbolico che nella storia della salvezza ricorre più volte a indicare completezza, perfezione: sette sono i doni dello Spirito, sette le virtù (quattro cardinali e tre teologali) e Gesù sfama la folla moltiplicando cinque pani e due pesci. Ma soprattutto, in riferimento al tempo, il numero sette indica un lungo periodo: Dio creò il mondo in sette giorni (cfr. Gn 2,1-2).

Eppure, alla domanda di Pietro: «Fino a sette volte?» (Mt 18,21), il Maestro risponde: «Fino a settanta volte sette» (Mt 18,22), come a dire sempre, per l’eternità, opponendo al principio della vendetta, «occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,24), il principio del perdono illimitato. E per meglio spiegarsi racconta la parabola del re che condona a un suo servo un debito di diecimila talenti. Una cifra enorme che mai il servo avrebbe potuto restituire, come infinito è il nostro debito nei confronti di Dio, che «non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe» (Sal 103,10).

Un Dio Padre che per amore degli uomini sacrifica sulla croce il suo Figlio unigenito, che nemmeno ci chiama servi, ma amici. E se non c’è amore più grande di chi dona la vita per i suoi amici (cfr. Gv 15,13), come possiamo noi, debitori di così tanta misericordia, comportarci come il servo della parabola? Perdonato dal suo re, non ebbe compassione di un suo compagno che gli doveva soltanto cento denari, una cifra irrisoria, rispetto al suo debito, come irrisori sono i torti, sia pure gravi, che subiamo rispetto al peccato che Cristo ha espiato per noi.

«Un uomo che resta in collera verso un altro uomo, come può chiedere la guarigione al Signore?» (Sir 28,3), e come possiamo pregare: «Padre nostro, rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori», se non siamo capaci di volgere l’altra guancia a chi ci percuote?

Certo, perdonare fino a settanta volte sette non è facile, né significa non chiedere giustizia, ma come sempre il Maestro ci chiama a essere perfetti come il Padre celeste (cfr. Mt 5,48) e in questa tensione a imparare da lui, che è mite e umile di cuore, a liberarci dal rancore che coviamo dentro per sentire la carezza di Dio che sempre comprende e perdona i nostri limiti.

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4 settembre 2011 - XXIII del Tempo ordinario


Matteo (18,15-20)


In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo».


La legge del perdono

«Tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo» (Mt 18,18). Ancora una volta il Maestro istruisce i discepoli sui princìpi che dovranno guidare la sua Chiesa. A differenza della Sinagoga, che escludeva chi non accettava il giudaismo, Gesù stabilisce il criterio della correzione fraterna, perché il Padre vuole che nessuno si perda (cfr. Mt 18,14).

Allontanare dalla nostra vita chi ha commesso una colpa contro di noi, significa abbandonarlo al suo peccato, senza offrirgli la possibilità di rimediare e riprendere la via del Signore, che ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione (cfr. 2 Cor 5,19).

Sul perdono si gioca la nostra adesione a Cristo: «Chi ama l’altro ha adempiuto la Legge » (Rm 13,8), dice Paolo, e altrove il Maestro ci chiede di amare i nostri nemici (cfr. Mt 5,44), perché non possiamo riconciliarci con Dio se non siamo in pace tra noi. Il comandamento dell’amore è strettamente connesso con il perdono, con il donare amore anche a chi ci ha fatto del male.

Per essere cristiani la fede non basta se viene vissuta come rapporto intimistico con Dio:  «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì – dice Gesù – sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20). Partecipare all’Eucaristia è fare comunione con gli altri e con il cielo, correggendo con amore chi persevera nell’errore: «Se tu non parli al malvagio, perché desista dalla sua condotta, della sua morte domanderò conto a te» (cfr. Ez 33,8).

Essere cristiani è essere comunità e si è responsabili delle pecorelle perdute se non si è tentato di tutto per riportarle all’ovile: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo... e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano» (Mt 18,17), che vuol dire lavorare e pregare per la sua conversione. Chi non osserva la parola di Dio, più che essere escluso, ha bisogno di essere evangelizzato con la nostra testimonianza fondata sull’amore vicendevole.

Da quando Gesù si è immolato sul legno della croce per liberarci dal peccato e ricondurci a casa, tra terra e cielo non esistono barriere: «Tutto quello che legherete sulla terra sarà legato anche in cielo» (Mt 18,18). Pronto ad accogliere tutti gli uomini fino ai confini della terra, il cielo, ormai aperto, attende che l’umanità, unita a Cristo, sia capace di sciogliere le catene della contrapposizione, del rancore e dell’odio per realizzare un mondo pacificato.

A nulla serve pregare per sé stessi, se non si lotta e si prega insieme per la salvezza del mondo: «Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà» (Mt 18,19).

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28 agosto 2011 - XXII del Tempo ordinario


Matteo (16,21-27)


In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua».


Una scelta decisiva

«Chi vuol salvare la propria vita, la perderà» (Mt 16,25). Il Maestro usa parole dure per spiegare il senso della sequela. La sua è una proposta che assicura la gioia di una vita nuova, che può iniziare già adesso se lasciandoci sedurre dal Signore, siamo capaci di un rinnovamento interiore. È una proposta che implica una scelta decisiva: pensare secondo Dio e trovare la vita vera o secondo gli uomini e guadagnare il mondo intero.

Certo è una scelta difficile e perfino Pietro, che aveva riconosciuto nel Cristo il «Figlio del Dio vivente » (Mt 16,16), si lascia tentare dalla mentalità del mondo e rimprovera il Maestro, pronto a essere arrestato e ucciso per la nostra salvezza, consigliandogli di lasciar perdere la sua missione e salvare il salvabile.

Un consiglio dato forse in buona fede, da amico, come uno dei tanti consigli che spesso diamo ai nostri ragazzi per aprirgli la strada dell’affermazione sociale, anche a costo di tradire ogni principio etico ed essere motivo di scandalo agli occhi di Dio.

La sequela di Cristo non ammette compromessi, perché l’unica alternativa alla verità è la menzogna e per amore della verità bisogna essere disposti anche a soffrire: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24). In questo mondo, dove i valori veri vengono sacrificati sull’altare del benessere materiale, per seguire Cristo bisogna prendere la croce dell’onestà in tempo di corruzione, della solidarietà in tempo di individualismo, anche a discapito dei nostri interessi e correre il rischio di essere emarginati.

Indubbiamente è più facile seguire la mentalità corrente, che andare controcorrente, eppure il Maestro è stato esplicito: «Chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà » (Mt 16,25). Paolo, forte del Vangelo, sapeva provocare il mondo del suo tempo, senza concedere sconti alla verità: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente» (Rm 12,2).

In difesa della dignità umana, invitava i cristiani a guardare oltre gli orizzonti limitati del mondo materiale. E mai come nel nostro tempo bisognerebbe gridare con forza il suo monito, che oggi risuona come un grido di senso nel silenzio di significati. Chi, alla sequela di Cristo, si sente liberato da ogni morte è chiamato ad andare oltre la realtà legata alla terra.

Soprattutto ai più giovani, svuotati della loro coscienza e annebbiati dalle droghe, vittime ignare di una mentalità che li vuole tutti uguali, ingabbiati nella cultura del benessere, bisogna ricordare l’insegnamento del Maestro: «Quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita?» (Mt 16,26).

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21 agosto 2011 - XXI domenica Tempo ordinario


Matteo (16,13-20)

In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa».


Una risposta di fede


«Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15). La singolare domanda del Maestro ai discepoli è una domanda provocatoria che ci induce a riflettere in prima persona sulla nostra fede. A Gesù non interessa sapere cosa dica la gente del Figlio dell’uomo, non gli interessano le opinioni generiche sul suo conto. Che alcuni dicessero che era il Battista o un qualsiasi profeta poco gli importava, ma cosa pensassero di lui i suoi discepoli, e chi nel tempo avrebbe deciso di seguirlo, questo sì, gli stava a cuore.

La chiamata alla salvezza è indubbiamente universale per rendere cattolico l’universo degli uomini e formare nella sua Chiesa il popolo di Dio. Tuttavia, se la chiamata è universale il percorso che ognuno deve compiere per entrare a far parte dell’unico popolo di Dio non può essere un percorso massificato, dettato dalla tradizione, dall’appartenenza a un gruppo, a una nazione, a una cultura. Il Maestro vuole che ognuno compia il suo singolare percorso per rispondere in piena coscienza alla sua domanda: «Tu, chi dici che io sia?», come per dire: «Chi sono io per te, quando devi scegliere tra la mia Parola e le parole del mondo? Quando sei felice e quando soffri?».

Essere credenti, sebbene implichi il far parte di un unico “corpo” di cui Cristo è il capo e noi le membra, non significa perdere la propria individualità nel rapporto intimo con il Signore. Alla domanda del Maestro non possiamo rispondere con risposte precostituite, con concetti dogmatici che a volte nemmeno comprendiamo, né possiamo delegare ad altri la responsabilità di rispondere per noi di fronte ai problemi fondamentali dell’esistenza.

Ognuno deve rispondere da solo alla chiamata del Signore o Cristo sarà sempre per alcuni un grande uomo, per altri un profeta. E anche per chi, credendo di credere, risponde che Cristo è il Figlio di Dio, se la sua risposta non è sgorgata dal cuore, dal travaglio interiore di chi s’interroga sulla propria fede, anche per lui rimarrà un martire inchiodato a una croce, incapace di dare risposte al dolore del mondo. Credere in Gesù di Nazaret significa credere davvero nel Risorto che, sconfitta la morte, ha promesso che sarebbe rimasto accanto a noi fino alla fine del mondo.

La risposta, che Gesù vuole da noi, è dunque una risposta difficile ma decisiva che ci cambia l’orizzonte della vita. Certo non può essere una risposta immediata, scaturita dall’emozione di un momento, ma implica un lungo percorso fatto di inciampi e di cadute. Eppure, chi nell’ora della prova, nonostante il dolore, sa pregare con fede: «Signore, il tuo amore è per sempre» (Sal 138,8) ha riconosciuto in Cristo «il Figlio del Dio vivente » (Mt 16,16), che mai abbandona l’opera delle sue mani.

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15 agosto 2011 - Solennità dell'Assunta


Assunzione della Beata Vergine Maria

Luca (1,39-56)


Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto». Allora Maria disse: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore».


La luce della speranza

«Il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore » (Lc 1,46). È la preghiera di Maria dopo che Elisabetta, «piena di Spirito Santo », benedice il frutto del suo grembo. La sua anima ora magnifica il Signore perché comprende che quel Figlio divino, che cresceva dentro di lei, l’avrebbe rivestita di luce. Tutte le generazioni l’avrebbero chiamata beata, perché nel suo ventre prendeva carne quel Figlio dell’uomo che avrebbe sconfitto la morte.

Per quel Figlio, che portava in grembo, per la sua Parola che avrebbe fatto nuove tutte le cose, Maria comprende che l’umanità avrebbe visto il cielo aprirsi sopra la terra. Una speranza nuova avrebbe illuminato le attese degli uomini ancora prigionieri dello spazio e del tempo, dimensioni chiuse in sé stesse, impossibili da oltrepassare. Una speranza che avrebbe aperto all’infinito lo spazio finito e rivoluzionato il concetto del tempo, che da nemico sarebbe diventato amico, spazio salvifico aperto al futuro.

È il futuro che giudica la fede del giusto, di chi sa fare i conti con il passato ma, mai prigioniero del tempo andato, ragiona di luce anche in tempo di tenebra. Chi, come Maria, cammina sulla via del Signore e ascolta la sua Parola vede dinanzi a sé la strada del cielo, quello stesso cielo che accolse Maria, rivestita di luce, al termine della sua vita terrena.

Il Risorto, concepito nel suo grembo, non permise che la Madre subisse la corruzione della carne e Maria, madre e figlia del suo Figlio, è la prima dei figli di Dio a essere assunta in cielo per aprire la strada a noi tutti e farci comprendere quanto grande è il Signore: «Santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono» (Lc 1,50).

L’Assunta in cielo è un progetto d’amore, una proposta, una sfida che chiama tutti a raccolta nella Parola del Maestro per ri-creare un mondo di giustizia e di pace, sull’esempio di Maria, «benedetta tra tutte le donne», che con il suo sì ha dato inizio alla storia della salvezza. Forse farebbe bene a noi tutti nel tempo della vacanza riflettere almeno per un giorno, il giorno dell’Assunta, sul significato vero della vita, della ricreazione che, lungi dall’essere un tempo vuoto, può ri-creare noi stessi, se tra riposo e divertimento lasciamo spazio anche alla vita interiore, una vita aperta al futuro, oltre la morte.

Nel pieno dell’estate, mentre si festeggia ferragosto, dedicare un pensiero alla Donna vestita di sole può aiutarci a sentire il calore di un sole diverso, capace di illuminare e riscaldare anche le stagioni buie e fredde della vita.

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14 agosto 2011 - XX domenica Tempo ordinario


Matteo (15,21-28)


Una donna Cananèa [...] si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». [...] Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele». Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.


La fede unica condizione

«Pietà di me, Signore, figlio di Davide! » (Mt 15,22) è l’accorata implorazione di una donna Cananèa che chiede al Maestro di guarirle la figlia tormentata da un demonio. Ed è strano che Gesù, sempre compassionevole di fronte al dolore, non rivolse a quella madre in pena «neppure una parola» (Mt 15,23).

Venuto nel mondo a curare i peccatori e non i giusti, come egli stesso diceva, era sempre pronto a perdonare e guarire ogni infermità e più volte fa comprendere ai suoi discepoli che il suo messaggio è per tutti senza distinzioni di persone, come nel caso della Maddalena, di Zaccheo, dell’adultera che pubblicamente salva dalla lapidazione.

Perché allora ai discepoli che lo supplicarono di esaudire la donna, questa volta risponde con un secco rifiuto? «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa di Israele» (Mt 15,24). Una risposta in netto contrasto con il suo atteggiamento misericordioso, che sembra contraddire il suo insegnamento.

Il Maestro conosceva bene le Scritture e certo sapeva quanto aveva profetizzato Isaia: «Così dice il Signore:... la mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli» (Is 56,7). Lui stesso avrebbe detto agli apostoli di annunciare il Vangelo «a tutte le nazioni» (Mt 28,19), perché la salvezza, come recita il Salmo, è per tutte le genti: «Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino i popoli tutti» (Sal 67,4).

Eppure, questa volta, all’insistenza della donna, che prostrata ai suoi piedi gli chiede aiuto, il Maestro ribadisce il suo rifiuto con parole dure: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini» (Mt 15,26). Possibile che Gesù rifiutasse il miracolo a quella donna solo perché non era della Giudea? Se così fosse, in quell’incomprensibile e ostinato rifiuto, avrebbe negato la gioia del Regno a tutti i popoli che non appartengono alla casa d’Israele.

Per comprendere l’atteggiamento del Maestro in questa ambigua circostanza, bisogna ricordare che nell’Antico Testamento Canaan era ritenuto un paese pagano, di non credenti, e pertanto il rifiuto del Maestro non è determinato dall’appartenenza nazionale della donna, ma dal fatto che solo un’autentica fede in Dio può guarire da qualsiasi infermità.

Gesù afferma qui il nuovo principio del cristianesimo: a differenza del popolo eletto, degli ebrei che aderiscono alla loro religione perché figli di Abramo, al nuovo popolo di Dio può aderire chiunque, senza distinzioni di razza, di nazione, di ceto sociale.

Unica condizione di appartenenza è la fede, quella profonda conversione del cuore che spinse la donna a perseverare nella sua preghiera che di fatto viene infine esaudita: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri» (Mt 15,28).

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