di Card. Tettamanzi
In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO ROMANO, curata dal cardinale Dionigi Tettamanzi.
Luca (15,1-3.11-32)
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
Il Vangelo cambia la vita
Questa parabola parla di me, parla di ciascuno di noi, almeno in rapporto a due situazioni: quando presumiamo di essere così adulti e indipendenti da poter fare a meno di Dio nostro Padre e quando siamo così diligenti e fedeli nella casa paterna da permetterci di giudicare e disprezzare chi non lo è. Detto questo – e non è poco –, vorrei soffermarmi su qualche particolare che rende più luminosa e toccante la parabola stessa, al cui centro sta non tanto il figlio scialacquatore quanto il padre misericordiosamente generoso.
Anzitutto gli interlocutori di Gesù: i pubblicani peccatori da una parte (Gesù è a tavola con loro) e dall’altra i farisei che si lamentano del comportamento troppo liberale del Maestro; quelli, dunque, che sanno di essere peccatori e quelli, invece, che pensano di essere santi e dagli altri esigono il rispetto di un preteso clima di santità che aleggia attorno a loro. Poi i protagonisti della parabola: il padre e i suoi due figli. Due sono e due rimangono, anche se il più giovane se ne va di casa e diventa peccatore incallito.
In terzo luogo, proprio questo figlio giovane: se ne va perché la casa del padre gli sta stretta, vuole essere indipendente e soddisfare il suo desiderio di libertà senza freni, vuole provare di tutto, in particolare vuole “calarsi nel fango”, fare esperienze estreme... Ed è accontentato: si trova a condividere il fango in cui si rotolano i porci. È un giovane intelligente e scaltro. Non gli ci vuole molto per capire che così non va, che si trova su di una strada sbagliata, che ha fallito.
Bisogna tornare indietro: a tutti i costi, anche pagando il vergognoso prezzo della ritirata là dove, prima, gli pareva di essere in una prigione, rientrare nella casa tanto disprezzata. Mi sembra che questo giovane, al momento giusto, si faccia davvero scaltro: mette insieme un discorso dal sapore penitenziale... quanto basta per impietosire il padre e indurlo alla comprensione se non persino al perdono. Il padre, se posso esprimermi liberamente, mi sembra un po’ ingenuo, indubbiamente esagerato: vive un’ansiosa nostalgia di questo figlio, lo aspetta ogni giorno ed è il primo a vederlo da lontano, il primo ad abbracciarlo, tanto da non lasciargli neppure il tempo di recitare la “formale richiesta di perdono” con cui chiedeva di essere trattato da servo.
Gli restituisce la stessa dignità di prima, i cui simboli sono il vestito più bello fatto portare dai servi (non gli ha detto: «Va a cambiarti…, poi facciamo i conti»), l’anello al dito (segno che in quella casa gli è restituito il potere dell’erede) e i sandali a quei piedi che hanno calpestato tanto fango. Poi fa ammazzare il vitello grasso tenuto in serbo per le grandi occasioni, e fa festa. Certo, il fratello maggiore, che torna sudato dai campi, ha le sue buone ragioni! Ma è anzitutto Dio ad avere le sue buone ragioni, ed è inutile che noi ci mettiamo a protestare contro l’amore che egli riserva, festoso e sovrabbondante, ai peccatori che tornano a lui. Questo – grandissima fortuna per tutti noi – è il Vangelo, la buona notizia che cambia la vita!
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Luca (13,1-9)
Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Siloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. [Il vignaiolo] gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».
La pazienza di Dio
Due fatti avevano sconvolto l’opinione pubblica. C’era allora la convinzione – e proprio di questo parla il Vangelo di oggi – che malattie, disgrazie e calamità naturali fossero il castigo di Dio contro i peccati non solo personali, ma anche di quelli che dalle generazioni passate ricadevano sull’oggi. Pilato aveva fatto uccidere dei Galilei nel Tempio (un episodio di cronaca che rimanda a una politica violenta) e, non molto tempo prima, una torre della città di Siloe era crollata uccidendo alcune persone (una disgrazia, stavolta, indipendente da una precisa volontà umana).
La lettura di questi fatti aveva un che di superstizioso e orientava a colpevolizzare i malcapitati con un giudizio sbrigativo: chi è incappato in queste disgrazie doveva avere – non c’è dubbio – qualche conto in sospeso con Dio, che lo ha così punito. Anche noi, oggi, siamo attenti a non far questo o quello perché convinti che ci sono gesti che Dio punisce severamente, con vere e proprie disgrazie! Il Vangelo d’oggi, nella sua prima parte, ci è fortemente utile in questa Quaresima, perché imposta una riflessione sull’immagine di Dio alla quale siamo legati: se stiamo bene, Dio ci è Padre misericordioso e buono; ma se qualcosa va storto, se manca la salute o ci accade qualcosa di spiacevole, subito ci domandiamo: «Cosa ho fatto di male?». Una domanda che è come una spia che lampeggia e ci suggerisce che Dio è arrabbiato con noi, che «ha ritirato da noi la sua bontà misericordiosa» e, chissà perché, ci sta punendo.
Quale immagine di Dio scorre sotto questi ragionamenti? È necessario che ciascuno rifletta sul Dio in cui crede e su quanto Gesù ci ha detto a questo riguardo: Dio è Padre, e quale padre punirebbe i suoi figli, come noi a volte pensiamo? Gesù però va oltre e, nella seconda parte del Vangelo, insiste sulla pazienza di Dio verso le nostre povertà e fragilità. Cosa c’è di più inutile di un albero da frutto che di frutti non ne fa? Ma mettiamo ordine nella piccola parabola in questione: Gesù nel Vangelo di Giovanni dice che lui è la vite, noi i tralci e il Padre l’agricoltore. E dunque noi, secondo la parabola d’oggi, siamo i frutti innestati in Gesù e il Padre è l’agricoltore che chiede al padrone del campo di avere pazienza, che assicura che si prenderà personalmente cura dei frutti che tardano a venire. Mi vengono in mente le tante e continue parole di esortazione con cui i profeti hanno coltivato la fede di Israele... Sì, l’hanno coltivata, ma senza risultati.
Davvero Dio, il paziente per antonomasia, ha ispirato e ha mantenuta viva nel suo popolo l’attesa di Gesù... E ora, finalmente, Gesù è qui, nella Parola e nell’Eucaristia: ci sta esortando a dare frutti con opere concrete di amore, di giustizia, di verità e di misericordia. Dio è paziente: non c’è dubbio; ma è altrettanto certo che noi non possiamo occupare un posto nel mondo che egli ama senza offrire al mondo stesso i frutti della nostra fede!
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Luca (9,28b-36)
Gesù prese con sé Pietro Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. [...] Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!».
Richiamo all’essenziale
Pietro ha professato la sua fede in Gesù, «il Cristo di Dio». E Gesù, di rimando, ha annunciato per la prima volta la croce e ha dettato le regole essenziali per seguirlo: «Rinnegare sé stessi, prendere la croce ogni giorno e seguirlo». Ha anche precisato che nessuno potrà salvarsi da solo e che sarà distruttivo per noi vergognarci del Vangelo. E ha concluso: «Vi sono alcuni, qui presenti, che non morranno prima di aver visto il regno di Dio».
«Otto giorni dopo» Gesù sembra realizzare questa affermazione portando con sé Pietro, Giacomo e Giovanni sul Tabor, una collina alta solo 400 metri, ma che chiede una qualche fatica per salirvi. La meta, in realtà, non è solo la cima del monte, ma Gesù stesso immerso nella preghiera che, pregando, riveste i colori di Dio: il bianco e la luce sfolgorante. Occorre salire. E la fatica è via di purificazione del cuore, delle intenzioni, delle decisioni, per poter “vedere Dio”.
Se si resta fermi, se non c’è un salto di qualità nella nostra fede, non si può vedere quello che Dio vuole mostrarci di sé. E così anche questo brano pieno di luce diventa invito a porre attenzione vera alla Quaresima appena iniziata, a far sì che venga accolta come momento di grazia, come preziosa opportunità di dirigere il tutto di noi stessi là dove anche Gesù sta andando: certamente verso la croce, ma definitivamente verso quella gloria che la croce vela e svela, nascondendo in sé stessa un principio di vita nuova, di una vita partecipata con il Dio di Mosè e dei Profeti, con il Dio che è sempre salvezza, pace e gioia.
La bellezza di questo momento riesce a togliere il fiato ai quattro discepoli: si addormentano, perdono i sensi e si risvegliano esprimendo, attraverso Pietro, lo stupore per la gloria che misteriosamente li ha coinvolti. Ecco per che cosa siamo fatti, per quale gloria viviamo assumendo il Vangelo come criterio ed energia di vita! «È bello stare qui», è bello vedere realizzata la buona notizia che Gesù ha introdotto nel mondo. Questo Dio è immensamente meraviglioso! Poi... tutto svanisce, tutto torna come prima.
Gesù non risplende più nel volto e nelle vesti, la gloria di Dio è diventata una nube e una voce che richiama all’essenziale quotidiano per noi: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!». Essenziale è vivere di Vangelo, è dipendere dalle parole del Maestro che ha appena rivelato qualcosa della sua gloria. Ma ora occorre occuparsi degli altri che sono rimasti ai piedi del monte e nulla hanno visto di tutto questo splendore.
Uno splendore che andrà annunciato, a suo tempo. La Quaresima ci sta avvolgendo, come la nube affascinante e inaccessibile del mistero di Dio. Coraggio: superiamo ogni paura ed entriamo a far parte di quanti camminano, dietro a Gesù, verso la gloria della croce, per la salvezza di tutti.
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Luca (4,1-13)
Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”». [...] Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.
«Non abbiate paura»
Alcuni possono rabbrividire all’idea che il diavolo dovrà ritornare «al momento fissato» e con voi io stesso mi domando quale sarà questo «momento». È una domanda simile a quella posta a Gesù dai discepoli circa la predizione della distruzione di Gerusalemme: «Quando accadranno queste cose?». Da Gesù, «pieno di Spirito Santo» e guidato dallo Spirito «nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo», impariamo che sono veramente poche le cose di cui avere paura.
Il diavolo, in realtà, torna in ogni momento, tenta sempre di separare la nostra storia personale dall’amore di Dio: un tentativo però inutile, non perché noi siamo più forti di lui, ma perché scegliamo di rimanere in questo amore e ci impegniamo per non allontanarcene. È questa la nostra Quaresima, che oggi inizia: un tempo di “allenamento” per le nostre coscienze chiamate a esprimersi sempre, di fronte al mondo, nel dare in noi stessi voce limpida e coraggiosa al Vangelo.
È stato così anche per Gesù, esposto alla tentazione di cambiare o di accorciare la via sulla quale incontrare e salvare ogni uomo, tentato di rinunciare a piantare saldamente la croce al centro della sua vita, pronto a compromettersi con le vie più facili che gli uomini escogitano per legare a sé gli altri e per emergere su di loro. Unica arma scelta dal Signore per combattere l’opera del diavolo è la parola di Dio: strumento centrale anche per noi che desideriamo trascorrere in pienezza la nostra vita, nel desiderio di “spalancare la porta” attraverso la quale il Padre ci conduce alla comunione con lui e tra di noi. Scegliere: è l’atto libero di Gesù.
Atto faticoso ma esaltante, in quanto contiene in sé la forza della verità se orientato all’amore di Dio, meta di ogni atto di fede. Ma su quali basi costruiremo la nostra vita? Con quali strumenti la orienteremo in continuità al vero, al bene e al bello anche quando queste basi appaiono difficili e poco attraenti? Da una parte posso dire che capiremo di volta in volta, che riceveremo quotidianamente la grazia e la forza di vivere il Vangelo; dall’altra devo riconoscere che siamo immersi in un’attesa che non ci sfianca perché profondamente radicata nella fiducia.
È in questa attesa fiduciosa che sono state pronunciate le parole forti di Giovanni Paolo II e riprese da Benedetto XVI: «Non abbiate paura!». Non è una parola magica che ci toglie dagli impicci diabolici, ma è l’espressione della concretezza propria della nostra speranza: quella che ogni giorno si genera anche nel deserto e si radica anche nei terreni apparentemente più aridi.
È il segno luminoso di un preciso convincimento: se è vero che la tentazione è necessaria come via di purificazione e di fortificazione delle nostre convinzioni, è ancor più vero che il Signore è qui, è con noi, è in noi, come “il Maestro interiore” di una vita orientata verso il sole sfolgorante della Pasqua, là dove ogni salvezza attesa e sperata diventa certezza solida e feconda di una vita nuova, di una vita santa.
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Luca (5,1-11)
[Gesù] disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. [...] Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». [...] Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.
Parole che ci liberano
È trascorsa un’intera notte di lavoro inutile. Nessuno, dalla barca, ha voglia di perdere tempo: sistemate le reti, i quattro pescatori torneranno a casa per un po’ di sollievo, per superare l’amarezza e la delusione tra le mura domestiche. Anche quelli erano tempi difficili! Questi pescatori non fanno neppure caso alla folla accalcata attorno a Gesù. Sembrano del tutto indifferenti, quasi arrabbiati: si fanno i fatti loro. Gesù, per loro, è un altro dei tanti “maestri” che fanno perdere tempo alla gente: i poveri restano poveri, i Romani restano prepotenti, e le reti? Le reti rimangono vuote!
A Gesù serve una barca: vuole che la folla senta bene quello che ha da dire, non è un rabbi che si accontenta di una piccola cerchia di discepoli: il suo messaggio deve raggiungere il cuore di tutti e, perciò, ha bisogno della barca di Pietro, come fosse un pulpito. Mi domando come avrà fatto Gesù a convincere Pietro, di solito burbero di carattere, a prestare la barca e a dimenticare la stanchezza. Spesso anch’io, al termine di una giornata faticosa, mi siedo davanti al tabernacolo, in silenzio, e mi sento sollevato: supero le mie resistenze, la mia fretta, e mi abbandono alla consolazione che Gesù offre ai suoi amici...
Credo sia un’esperienza che tutti abbiamo vissuto: la preghiera silenziosa allevia le pesantezze del cuore! Forse Gesù ha letto nel cuore di Pietro la sua preoccupazione per la pesca andata male e lo persuade a gettare le reti, ancora, di giorno! Nessun pescatore esperto lo avrebbe fatto. Pietro sì, lo fa «sulla tua parola». Le cose vanno come sappiamo e Pietro, insieme ai suoi amici, è messo alla prova da un grande stupore, non ostile come era accaduto alla gente di Nazaret: è uno stupore che attrae e rende umili fino a inginocchiarsi davanti a Gesù e dire: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore ».
Il racconto incalza e Gesù dice a Pietro quelle parole enigmatiche: «D’ora in poi sarai pescatore di uomini». La vita di Pietro è cambiata! Prendere gli uomini nella rete? Adescarli, costringerli, arruolarli in un improbabile “esercito della salvezza”? Lo fanno già in tanti proponendoci miraggi di vita comoda, pubblicizzando beni che non cambiano un’ora dell’intera esistenza... Io credo che ci sono parole con le quali il Signore parla a ciascuno di noi e dice cose personalissime, che affascinano e liberano dalle tante parole inutili del ménage quotidiano.
Ci sono anche dei fatti, forse non “strepitosi” come la pesca del Vangelo, che ci inducono a “seguire” il Signore, a entrare nelle reti del Regno di Dio. Sono le reti del suo amore liberante, che fa di tutti noi discepoli in cammino verso una meta bella, il cui desiderio riempie le nostre giornate!
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Prima viene l’ascolto
Luca (4,21-30)
Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria [...]». All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.
Il Vangelo di oggi riprende e continua il racconto della scorsa settimana: Gesù, nella sinagoga di Nazaret, ha appena annunciato di essere il Messia profetizzato nelle Sacre Scritture. Ci domandavamo quale sarebbe stata la reazione della gente e quale la reazione nostra a questo annuncio. La risposta a quest’ultima domanda era incerta: come si può reagire senza stupore e meraviglia scettica di fronte a una notizia di questo genere? La venuta del Messia era attesa come qualcosa di grandioso e di sconvolgente... Gesù invece è conosciuto come «il figlio di Giuseppe», viene da una famiglia umile e povera come tante altre di Nazaret! È davvero un problema accettare che il Messia venga “dal paese” anziché “dalle nubi del cielo con potenza e gloria grande”. E Gesù capisce questo scetticismo: è sempre stato così anche con i grandi profeti, li sapete riconoscere solo dopo che li avete uccisi, li piangete dopo averli rifiutati... non sapete accettare che Dio sia semplice, che sia libero di compiere i suoi prodigi dove e come vuole e non presso di voi, ma a Cafarnao, nel paese vicino, i cui abitanti voi tanto detestate (al tempo di Gesù già era vivo il campanilismo!). «All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno». Ecco la prima reazione: una rabbia monta dal di dentro perché Dio non ha privilegiato noi. E ancora: «Si alzarono e lo cacciarono fuori della città». Di più: «Lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù». E io? E noi? Non siamo solo commentatori o spettatori di questo episodio poco edificante: noi pure veniamo attraversati da stupore e meraviglia scettica se l’opera di Dio non è conforme alle nostre aspettative: e, di solito, non lo è; e quando lo è, gridiamo al miracolo («Dio ha agito come gli abbiamo detto di fare, si è piegato alla nostra volontà!»). Teniamo anche conto del fatto che a volte agiamo così pur sapendo “tutto” di Gesù, di quello che ha fatto, dei suoi discorsi, di quanto ci ha insegnato nel Padre nostro (sia fatta la tua volontà!), della sua morte in croce. Come concludere se non riaffermando che Gesù è qui, nella sua Parola, nell’Eucaristia? Sì, è qui e ci sta chiedendo qualcosa: dobbiamo lasciare che sia lui il primo a parlare, a chiederci disponibilità al Vangelo... Solo dopo parleremo in risposta alla sua richiesta e avremo anche noi qualcosa da dirgli; intercederemo per tante fatiche e sofferenze nostre e del mondo intero. Ma prima vengono l’ascolto e l’obbedienza a lui. Diversamente, accade la stessa cosa testimoniata da san Luca: «Egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino». Va da un’altra parte, dove, forse, troverà maggiore disponibilità di quanto ne trova in noi. Può accadere!
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Luca (1,1-4;4,14-21)
Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto. In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode.
La forza della Parola
Già ho detto come Luca indaghi in modo accurato prima di scrivere il suo “resoconto” su Gesù. Lo fa perché circolavano scritti con i quali, forse per il desiderio di dare più luminoso risalto alla sua divinità, “si inventavano” racconti mirabolanti, in particolare riguardanti la sua infanzia. Si tratta dei “Vangeli apocrifi”. Dobbiamo allora essere grati a san Luca che ha voluto “sgomberare il campo” da certe fantasticherie: la nostra fede deve avere fondamenta solide e possiamo attingerla solo alla testimonianza credibile degli Apostoli e di quanti hanno frequentato veramente Gesù.
Cosa faceva dunque il Signore Gesù? «Insegnava nelle loro sinagoghe» annunciando che tutte le profezie trovano in lui il loro compimento. E il suo messaggio era già abbastanza forte così. Anzi, questo suo annuncio era accompagnato e testimoniato anche da veri e propri miracoli. Ma il cuore della sua missione è nelle sue parole, le quali però, pur essendo accompagnate da prodigi, spesso non erano credute! Luca ci rende partecipi oggi di uno di questi “annunci” di Gesù. Siamo a Nazaret, dove Gesù era cresciuto e ritenuto un buon rabbi, tanto che era spesso invitato a commentare la Legge e i Profeti.
Ma quella volta le cose andarono male, per un semplice motivo: Gesù si azzardò a dire che le parole di Mosè e dei Profeti si riferivano a lui, che proprio lui era il punto di convergenza di tante attese, di tante speranze e sofferenze del popolo di Israele: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Non si trattava di un’espressione che usavano tutti i rabbi. Al contrario, i vari maestri si limitavano a spiegare il contenuto della Legge e delle profezie, mentre Gesù diceva che non più chissà quando o chissà dove, ma ora e lì, mentre lui parlava, Dio stava adempiendo tutte le sue promesse.
Diceva che era finito il tempo dell’attesa di Israele e che le speranze dei popoli della terra, cercatori di Dio in modi diversi, si adempivano in una rivelazione semplice a dirsi, ma difficile da accettare: Dio stava parlando proprio attraverso i suoni che uscivano dalla sua bocca; chi in quel momento ascoltava Gesù, sentiva dalla bocca di un uomo all’apparenza come loro che Dio stava per dare inizio a un cuore e a un mondo rinnovati. Noi avremmo creduto? Forse potremmo dire: «Non lo sappiamo». Dio ama fino a stupire.
Gli stessi racconti evangelici, da Betlemme al Calvario, ci parlano di quest’amore esagerato di Dio, di un amore fatto proprio per stupirci! Ma noi sappiamo lasciarci incantare da Dio, dall’umiltà con cui si presenta a noi per annunciarci che, nonostante tutto, c’è tanta speranza nel mondo? Il Vangelo di oggi ci esorta a constatare con i nostri occhi che le parole del Signore hanno la forza di cambiare il mondo quando le ospitiamo prontamente nel cuore e le trasformiamo in scelte umili e coraggiose di vita evangelica.
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Giovanni (2,1-11)
Vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». [...] E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». [...] Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
Affidati a Gesù Sposo
Gesù ha già incontrato i discepoli Andrea e Pietro, Filippo e Natanaele. E tre giorni dopo egli si trova a un banchetto di nozze. Qui è da non sottovalutare il contesto: già i profeti avevano celebrato la relazione tra Israele e Dio attraverso l’immagine nuziale che faceva di Dio lo Sposo di Israele e di Israele la Sposa del Signore. Proprio in questa luce possiamo comprendere il senso delle parole che concludono il brano evangelico: «Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui».
Fu il primo miracolo: un “vino migliore”, segno di nozze “nuove e migliori” con cui il Padre introduce nel mondo lo Sposo di quanti crederanno in lui e inizieranno a seguirlo. L’immagine della nuzialità, ripresa da diversi padri della Chiesa, nel Vangelo di oggi è “provocata” da Maria che abbiamo invocato come “madre di Gesù”. La invochiamo oggi anche come “madre della Chiesa” che qui affiora e muove i suoi primissimi passi.
Il racconto è curioso: sembra che ci sia una certa “indecisione” da parte di Gesù a iniziare il suo ministero. Ma le sue parole: «Non è ancora giunta la mia ora, che vuoi da me?» trovano riscontro in una “decisione” di Maria che risponde, di propria iniziativa, senza consultarsi con Gesù e, di fatto, coinvolgendolo in una situazione di necessità: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
Ho la sensazione che Maria, qui e come spesso accade alle madri verso i figli, abbia una consapevolezza che supera quella del Figlio stesso e che perciò si fa tramite nel discernere i tempi, nel decidere il momento giusto per spingere Gesù a esporsi con le sue singolarissime responsabilità: Maria mostra a Gesù che il tempo dell’attesa è finito per il mondo, che l’universo aspetta proprio lui, la sua Parola che annuncia il disegno definitivo di Dio.
Ma c’è di più: l’invito di Maria ai servi, il suo imperativo «fate tutto quello che vi dirà», non è funzionale solo a risolvere il problema della mancanza di vino, ma costituisce un annuncio inatteso: l’annuncio che tra Gesù e tutti noi si realizzerà sì quel rapporto nuziale di cui abbiamo detto ma solo dentro una logica di affidamento obbediente. Chi mai avrebbe detto che l’acqua sarebbe diventata il vino migliore? E chi mai avrebbe sperato che tra noi e Dio potesse nascere una relazione d’amore così affascinante e coinvolgente?
In realtà l’intero contenuto del Vangelo può essere riassunto nei termini di questo affidamento di Gesù Sposo alla Chiesa sua Sposa e, reciprocamente, della Chiesa a Gesù. E il tramite, ancora una volta, sarà Maria, sotto la croce, dove la “donna” (Maria madre della Chiesa) sarà feconda di altri figli (Giovanni) resi nuovi dal “vino” più vero e fecondo di quello di Cana: il sangue lì versato per noi. Questo “vino vero” che fa alleanza e ci spalanca la porta della fede altro non è che l’ingresso in una relazione d’amore che solo Dio poteva sognare e realizzare per noi. E non è questo il “miracolo”?
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Luca (3,15-16.21-22)
In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il Battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”».
Il fuoco della vita divina
Oggi è compito della Chiesa “presentare” Gesù sulla scena del mondo. Ma, per primo, questo compito l’ha svolto Giovanni Battista, rispondendo a precise domande della gente del suo tempo. E anche oggi tante domande vengono rivolte alla Chiesa proprio su Gesù e sul senso e sulla necessità della sua presenza nella storia dell’umanità. Giovanni risponde tratteggiando, in modo semplice e limpido, l’essenziale su Gesù poco prima che, nel Battesimo al Giordano, dia inizio alla sua vita pubblica. Egli è il forte, il giudice autorevole contro il male del mondo e contro la sua orgogliosa vanità. Ma è soprattutto colui che immerge quanti si consegnano al suo Vangelo nel fuoco dello Spirito Santo.
Detto questo, Giovanni scompare. E la scena è dominata da Gesù raccolto in preghiera, dallo Spirito Santo che scende su di lui e dalla voce del Padre che lo “conferma” come il Figlio mandato nel mondo perché la salvezza non sia più semplicemente un annuncio, una speranza vera ma lontana nel tempo, bensì una realtà viva e presente verso cui l’umanità, se vuole, può mettersi fin d’ora in cammino ricalcando le orme del Figlio di Dio per essere lei stessa introdotta in quella “porta della fede” che è salvezza di chiunque crede.
Questo è il senso della scena descritta oggi dal Vangelo: il Battesimo di Gesù è l’inizio umile e nascosto dell’azione decisiva, ultima, di Dio che chiama ciascuno di noi all’ombra luminosa della sua paternità. Il cielo che si dischiude su Gesù è la porta che, attraverso la fede, ci introduce all’essere “figli”, all’essere immensamente “speciali” davanti agli occhi di Dio. E così dalla riflessione sul Battesimo di Gesù – festa celebrata oggi dalla liturgia – il nostro pensiero e la nostra preghiera si rivolgono al nostro Battesimo: siamo discepoli di questo “Rabbi” che ancora deve aprire bocca, siamo in attesa delle sue prime parole, ma siamo anche consapevoli che la meta alla quale ci condurrà è l’essere simili a lui, “figli nel Figlio” per grazia e per imitazione.
Quel fuoco, che brucia la vanità orgogliosa di ciascuno di noi, è anche il fuoco che accende in tutti la vita di Dio, è ciò che il Padre «molte volte e in diversi modi aveva annunciato per mezzo dei profeti» e che ora si manifesta e si realizza nel passaggio del Figlio suo Gesù sulla scena del mondo che abitiamo, nelle case in cui le nostre famiglie vivono il Vangelo, nei luoghi in cui incontriamo amici e a essi testimoniamo la bontà del Vangelo stesso che ascolteremo, ogni domenica, in questo nuovo anno liturgico che abbiamo iniziato ancora una volta nell’attesa della manifestazione del Figlio di Dio, venuto a dare sé stesso per noi. È questa la nuova evangelizzazione, che ha bisogno non solo di nuove parole, ma anche del coraggio rinnovato della testimonianza riguardo a ciò che è fonte della nostra salvezza e gioia!
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Matteo (2,1-12)
Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme [...]. Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il Bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
Sapienti come i Magi
Mi sono lasciato guidare da un particolare del Vangelo. Matteo scrive: «Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire...». Mi ha colpito il contrasto tra l’agire segreto di Erode, turbato dall’invidia, e lo splendore della stella che chiama tutti i popoli al luogo della misericordia di Dio.
I Magi sono i primi ad arrivare, dopo i pastori. Ne verranno molti altri: la donna sirofenicia (Mc 7,26) che implora per la sua bambina, alcuni greci che vogliono vedere Gesù, proprio come i Magi (Gv 21,20)... e noi che abbiamo allestito il presepe nelle nostre case per “vedere” ciò che il Signore ha posto sotto gli occhi dei tre Sapienti: un Bambino la cui umanità povera contrasta con ogni invidia e paura dei potenti che ovunque scorgono minacce alla loro supremazia.
Ma questa è superata dal “potere” dell’umiltà, della ricerca appassionata della verità con la quale il Signore, l’Onnipotente, ama ogni uomo. Il potere non vede tutto questo perché tende a bastare a sé stesso e a difendersi anche da ciò che minaccia non è: il potere ha paura della verità di Dio, si sente giudicato nel male e nel bene che compie e sente di dover reagire... di nascosto. Ma Dio vede ed entrando nel segreto del cuore degli uomini fa loro sognare vie nuove, forse faticose e inedite, li guida «per un’altra strada» e li accompagna “a casa”, là dove è necessario dire le buone esperienze che ci hanno coinvolto e cambiato la vita.
Davanti al presepe, anche noi siamo diventati sapienti: abbiamo contestato i nostri piccoli deliri di onnipotenza e abbiamo abbracciato l’Amore che risplende a Betlemme e a cui la “stella” della parola di Dio ci guida ogni giorno. Basta leggere i nostri Vangeli, come hanno fatto i Magi con i loro libri, per vivere in questa umile giustizia che ci rende somiglianti a Gesù, il Figlio di Dio che si manifesta a quanti ancora oggi lo accolgono e lo invocano.
Ma che fine hanno fatto i Magi? In realtà non sappiamo altro di loro. Per completare il racconto si devono seguire le tradizioni che si sono formate nel tempo. Una di queste ci dice che i tre sono diventati cristiani e furono consacrati vescovi dall’apostolo Tommaso. Morirono martiri a un’età molto avanzata e furono sepolti in India, dove lo stesso Tommaso avrebbe predicato. Un’altra tradizione sostiene che le loro reliquie furono trasportate dal vescovo Eustorgio da Costantinopoli a Milano.
Raccolgo queste tradizioni solo per accennare a una profonda verità: nessuno che abbia “visto” Gesù può andarsene indifferente. Allo stesso modo, chi ha ascoltato la sua Parola, non può restare tale quale era prima. I Magi, stando alla leggenda, sono morti martiri. E noi, che oggi contempliamo la manifestazione del Signore al mondo, saremo suoi testimoni coraggiosi nel mondo? A chiederlo a ciascuno di noi è il Signore stesso!
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Luca (2,16-21)
I pastori andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il Bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del Bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro. Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.
Madre dell’Amore
La festa di oggi è tutta rivolta al Bambino di Betlemme, alla sua identità avvolta nel mistero annunciato dagli angeli: mistero così grande e coinvolgente da suscitare nei pastori prima il desiderio di cercare e poi il bisogno di contemplare. Per la verità, la scena trovata è molto semplice e familiare. E ciascuno, in essa, ha un prezioso messaggio da comunicare. I pastori con le loro povere parole anticipano le stesse parole con le quali la Chiesa ancora oggi proclama la straordinaria grandezza del dono del Natale al mondo.
Giuseppe è lì, padre attento alla novità che lo ha interpellato e che è realtà viva nella sua sposa, Maria. È lì, obbediente al compito inedito e singolare che lo ha voluto partecipe dell’agire onnipotente di Dio. E il Bambino? Forse dorme, ma è al centro di un’attenzione premurosa da parte di tutti. E anche noi – sì, anche noi – siamo lì, partecipi di quanto è avvenuto.
Il nostro sguardo si volge ora sulla madre, Maria. Sta forse riposando, spossata dal parto recente. E continua a interrogarsi, immersa com’è nello stupore, mentre custodisce il mistero che l’ha coinvolta e che le ha donato una vita nuova: non solo il Bambino, che ha portato in grembo e nel cuore, ma lei stessa si sente inserita e partecipe di un mondo rinnovato, da poco abitato dall’uomoDio in forza di quella grazia che ha operato meravigliosamente in lei.
Maria Madre di Dio: l’umanità semplice di una di noi ha generato il Creatore, l’Onnipotente che ama nell’umiltà e si fa carne mortale, accompagna ciascuna vicenda umana oltre la soglia di ogni fede, propone un “credo” nuovo, le cui radici sono ora a Betlemme, e prima a Nazaret, e prima ancora nelle parole dei profeti di Israele. I suoi rami si inoltrano in ogni villaggio e città della Palestina di allora e del mondo di oggi e i suoi frutti sono nel Regno di Dio, nelle mani del Padre buono che sta vincendo ogni male del mondo nel Figlio suo Gesù per fare nuove tutte le cose.
Ma mi chiedo: sa tutto questo Maria? Senza dubbio ella ha nell’animo quanto basta per intuire – rimanendo fedele alla parola udita dall’angelo a Nazaret e poi seguendo, forse da lontano, il Figlio che ha generato – la sproporzione irriducibile tra la sua umiltà e l’agire di Dio. In questa sproporzione Maria non è stata umiliata, ma esaltata, come ella stessa attesta nel Magnificat, il canto con cui “fa santo” il nome di Dio in lei e in tutta la storia del popolo cui appartiene.
Ora Maria è Madre. E noi la invochiamo con nomi diversi che dicono la sua maternità; la invochiamo per tutti quei doni di grazia che da lei ricadono su ciascuno di noi, su tutta la Chiesa e sull’umanità intera. È la Madre della Speranza, le cui origini sono in Dio; è la Madre dell’Amore, di quell’Amore che definisce l’identità stessa di Dio; è la Madre nella Fede, perché ci accompagna alla porta del “credo” che testimonia la nostra ricerca del Dio fedele; è la Madre di tutte le madri e la Regina della famiglia che ci dona di custodire il dono della vita... È la Mater Dei, la Madre di Dio: questo è il nome che riassume tutta la sua grandezza e santità, tutta la sua tenerezza d’amore verso Gesù e verso ciascuno di noi.
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Luca (2,41-52)
Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. Scese dunque con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.
Sulle tracce di Gesù
I suoi genitori... il Figlio di Dio ha per madre Maria. Quanto al padre, Giuseppe ha accettato un ruolo nascosto e forse, a prima vista, anche un poco umiliante! Sembrerebbe un personaggio dall’importanza relativa, come uno che agisce per breve tempo e solo “come se” fosse il padre di Gesù. La devozione lo rappresenta con il Bambino in braccio, ma nei racconti evangelici scompare presto.
A essere più attenti, le cose non stanno proprio così. Ascoltiamo bene cosa dice Maria appena ritrovato Gesù, nel tempio: «Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Quell’angoscia condivisa da Maria con Giuseppe dice molto su quanta e quale intensità di vita familiare doveva esserci nella loro casa di Nazaret; e la ricerca affannata dei due, insieme, ci conferma che Giuseppe non viveva la propria presenza accanto al Figlio di Dio “come se” fosse suo padre. Certo, i ruoli si colorano di singolarità, ma la realtà era riconosciuta da tutti: «Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: “Non è costui il figlio di Giuseppe?” » (Lc 4,22).
È importante, oggi in particolare, guardare con attenzione alla “necessità” che Dio ha stabilito, anche per il Figlio suo Gesù, di avere una vera e propria famiglia: la tenerezza di una madre e la fermezza di un padre, l’angoscia di tutti e due nei momenti difficili e travagliati. Così, Maria e Giuseppe tornano a casa, dopo questo episodio “sconcertante”, rafforzati nella loro unità e, in particolare, sostenuti dall’atteggiamento di Gesù stesso che «stava loro sottomesso... e cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini».
Rimane in primo piano, la domanda di Gesù rivolta ai suoi genitori: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Gesù conferma con chiarezza la sua provenienza da “altrove”, ma non per allentare quel legame di familiarità che resta forte e anzi si consolida. La domanda di Gesù è davvero appropriata anche per una nostra riflessione: perché, a volte, cerchiamo Gesù altrove che nella volontà del Padre di tutti; di Maria, di Giuseppe, ma anche Padre nostro, colui che allarga i confini delle nostre famiglie sino a tutti coloro che abbiamo imparato da Gesù stesso a chiamare “fratelli”?
Oggi, in questa festa della Santa Famiglia, vogliamo celebrare la “santità” di tutte quelle famiglie che si mettono ogni giorno, come Maria e Giuseppe, sulle tracce di Gesù, facendo scelte e compiendo gesti che hanno il sapore del Vangelo, che chiamano in causa la presenza stessa di Dio tra le mura domestiche e si sentono spinte a testimoniarsi reciprocamente la bellezza di vivere nella volontà di Dio, Padre di tutti. Anche questa è “nuova evangelizzazione”!
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Luca (2,114)
C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».
Gesù è venuto per me!
«La gloria del Signore li avvolse di luce »: è questo l’effetto che il Natale suscita nei primi destinatari dell’annuncio della nascita del Salvatore, il Cristo, il Signore. Messi in sequenza, questi tre titoli che il Vangelo assegna a Gesù sono i titoli imperiali: chiunque avrebbe detto che si trattava di Cesare, dell’uomo più potente della terra, di colui che, assicurando i confini dell’Impero romano da invasioni, “salvava” le popolazioni conquistate, sia difendendole da possibili prepotenze sia arricchendole di prestigio e di onore, come meritava un impero ormai esteso sino ai confini del mondo allora conosciuto.
Ma non è proprio così! Lo si capisce subito dal segno proposto all’attenzione dei pastori: andando, troveranno un bambino, in fasce, adagiato in una mangiatoia: un piccolo che non ha neppure una casa! Spesso mi soffermo a pensare come mai il Padre non abbia scelto tempi e luoghi “migliori” per il Natale di suo Figlio: un tempo di pace nei palazzi caldi e sicuri del potere o persino nelle stanze del Tempio, a Gerusalemme.
Da solo mi do la risposta: se avesse scelto di agire così, sarebbero venuti non gli angeli ma i banditori di Erode ad annunciare la nascita di un potente come lui ai suoi pari e sarebbero rimasti esclusi gli ultimi. Scegliendo invece di farsi ultimo, il Signore Gesù crea una nuova e profonda consapevolezza in tutti noi: possiamo dire che senz’altro è venuto per me! E anche Erode avrebbe potuto dire: se è venuto per i più piccoli delmio regno, vuoi che non sia venuto anche per me?
Dunque il Natale è sempre la festa della povertà, nel senso che sono i poveri i primi a riconoscere che Dio non è un altro dei potenti sulla scena del mondo. Se penso a Dio come all’Onnipotente devo in qualche modo ricredermi: se in Dio c’è onnipotenza, se Dio può tutto, non può esserlo che amando. Egli è sì onnipotente, ma nell’amore: per me e per quanti con me condividono i giorni, il cibo, il lavoro, la casa... Proprio perché sono fragile e sconosciuto, Dio mi conosce, mi ama oggi e sempre, è per me, sta dalla mia parte e, in Gesù, è come me: si è fatto sconosciuto ai più e si è manifestato ai semplici.
Ma se non fossi semplice? Se non fossi povero oppure se disprezzassi la semplicità? Se scegliessi la compagnia dei potenti e l’agiatezza o l’arroganza di certi ricchi... insomma, se fossi ricco e chiuso in me stesso? In questo caso Gesù aprirebbe per me un tempo di attento ascolto, mi offrirebbe la grazia di apprezzare il silenzio e l’umiltà in cui le cose belle risplendono sempre nuove e possibili, perché il Padre le vuole così per noi. Non ci resta che la conversione alla semplicità e alla purezza di cuore che nulla antepone all’essere amati da Dio. È di questo amore che ci parla oggi il Natale cristiano!
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Una gioia da condividere
Luca (1,3945)
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
Fino a pochi anni fa si leggeva: «E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore»; ora si traduce: «E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto». Una traduzione quanto mai illuminante, perché sottolinea come la parola di Dio sia sempre detta alla singola persona, così come il Signore è alle porte e chiede di entrare nella vita di ogni donna e di ogni uomo per rinnovare tutto e tutti. È il miracolo del Natale! Ma i miracoli presuppongono la fede. Gesù infatti si rivolgeva a coloro che aveva guarito dicendo: «La tua fede ti ha salvato» (Lc 7,50; 8,48; 17,19; 18,42). È la Parola che speriamo di udire tutti, nei prossimi giorni. In questo Avvento ciascuno si è fatto attento e ora insieme ci stupiamo della bellezza dell’Emmanuele, del “Dio con noi”; rendiamo vivo il dono, lo manteniamo ardente attraverso la fede e la carità, affinché non si spenga l’efficacia della speranza nella Chiesa per la salvezza del mondo. Come Elisabetta ci meravigliamo: «Come mai proprio a me viene il Signore?», e troviamo la risposta nell’intensità dell’attesa che abbiamo vissuto. Quanto desiderio si è trasformato in preghiera! Quanta preghiera è stata vera attenzione alla parola di Dio! Ma quanta parola di Dio è diventata scelta di vita in questo Avvento? Quale parola il Signore ha detto a me? E quando ho favorito l’adempimento della sua volontà con i “sì” della mia fede? Ecco quali domande il Natale suscita! Sono domande da condividere nelle nostre case, tra coniugi, con i figli: domande che ci aiutano ad accorgerci di Gesù che tende la mano per accompagnarci negli impegni quotidiani, rinvigorendo la nostra testimonianza perché il Vangelo sia nuovamente udito. Il Natale fa “sussultare” qualcosa in noi: ci sentiamo pervasi dalla nostalgia di cose vere e autentiche. Senza esitare trasformiamo questa nostalgia in energia buona che amplifica e certifica la notizia che, se Dio è con noi, niente può oscurare la grazia e la responsabilità di essere chiamati nel “campo di Dio” a rendere buono il mondo. Maria «si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda» per portare Gesù a chi ne aveva bisogno, Elisabetta, anche lei – a sua volta – portatrice di un dono per tutta l’umanità. Elisabetta reagisce all’incontro e grida: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! ». È l’esclamazione che noi stessi speriamo di suscitare in quanti vedono i frutti della fede della Chiesa in questo Natale ormai prossimo; è il frutto maturo, che deve manifestarsi nel tempo, di quella “nuova evangelizzazione” di cui abbiamo sentito l’eco nelle scorse settimane al Sinodo mondiale dei vescovi. Il Signore è qui: non siamo indifferenti al dono, ma condividiamolo con altri nella gioia!
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Luca (3,10-18)
In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».
Condividere la speranza
Due annotazioni mi vengono spontanee dopo aver letto il Vangelo di oggi. La prima riguarda la domanda della gente, che mi sembra sinceramente attratta dalla predicazione di Giovanni: Dio sta entrando nella nostra storia in un modo nuovo e si fa veramente, fisicamente vicino. Ma noi possiamo restare immobili? No! Se Dio “si scomoda” a venire tra noi, dobbiamo andargli incontro con quelle opere di giustizia che il Battista chiede a tutti noi.
La seconda annotazione riguarda le risposte date da Giovanni: non sono affatto generiche. Ciascuno, dunque, pensi alla reale situazione in cui si trova e si domandi come può aprirsi al dono ormai imminente. Aggiungerei ancora due parole sul clima di attesa fattosi ormai quasi frenetico. Si percepisce un via vai, un’ansia buona innestata sull’ultimo minuto, prezioso, da non perdere standosene ancora una volta a guardare senza che nulla accada. Dipende da noi.
Io avverto un senso di responsabilità per me stesso, per la Chiesa e per il nostro Paese a riguardo di questo Natale: il “farsi prossimo” al bisognoso dando via la metà di quanto abbiamo, mi impegna in un esame di coscienza su quanto ho ricevuto, su quale “nome nuovo” e attuale posso dare a quella “tunica” e a quel “cibo” che devo spartire. Credo si tratti della “speranza” che mi rende combattivo nel sostenere il bene per quanti mi stanno attorno. In questi mesi viviamo, tra attese e delusioni, un desiderio di novità in tante questioni della nostra vita: la fede, la politica, il lavoro, la casa, l’educazione dei figli... tutto sembra svuotato di quello slancio che ci vorrebbe e che si fa via via più urgente per noi. È vera la sensazione che poco si muova? Dipende.
Vedo la fatica di tanti nell’affidarsi al Signore, ma vedo anche la gioia di chi ha fede e si consegna al Vangelo. Vedo quanti arrancano nel tentativo di prevalere, di “vincere” elezioni e competizioni varie, e mi domando: quanti invece riescono a dimostrarci di superare gli interessi di parte e di dare un volto nuovo a ciò che vediamo essere ripetitivo, stanco, chiuso, riproposto ormai da tempo con nomi nuovi ma con poca o nessuna novità reale? Contemplo la luminosità della Chiesa nello sguardo di Dio, ma vedo anche le sue ferite nelle nostre fragilità. Osservo il desiderio di futuro dei nostri giovani e scorgo anche la tristezza da cui, pur non lasciandosi vincere, sono pervasi...
Che cosa dobbiamo fare? Lasciare che il fuoco del Natale ci purifichi. È il fuoco dell’umiltà di Dio che imposta uno stile nuovo di salvezza nel dirci la verità e la necessità di “cose nuove”. E allora la luce che accendiamo sia interiore a tutti, interroghi gli angoli bui del nostro operare stanco e deluso, ci scuota e ci rinnovi, ci doni di verificare – nella conversione personale e nella realizzazione del bene comune – l’opera di Dio in noi!
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