di Card. Tettamanzi
In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO ROMANO, curata dal cardinale Dionigi Tettamanzi.
Luca (3,1-6)
Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto. Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati.
Per vedere il Dio-che-salva
È importante notare la precisione con cui san Luca ci fornisce i dati storici. Gli altri evangelisti non hanno riportato tutte queste informazioni. A noi sono utili per entrare nel giusto clima della lettura dei Vangeli: non sono “favole” (cfr. 2Pt 1,16), ma resoconti credibili della vita di Gesù. Non dobbiamo restare indifferenti di fronte a questo: c’è chi tende a minimizzare o, come si dice in termini tecnici, a demitizzare, come se i Vangeli fossero pura invenzione in fondo alla quale c’è al massimo un briciolo di verità.
È vero esattamente il contrario: non c’è mito o leggenda attorno al Signore; la nostra fede ha basi solide. Ed è bene dirlo quando se ne parla. Luca (e con lui Matteo) cerca informazioni anche sul periodo dell’infanzia di Gesù. Ne abbiamo ampia documentazione nei racconti dall’Annunciazione al Natale e fino all’episodio dello smarrimento di Gesù al Tempio. Il brano di oggi si colloca già oltre quei racconti: Giovanni Battista irrompe sulla scena come portatore della parola di Dio di cui si fa voce e interprete.
Egli viene considerato come un ponte tra l’Antico Testamento e il Nuovo: è l’ultimo dei profeti e il primo dei discepoli. Suo compito è prepararci a un evento mai accaduto prima nella storia dell’umanità: ogni uomo vedrà “Dio-che-salva”, che è poi l’esatta traduzione del nome “Gesù”. Ogni uomo potrà vedere Gesù, il “salvatore” di tutti. A quali condizioni si potrà vedere e credere in lui? Il Battista ne ricorda alcune: ogni ostacolo al Regno di Dio deve essere tolto.
Si tratta di ostacoli interiori, che intorbidano il cuore e non ci consentono di capire, perché pieni di noi stessi, autosufficienti in tutto, indifferenti al bene che si sta affermando nella potenza di Dio. Altri ostacoli sono fuori di noi, ma sono ancora frutto di visioni egoistiche della realtà: sono le chiusure a motivo delle quali un popolo è in lotta contro un altro popolo o un uomo non ha il necessario o è lasciato solo. Tutto questo insieme, ne possiamo essere certi, ci impedirà di vedere il Signore.
C’è un’altra condizione necessaria per vedere Gesù, come Giovanni e gli Apostoli lo hanno veduto: essergli contemporanei. È una condizione impossibile a noi che veniamo duemila anni dopo! Ricordiamo tutti però cosa accade a Tommaso (Gv 20,24ss): in quell’occasione Gesù si è fatto nostro contemporaneo e ci ha chiamati per nome. Proprio per questo i primi cristiani utilizzavano spesso questo nome per far riferimento alle comunità: “santi” (cfr. Col 1,2).
Gesù, di fronte alla fede di Tommaso che lo vede, chiama ciascuno di noi “beato”, perché senza aver visto, fidandosi della testimonianza degli apostoli, abbiamo creduto. Anche noi “vediamo” il Signore con gli occhi della fede!
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Luca (1,26-38)
L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te. [...] Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù». [...] Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola».
Benedetto il “sì” di Maria
Mi stupisce la semplicità con cui Luca narra un evento così sorprendente nella storia di Israele e dell’umanità. Mi colma di attesa gioiosa sapere che quanto accade a Maria riguarda la salvezza di tutti noi, ci restituisce sublime dignità all’interno del disegno misericordioso di Dio. Gesù salverà tutti instaurando in ciascuno di noi il suo «regno che non avrà fine». Mi soffermo, ancora una volta, sulla precisione con cui Luca circostanzia l’evento: ci dice quando è accaduto.
Il riferimento è a un precedente evento straordinario (al sesto mese dall’annuncio a Zaccaria) collegato a questo attraverso Elisabetta, che sta portando a termine una «maternità umanamente impossibile ». Luca poi introduce Giuseppe, protagonista non marginale, tra gli altri, del Vangelo. Mi faccio attento alle parole dell’angelo Gabriele che non chiama Maria per nome, ma si rivolge a lei come alla «piena di grazia».
Proprio questo “nome” è al centro della festa di oggi: Maria è l’Immacolata perché totalmente a disposizione di Dio, senza aver nulla preventivato, senza interferire nell’agire di Dio con progetti propri: semplicemente obbedisce credendo. E così diventa Madre di Gesù, il Figlio di Dio. Maria è vicina a noi: donna del suo tempo, conosce la fragilità umana e sa come le nostre vie non possono condurci fin dove Dio vuole arrivare. Si sorprende di quanto le accadrà, chiede come potrà essere, in modo pienamente responsabile, disponibile: ma infine si arrende al bene dell’umanità.
A partire dal suo “sì”, il mondo inizia a non essere più quello vecchio, consumato dalle infedeltà umane all’Alleanza, dono già grande del Signore. Inizia un mondo nuovo, in un grembo esile, in una persona umile, in cui però agisce unicamente e pienamente la forza di Dio: in questo Maria è Immacolata. Credo non sia pura coincidenza anche il nome dell’angelo: Gabriele, un nome che rimanda al Dio forte e potente, che sa come dare compimento alla sua volontà di bene.
E qui c’è un paradosso: questo Dio forte è in attesa di un “sì” umano. Benedetto sia da tutti noi questo “sì” di Maria, spiegato e pregato nel Magnificat! Il canto di Maria rende forte, attraverso Elisabetta che sta in ascolto, la speranza di Israele. Noi, ancora oggi ripetiamo questo canto nella Liturgia delle Ore, alla sera, per fare memoria e, di conseguenza, per benedire, insieme a lei, il giorno in cui la Madre del Signore ha “consentito” a Dio di farsi prossimo a tutti. Non solo: il Magnificat di Maria sembra suscitare il Benedictus di Zaccaria.
Anche questo canto diventa lode nella Chiesa che al mattino, iniziando ogni giornata, sa di dover guardare al suo Signore come a un Sole che sorge dall’alto per manifestarci la misericordia di Dio. Tutto questo dal semplice “sì” di una donna che si è affidata al Signore per dare compimento alle attese più vere e profonde dell’uomo, di ciascuno di noi.
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Salvezza e giudizio
Luca (21,25-28.34-36)
Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti [...]. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso [...]. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere».
Nell’anno liturgico che oggi ha inizio nella Chiesa leggeremo il Vangelo di Luca. È un Vangelo che si apre con una nota dello stesso autore scritta per rassicurarci: ciò che leggeremo è frutto di una sua indagine accurata condotta presso persone che hanno visto Gesù e sono vissute a lungo con lui. E Maria è tra queste. Tutto il Vangelo di Luca segue uno schema originale: gli eventi si svolgono all’interno di un lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme, ed è proprio nella Città Santa che Gesù pronuncia il discorso qui riportato. Si tratta della venuta del “Figlio dell’uomo”, termine un poco misterioso, ma utilizzato dalla tradizione giudaica. Nel Nuovo Testamento questo titolo dato a Gesù pone l’attenzione sul fatto che Gesù è anche un essere umano come tutti gli altri proprio perché nato da una donna, Maria. Si vuole così puntualizzare lo stretto legame che esiste fra Gesù Cristo e il genere umano. Questa sottolineatura, così importante in tutto il Nuovo Testamento, non contraddice però il dato di fede su Gesù “Figlio di Dio”. La prima parte del brano contiene vocaboli che possono incutere un certo timore: segni che generano paura, ansia e angoscia per cataclismi naturali... Noi però stiamo saldi nella fede, non diamo retta ai “profeti di sventura” che vedono dappertutto i segni della fine del mondo, anche ai nostri giorni. Gesù ci sta introducendo non alla fine, ma a un inizio nuovo e luminoso, carico di speranza: «Vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria». Perché questa “seconda venuta del Signore”? Il brano di Vangelo dice: «Risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina ». In questione è dunque il compimento della salvezza che, offerta a tutti dalla croce, si realizzerà in pienezza nel regno di Dio tante volte annunciato da Gesù come presenza del Padre già nella nostra vita di ogni giorno, come forza nuova che genera vita nuova in chi lo accoglie, lo celebra e gli dà testimonianza. La seconda parte del brano non contraddice la prima, anche se introduce il tema del giudizio di Dio su ciascuno di noi. San Giacomo ci assicura che si tratta di un giudizio di misericordia (Gc 2,13); occorre però stare attenti, vegliare sul nostro “fare” quotidiano. Esso deve continuamente ispirarsi alla parola di Gesù, al suo fare, al suo essere radicato nella volontà del Padre. Questo brano di Vangelo è per noi un prezioso avvertimento: siamo invitati a superare e vincere ogni distrazione e ogni faciloneria nelle questioni importanti della vita. Questa è dono, è affidamento di una responsabilità: dobbiamo riconoscervi in ogni istante la presenza di una salvezza che possiamo e dobbiamo annunciare, sino ai confini della terra, ciascuno secondo la vocazione che gli è data: è la nuova e straordinaria notizia del Vangelo.
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Giovanni (18,33-37)
Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
Chi è il vero salvatore?
Il Vangelo ci rappresenta uno dei momenti più drammatici della vita di Gesù: si trova a confronto con il potere politico del suo tempo. Un confronto decisivo: il Signore è catturato, legato, giudicato dal tribunale del sommo sacerdote e ora viene condotto davanti a chi, in nome di un regno terreno e lontano, Roma, ha potere sulla sua vita. La drammaticità del momento emerge anche dalle domande che si susseguono e si intrecciano sull’identità di Gesù. Ad alcune egli risponde, di fronte ad altre tace, e in ogni caso ci mette sulla giusta via per comprendere ciò che appartiene al mistero di Dio: perché la croce come momento finale? Gesù è re?
Pilato è quantomai preoccupato riguardo alla risposta di Gesù: se egli si ritiene un re, si mette in contrasto con quella Roma che ha tracciato i confini del suo impero e ora li ha affidati proprio a lui... Sì, Gesù è re! Ma nel mondo di Dio, che si estende ben oltre i confini dell’Impero su cui Cesare domina e in cui si fa chiamare “salvatore”. E così l’attesa della risposta si fa sempre più forte e importante: chi veramente ci salva? Gesù, come più volte egli ha detto in tanti incontri con la gente, oppure l’uomo potente di turno? Quali delle molte decisioni che ogni giorno i potenti della terra prendono risulteranno efficaci e ci potranno mettere al riparo dal crollo di ogni senso per le nostre esistenze?
La risposta a queste domande conduce a un esito dalle proporzioni risolutive: Pilato potrebbe dare credito a Gesù, ai suoi discorsi e ai suoi gesti che hanno fatto nascere in molti la fede e l’amore, oppure potrebbe “cancellare” Gesù dalla faccia della terra e scegliere di affidarsi alle certezze di Roma e dell’Imperatore. La questione della verità su chi ci salva trova risposta in queste precise parole di Gesù: «Io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
Come si vede, il dramma è al suo vertice e ci coinvolge in modo radicale: la salvezza di Pilato (in quel momento unico interlocutore di Gesù) e la nostra salvezza (eterni interlocutori della Parola che si è fatta carne) è legata alla risposta che daremo. Da parte sua, Pilato tacerà! E da parte nostra? Noi ci siamo affidati – e continuiamo ad affidarci – a questa Parola come un povero mendicante si affida alla generosità misericordiosa del suo re.
Il racconto prosegue come sappiamo: il Regno di Dio è in mezzo a noi, saldamente radicato e aggrappato alla croce da cui Gesù regna, ama sino alla fine, serve sino all’ultimo respiro la volontà di bene che è nella mente del Padre suo sin dalla creazione del mondo: siamo “opera sua” per conoscere le immense possibilità dell’amore e per sperimentare il coraggio e la gioia di amare fino in fondo. L’esito di questo amore è il Crocifisso Risorto e la nostra risurrezione con lui: tutto ha senso, tutto è riscattato, tutto è tolto al potere vuoto del male e della morte. Questa è la Via che percorriamo, la Verità che cerchiamo e la Vita di cui siamo già parte amata.
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Marco (13,24-32)
«In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. [...] In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».
Giudicati dall’Amore
Anche al tempo di Gesù esistevano i “profeti di sventura”, uomini e donne impegnati a vivere in attesa spasmodica della fine del mondo e alla ricerca di segni di eventi catastrofici più che non nello sguardo sereno e impegnato sull’oggi e sulle sue potenzialità e risorse. Ho voluto citare l’espressione del beato Giovanni XXIII perché essa intende richiamare i “profeti di sventura” a considerare la realtà del bene di cui siamo capaci, se lo vogliamo scoprire, vedere, accogliere e realizzare.
Il Papa l’ha fatto all’inizio del concilio ecumenico Vaticano II di cui ricorre, quest’anno, il cinquantesimo anniversario di apertura. Anche Gesù, nel brano evangelico di oggi, sembra assumere il volto di un “profeta di sventura”. Dice infatti: «Dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte... ». Non sappiamo bene a cosa egli si riferisse: forse alla distruzione di Gerusalemme?
Ciò che è importante per noi e decisivo per la nostra vita è la conclusione: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti». Non è certo la predizione di una catastrofe. È piuttosto l’annuncio del compimento in lui della vita di tutti noi, è quanto attendiamo come evento finale in cui sfocia la speranza cristiana: saremo radunati tutti davanti a lui e affidati per sempre alla paternità di Dio!
Ma c’è di più, se vogliamo azzardare un’interpretazione in collegamento con la piccola parabola evangelica che segue. Sì, Gesù ci dice di non sapere quando tutto questo accadrà. Ma, in realtà, ci suggerisce un momento straordinariamente vicino, ci dice di un momento che è dentro il tempo di «questa generazione». Le sue promesse si compiono nella vita di ciascun uomo e ciascuna donna che sanno ascoltare le “parole che non passeranno”: ora, adesso, il Signore ci giudica e ci consola, ci esamina nel profondo del cuore e ci purifica, ci vaglia e ci ammette alla comunione con sé.
L’Eucaristia, fonte della sua presenza viva nel mondo, è “pegno” di questa fine meravigliosa, di questo straordinario compimento di cui siamo in attesa. Viviamo già quello che ancora non è in pienezza: siamo già figli in comunione col Padre attraverso il Figlio Gesù. C’è da gioire, non da temere! Il Vangelo di oggi ci prepara anche alla festa della prossima settimana: la solennità di Cristo Re dell’universo.
Questo brano, mentre ci suggerisce di non dimenticare mai che tutto passa sotto lo sguardo buono di Dio, ci anticipa che tutto, in questo sguardo di bontà, acquista il suo senso più vero e consolante: siamo fatti per lui e la nostra vita è un camminare verso la sua e nostra casa (Dio stesso è la casa di tutti!) purificando il nostro cuore nella carità. Se questa pagina di Vangelo ci richiama in qualche modo il “giudizio finale”, di questo stesso giudizio già fin d’ora ci viene data la conoscenza vera della sua identità: sarà un giudizio sull’amore. Sì, sull’amore e da parte dell’Amore!
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Il dono totale di sé
Marco (12,38-44)
[Gesù] Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
Ricordiamo tutti un brano del Vangelo di Matteo simile a questo di oggi: dopo aver annunciato le Beatitudini, Gesù stigmatizza la vanità degli «scribi e farisei ipocriti» che «suonano la tromba davanti a sé quando fanno l’elemosina». (Mt 6,2), ottenendo il risultato di avere ricompensa non da Dioma dagli uomini: il che, in realtà, è ben poca cosa! Ciò che mi sembra bello nella pagina di Matteo è il fatto, tra l’altro, che Gesù attribuisce a Dio un “nome” suggestivo: «Colui che vede nel segreto». Sì, nel segreto del nostro cuore un gesto da poco può avere un valore immenso agli occhi del Signore, anche se nessuno di noi lo coglie. È davvero preziosa allora l’indicazione a valutare il nostro agire guardando a Colui che ci scruta e mirando solo alla sua ricompensa. L’esortazione di Gesù, insieme al fatto della vedova “povera” e delle semplici “due monetine”, ci suggerisce che non dobbiamo avere alcuna paura né tanto meno provare alcun disprezzo per ciò che è piccolo: piccolo, come un seme gettato nel terreno buono, è persino il Regno di Dio! D’altra parte l’affermazione secondo cui «ciò che conta è il cuore» ci spinge a fare bene i conti con l’effettiva generosità nel dare: non può essere affatto una scusa per dare poco a chi ha bisogno! Precisamente per questo Gesù “mostra” ai suoi discepoli il cuore grande di questa vedova che non ha dato né poco né tanto, ma ha dato “tutto”. E c’è differenza tra il poco, il molto e il tutto: il tutto vale più del molto e non può mai essere poco: entra negli stessi orizzonti sconfinati della compassione di Dio verso chi lo dona. Questo però è anche un brano di vangelo imbarazzante: dice che non avremo mai dato abbastanza fin tanto che non avremo dato tutto! Ma è mai possibile? Guardiamo a Gesù che dona sé stesso: è il massimo possibile del dare. Lui non l’ha fatto in una volta sola, con un gesto in qualche modo affrettato di generosità, ma ha saputo e voluto donarsi secondo il disegno di Dio, obbedendo al quale non ha tenuto davvero nulla per sé: sulla croce Gesù si è spogliato totalmente persino della propria volontà per realizzare tutta e sola la volontà di salvezza del Padre a nostro riguardo. Gesù ha messo tutto sé stesso nel tesoro di quanto noi da sempre chiamiamo Vangelo: la buona notizia – l’evento meraviglioso e sorprendente – che Dio si è speso totalmente per noi nel suo Figlio, l’Amato. E così egli ci raggiunge e tutti ci conforta e ci rigenera. Mi pare di poter vedere questo “dono totale di sé” in tante delle vostre case, in molte confidenze da voi espresse: i racconti che ascolto sono richiesta di preghiera e nascondono in sé un grande disinteresse da parte di tanti uomini e donne che si spendono in continuità dando tutto quello che possono per una ragione di carità in famiglia e, spesso, anche al di là degli orizzonti della propria casa. Amare l’altro come si desidera il bene per sé è lo sfondo luminoso di innumerevoli gesti d’amore che portano la firma di tanti credenti e uomini e donne di buona volontà: di tutti costoro il Signore si compiace! E ne gioisce!
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Marco (12,28b-34)
Si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i Comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro Comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui [...]». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio».
Il grazie di tutta la vita
I Comandamenti di Mosè sono la straordinaria codificazione della parola di Dio e della sua santa volontà nei riguardi della nostra vita. Sappiamo che quella di Dio è volontà di bene nei nostri confronti: proprio per questo i dieci Comandamenti sprigionano una forza che ci orienta alla vita buona e ci conduce al nostro incontro con Dio e con i fratelli. Essi sono di una chiarezza sconvolgente: cosa c’è di più chiaro del «non avrai altri dèi fuori di me, non uccidere, non rubare, non dire falsa testimonianza... »? Eppure siamo esposti al rischio d’essere idolatri del proprio “io” o di altre realtà, d’essere indifferenti verso chi muore nell’estrema povertà o nella violenza, di assistere quasi impotenti alla sfrontatezza di quanti, nella gestione di un patrimonio che è di tutti, calpestano proprio il povero, mentre dovrebbero curarsi della fragilità di molti, specialmente in questi tempi travagliati e difficili... A motivo di questa fragilità, mi sembra interessante notare come Gesù risponde allo scriba che lo interroga a proposito del “cuore” della legge: egli non inizia con il dettare subito i due Comandamenti, unificandoli peraltro nel cuore più infuocato della legge stessa, ossia nell’amore nella duplice e indivisibile direzione di Dio e del prossimo. Inizia invece richiamando all’ascolto: «Il primo comandamento è: “Ascolta, Israele...”». Se non si ha la pazienza di “leggere”, ossia di “ascoltare”, la narrazione della storia che dall’Esodo alla Croce è storia di liberazione dell’uomo operata dall’amore di Dio, non si arriverà mai all’obbedienza che rende migliori sé stessi e il mondo. La legge di Dio, resa “nuova” dal Comandamento di Gesù, va accolta, cioè ascoltata docilmente e quotidianamente. Il Signore Dio ha una Parola da dire sulla nostra vita, che è dono del suo amore. Siamo fatti da lui e per lui! Sì, il dono chiede, esige gratitudine. È vero: noi siamo abituati alla gratitudine nei termini di un “gesto”. E così sorridiamo, ricambiando la gentilezza che ci è offerta; ringraziamo, per il regalo che ci è dato... Penso però che la gratitudine vada intesa più come una “virtù” che plasma tutta la nostra vita, prende tutte le nostre energie: cuore, anima e mente, cioè volontà, sensibilità e intelligenza. Lo dico nel desiderio di elevare a concretezza virtuosa l’abitudine buona a dire “grazie”... Si può ringraziare con una parola o con l’affetto di tutta la vita; dipende anche dalla grandezza del dono che riceviamo: se la misura è quella dell’amore di Dio, allora è la vita stessa che deve esprimere, riamando, quell’obbedienza grata e gioiosa cui il Vangelo oggi richiama la nostra attenzione. Mi sembra tutto molto bello e molto chiaro. Come lo scriba, potremmo non interrogare più Gesù: la sua risposta è più che sufficiente per poter vivere bene, per poter restituire – in qualche modo accresciuto dalla nostra risposta d’amore all’amore del Padre –, quanto lui stesso ancora e sempre ci dona in termini di “vita benedetta” fin dall’atto stesso della creazione del mondo e in ogni istante della nostra esistenza.
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Marco (10,46-52)
Mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». [...] Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
Il cammino della fede
Gli apostoli hanno capito bene che Gesù è esigente e che su alcune questioni non si lascia convincere del contrario. Riguardo a sé stesso poi è ancora più deciso, diremmo radicale, assolutista. Lo sentiamo così quando si affida alla croce e di questa parla in un passo che però non leggiamo nel Vangelo d’oggi. Il Signore sta spiegando che l’opera della salvezza si compie attraverso il sacrificio di sé: Gesù non è maestro di cose astratte, ma vive in prima persona ciò che insegna. Lui ama con fedeltà, lui per primo accoglie i piccoli, lui prima di tutti ha lasciato casa e beni per annunciarci il Regno di Dio, lui, con ostinazione, si è fatto servo sino a lavare i piedi dei suoi amici.
I discepoli da un lato capiscono i discorsi di Gesù ma, dall’altro, comprendono che, da soli, non sapranno mai imitarlo: si sentono come un cieco che non trova la strada di casa! Ecco perché, nei discorsi di Marco, si inquadra a questo punto la narrazione di questo miracolo così particolare. Bartimeo, cieco, attira l’attenzione di Gesù con una preghiera semplicissima e straordinariamente bella: «Abbi pietà di me!».
La gente però sembra seccata da questo grido: Bartimeo è un povero diavolo che dovrebbe tacere e casomai cogliere l’occasione per qualche elemosina in più, grazie alla tanta gente che si è radunata per vedere il Maestro. Il suo posto è sul ciglio del sentiero, accovacciato, a tendere la mano. Ma Gesù si interessa a lui e lo fa chiamare, chiedendogli di rinnovare la sua preghiera. Bartimeo si stupisce: «Ma come? Non vedi che sono cieco? Voglio la gioia di vedere e di tornare a casa da solo, come tutti!».
A volte dobbiamo fare più attenzione a cosa chiediamo e dobbiamo imparare a far nascere le nostre richieste da un cuore che desidera dal profondo di essere come Dio vuole! Ora, Dio non vuole certo l’uomo dimezzato, cieco o zoppo... Dio si rattrista del male che c’è: se gli chiediamo qualcosa di veramente buono, egli ce la concede. Questa è la fede di Bartimeo, la fede vista dagli occhi e dal cuore di Gesù. E Gesù lo guarisce.
Gli apostoli sono dietro le quinte: anche loro sono ciechi, forse. Ciechi non negli occhi della carne, ma in quelli dell’anima. Non vedono la potenza di Dio quando la strada è difficile da percorrere e non si sa come fare per raggiungere la meta. Non hanno certo frainteso le parole esigenti di Gesù; verrebbe sì da contestarle, ma l’episodio del cieco ha aperto gli occhi anche a loro: Signore, se tu vuoi, se tu sei con me, io cammino per la via che tu proponi e, quando la tentazione è quella di non vederne la necessità, tu risvegliami al tuo amore che dà forza e risana e libera!
Questa deve essere la preghiera di ogni discepolo che non sfugge al Vangelo ma, con coraggio e con gioia, vi si inoltra, anche se ci sono le tenebre della notte: «Abbi pietà di me!».
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Marco 10,35-45
[...] Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Dal potere al servizio
Quando c’è di mezzo il potere, non è facile “essere a posto” e “far bella figura” con Gesù! Il potere fa gola a tutti: non c’è solo il potere economico o politico o mediatico; ci sono tante forme, piccole o grandi, di potere e diventa davvero complicato dire con troppa sicurezza che noi no, non siamo uomini potenti! Sta di fatto che vorremmo tanto esserlo: magari tra i vicini di casa, nelle assemblee condominiali, o con quelli di famiglia, quando ci imponiamo inutilmente, o al lavoro, con certi colleghi o con certi superiori, nel gioco, con gli amici, a scuola, in parrocchia...
Ma cos’è il potere? È quell’atteggiamento che assumiamo quando gli altri sono di intralcio al nostro successo, ai nostri desideri, alle nostre pretese e comodità. Chi ha un certo potere, se lo esercita per facilitarsi la carriera o la vita, venendo meno al suo impegno per il bene comune, ha già messo sotto i piedi qualche povero, lo ha messo da parte per un bene di interesse personale, non considera più che altri fanno fatica mentre lui usa le leve “giuste” per avvantaggiarsi in qualcosa.
Giustizia vorrebbe che facesse bene ciò che potrebbe o dovrebbe fare a servizio di tutti, ma lui sceglie di servirsi degli altri per fare il proprio interesse. Il potere viene esercitato ingiustamente anche quando, pur dovendolo fare, non paghiamo le tasse. Di nascosto, quasi fingendo di non accorgerci, mettiamo in tasca qualcosa che pagheranno altri... Una forma particolare di potere è quella di raccomandarsi a qualcuno per passare davanti a tutti.
È il caso del Vangelo di oggi, di Giacomo e di Giovanni: non sono però i peggiori tra gli apostoli. Anche tra gli amici di Gesù, serpeggiava la pretesa del posto migliore semplicemente sussurrando all’orecchio del Maestro qualche buona parola, sottovoce, in segreto («gli si avvicinarono»). Si sa che «il potere logora chi non ce l’ha» e che, sentendoci scavalcati in qualcosa, dobbiamo reagire. Così, gli altri dieci mostrano di avere nel cuore la stessa tentazione dei primi due e «cominciarono a indignarsi » con loro.
Qui occorre fare attenzione: l’indignazione di fronte all’evidenza del potere mal gestito può diventare il segno più subdolo che non siamo poi così diversi da chi ha apertamente agito solo per sé stesso, mettendo da parte altri. Ci conviene allora ascoltare bene le parole di Gesù: «Voi sapete come vanno le cose!».
Indignarsi non serve a molto; l’indignazione è giusta, ma occorre subito guardare dentro di noi: forse ci indigniamo perché l’altro è arrivato prima, ma... se avessimo potuto, ora saremmo noi più in alto, più soddisfatti, più “a posto” di lui, ma non nel profondo della nostra coscienza. Sì, ascoltare le parole di Gesù. Soprattutto fissare gli occhi del nostro cuore su di lui: «il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
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Marco 10,17-30
Un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i Comandamenti [...]». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Affidiamoci a Dio
Stiamo leggendo il capitolo decimo del Vangelo di Marco, che riporta quattro discorsi di Gesù: l’uno sul matrimonio e sul divorzio, l’altro sull’accoglienza dei piccoli e dei poveri, il terzo sul coraggio di ridimensionare le ricchezze, l’ultimo sulla necessità di capovolgere il criterio del potere in quello del servire. Domenica scorsa il Vangelo ci presentava il pensiero di Gesù non solo sul matrimonio, ma anche sui piccoli: questi, contrariamente alla cultura del suo tempo, venivano da lui considerati così importanti da essere presentati come i primi nel Regno di Dio. E oggi il Vangelo si sofferma sul pericolo delle ricchezze.
Di per sé, secondo il Vangelo, l’essere ricchi diventa un grosso problema – un vero guaio – solo quando la ricchezza ci rende egoisti e chiusi alle necessità degli altri e ci impedisce di decidere di seguire veramente Gesù. Di fatto però, la ricchezza blocca a molti l’accesso alla vita spirituale: non è facile lasciare quello che si ha, quando il Signore lo domanda! «Un tale gli corse incontro»: non ha nome, nulla è detto della sua età, si dice però che si getta ai piedi di Gesù. In qualche modo mostra attenzione e rispetto verso il «Maestro buono»; potremmo dire che è un uomo avviato al discepolato, senz’altro un ebreo cresciuto nell’osservanza dei Comandamenti...
Lo pensiamo come “un buon cristiano” che si mette nei guai con una domanda tanto semplice e che tocca tutti noi. Sì, perché tutti, prima o poi, chiediamo a Gesù: «Che cosa devo fare per seguirti e avere quella “vita nuova” di cui tu mi parli?». E Gesù risponde proprio come aveva detto nelle sue parabole. Se trovi un tesoro in un campo, che cosa fai? I tuoi beni tu li vendi, pur di acquistare quel campo dove c’è il tesoro. Ecco, tu hai capito che potrebbe esserci un tesoro nella tua vita, ma che non l’avrai mai, se non ti metti a servizio del Regno di Dio con semplicità e umiltà, rinunciando alle tue sicurezze per fidarti completamente di Dio, del Padre. Non è cosa da poco, perché il cuore, cioè le nostre intenzioni e decisioni, non vanno in modo naturale nella direzione voluta da Gesù.
Occorre chiedere molto a noi stessi e operare scelte non comuni quando abbiamo intuito che c’è una gioia più grande di quella che le nostre mani possono stringere. Gesù, per la verità, non sta chiedendo una semplice rinuncia: sta dettando le condizioni per una gioia che le ricchezze non possono dare. Se vogliamo evitare un discorso astratto, poniamoci allora questa precisa domanda: quanto ti fideresti di Dio, se ti chiedesse di lasciar perdere ciò che consideri umanamente essenziale al tuo benessere, per affidarti davvero a lui? Per dire: sì, mi fido, occorrerebbe che Dio mi garantisse almeno lo stretto necessario per non morire di fame o di solitudine. All’obiezione di Pietro, Gesù promette il centuplo di ciò che si lascia. Ci affidiamo?
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Marco 10,2-16
Alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, gli domandavano se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».
Segno dell’amore di Dio
Nel Vangelo di oggi tutti, non solo gli scribi e i farisei ma anche i discepoli di Gesù, sembrano non comprendere la bellezza e la responsabilità della vocazione al matrimonio. È dal desiderio di Dio che esplode nel suo splendore l’intera creazione: in essa tutto è buono e corrisponde a un’armonia che è la prima traccia di Dio nell’universo. Ogni creatura ha un suo “perché” e sviluppa una sua “storia” che risponde a un progetto meraviglioso e straordinario. Anche l’uomo e la donna. I due non sono fatti per la solitudine, ma per una relazione di amore talmente profonda che san Paolo la descrive con queste parole: «Come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato sé stesso per lei così anche voi, mariti, amate le vostre mogli... Questo mistero è grande» (Ef 5,25ss). La profondità di questa relazione, il suo essere pensata come grazia di imitazione per amare come Dio stesso in Gesù ama, fa del matrimonio cristiano qualcosa di indisponibile agli umori umani, a volte davvero incerti e fragili. Il matrimonio segno dell’amore di Gesù è, in modo originale, vocazione rivolta da Dio specificamente all’uomo e alla donna. Abbracciata come dono e responsabilità da parte loro, trova la sua radice nel pensiero e nel cuore di Dio. È davvero un mistero grande! In esso si entra solo dopo aver fatto i conti con ciò che Dio intende: offrire ai coniugi “un grande bene a caro prezzo”, la possibilità cioè di fare dono libero e gratuito di sé all’altro in modo unico, totale e per sempre. Il problema, sostiene Gesù, è «la durezza del cuore» che cerca continuamente vie di fuga dalle responsabilità. Anche nella vita coniugale occorre allora la disponibilità alla conversione, a tornare sempre dentro i confini del dono che Dio dà ai coniugi di amarsi come lui ama e della libertà necessaria per dare risposta a questa chiamata. È il più grande di tutti i misteri umani: esso domanda di avere la pazienza di una scelta che conduce al cuore della stessa creazione. Suo centro e vertice, non a caso, è la gioia dell’uomo e della donna che si rispecchiano l’uno nell’altra e vedono il bene che Dio ha loro voluto. La questione è talmente vera, così come il Signore la dichiara, che quando si vien meno alla responsabilità riguardo al matrimonio, si percepisce di avere il cuore ferito, e si soffre. La Chiesa non può disporre a suo piacimento delle cose di Dio, ma maternamente accompagna chi cerca, e certamente può trovare, vie nuove per sentirsi amato anche nella fragilità da cui è stato deluso o con cui ha deluso altri. Questo accade anche quando la Chiesa pone il segno di un cammino morale che non sempre viene compreso nel suo vero significato. Di questo siamo certi: Dio ama prima di tutti chi, consapevole delle proprie fragilità, sta soffrendo per un dono in qualche modo rovinato o trascurato.
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Un cuore più grande
Marco (9,38-43.45.47-48)
Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi. [...] Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile».
Qualcuno potrebbe domandarsi quanti zoppi e ciechi si presenteranno a Dio nel giorno del giudizio. In effetti c’è più di qualcuno che calpesta i piccoli, quanti cioè il Vangelo dice essere i primi agli occhi del Padre. Sto pensando, tra l’altro, a chi ruba ciò che è di tutti andando contro ogni logica di bene comune, a chi evade le tasse a scapito dei più disagiati, a chi passa oltre di fronte alla fatica dei poveri e dei miseri... La questione dello scandalo è centrale per Gesù, e credo proprio che lo sarà davvero e per sempre, fino al momento in cui saremo giudicati per i nostri sentimenti e le nostre azioni. Ma Gesù voleva proprio dire quello che ha detto? O si è limitato a dire “piccole parabole” e a usare esempi paradossali. Forse... Eppure la sua rimane una Parola davvero seria e da prendersi con serietà: saremo giudicati severamente più per aver fatto soffrire un “piccolo” che per qualsiasi altro peccato! I piccoli però non sono soltanto quanti anagraficamente hanno pochi anni, bensì tutti coloro che si rivolgono a Dio quando nessuno di noi ascolta la loro richiesta di aiuto. A qualcuno può dar fastidio ricordare che nel “terzo mondo” moltissimi muoiono di fame, senza neppure avere la forza di rivolgersi a Dio perché non hanno voce... Ma Dio sente più di quanto gli riescono a dire. Certo, noi non siamo responsabili di tutto il male che c’è nel mondo. Resta però il tremendo sospetto che lo sguardo pietoso di Dio di fronte a tanto mare di sofferenza sarà più su di noi che non su quanti hanno sofferto. E tanto basta a noi che capiamo bene... C’è un’altra questione che il Vangelo di oggi ci pone: da che parte deve venire il bene? Tante volte viene il sospetto che, persino nelle nostre comunità, il bene compiuto da una certa parte non venga riconosciuto, anzi venga negato! Invece è così bello vedere come molti, a prescindere dalle diverse appartenenze, si impegnano generosamente a favore di chi ha bisogno! Ma di nuovo riemerge il sospetto: anche in questo impegno di solidarietà operosa, non rischiamo spesso di dividerci per futili questioni di precedenza, di opportunità, di vanto umano? Abbiamo bisogno di un cuore più grande: prestiamoci per tutti, anche per gente che vive lontana da noi, ma che un giorno ci dirà “grazie” davanti a Dio. E che ci sia dato, allora, di non arrossire per aver agito più per orgoglio che per autentica carità! Gli apostoli hanno fatto esperienza di questo genere di invidia e non ne hanno fatto mistero a Gesù. Leggiamo attentamente e ci accorgiamo subito che, ai suoi occhi, il bene è bene, anche se “non viene dalla nostra parte” o dal nostro gruppo. Del resto: quale parte? Quale gruppo davanti al Signore?
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Marco (9,30-37)
Diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli
uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni
risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di
interrogarlo. Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di
che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la
strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande.
Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo,
sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti»
Amare fino a dare la vita
Ci sono questioni che vanno affrontate con delicatezza e attenzione. A volte si tratta di cose riservate, altre volte di cose che potrebbero non essere capite subito: come in una famiglia, quando mamma e papà prendono decisioni con senso di responsabilità, si consultano tra loro e poi coinvolgono tutti. Gesù aveva una grandissima familiarità col Padre che è nei cieli. Da lui aveva ricevuto la missione di restituire agli uomini la dignità di essere e di sentirsi figli, ma questo progetto andava realizzato per vie veramente difficili da accettare.
Gesù stesso si sentiva sorpreso, triste e oppresso di fronte alla prospettiva della croce, ma il suo amore per il Padre lo aiutava a donarsi in pienezza e totalità per la nostra salvezza. Venuto il momento in cui coinvolgere gli amici in questa sua missione, Gesù sembra interrogarsi proprio a loro riguardo: «Capiranno? Condivideranno questo momento così difficile? ». Li prende in disparte e li istruisce... «Non capivano queste parole», che a noi invece sembrano chiarissime.
In realtà pur comprendendo quello che Gesù diceva, a rimanere oscure erano le sue ragioni: si domandavano perché mai il loro amico, che poteva fare cose straordinarie con i miracoli, si doveva mettere in testa certe “assurdità”. Forse nella loro mente prendevano forma di domanda le parole del diavolo che, all’inizio, aveva tentato Gesù: «Se sei il Figlio di Dio...», «Ma non sei il Figlio che Dio ama? Allora perché parli così?».
Il ragionamento degli apostoli probabilmente anche noi lo adottiamo, in particolare riguardo a noi stessi, quando pensiamo: «Ma se anch’io sono figlio di Dio, perché soffro? Perché mi sento solo? Perché...?». Insomma ci sono cose che, non rientrando nella logica umana, tentiamo di non pensare neppure e ci stupiamo se ci vengono fatte sperimentare. Gesù non dà grandi spiegazioni sulla croce.
Essa è realtà che ci rappresenta il male più assurdo, al quale non si può reagire ragionando. Può spiegarsi solo a partire da una libera accettazione per amore di qualcuno: si ama tanto da dare la vita e per questo si accetta tutto, anche una morte violenta. Gesù non spiega la croce, ma va oltre e apre il suo cuore: occorre prendere l’ultimo posto, se si vuole che altri prendano il primo; bisogna accettare di servire, se si vuole che qualcuno sieda a tavola...
«Se uno vuole»: sono le parole con cui Gesù parla di sé nella prospettiva della propria morte, e sembra dirci «io voglio» che i più piccoli siano considerati i primi nel Regno di Dio e per questo mi faccio piccolo come loro, mi umilio per dare dignità a chi non è considerato da nessuno, ma agli occhi del Padre è prezioso. È talmente ricco, grande, nobile il più povero della terra che Dio lo ama fino al sacrificio più incomprensibile che ci sia: mettere la croce sulle spalle e nel cuore del Figlio suo Gesù.
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Marco (8,27-35)
Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.
In lui l’amore che salva
Si dice che questo brano di Vangelo corrisponda a un momento di verifica per Gesù e per i suoi discepoli. Gesù, per così dire, si rende conto che il suo annuncio ha sbalordito molto, non solo per ciò che ha proclamato (il Regno di Dio) ma anche per ciò che ha fatto (i miracoli che accompagnano le parole). Questa verifica si svolge in due momenti. Il primo è rivolto alla gente che ha seguito Gesù da lontano, forse solo per curiosità o per qualche interesse ai miracoli.
Alla domanda «Chi dice la gente che io sia?» vengono date risposte interessanti: Gesù è collocato in un lungo elenco di nomi e identità storiche, significative e centrali nella storia di Israele. Ma la vera identità di Gesù non emerge ancora. Non si può parlare di Gesù per sentito dire, non si può credere senza averlo incontrato e conosciuto da vicino, come hanno fatto i discepoli che hanno lasciato tutto per seguirlo.
Loro, dunque, dovrebbero sapere. E parlare! È Pietro che alla seconda domanda di Gesù, rivolta proprio ai discepoli, risponde: «Tu sei il Cristo», sei colui che Israele da sempre attende come compimento delle promesse di libertà e di salvezza fatte ai nostri padri. È una risposta esatta, anche se lascia il sospetto che Pietro abbia parlato per evitare a tutti gli altri lo smacco del silenzio ignorante di chi non ha capito proprio tutto.
Gesù però accetta la risposta di Pietro, ma sa che va precisata nei fatti: quale libertà e salvezza? E a quale prezzo? In gioco, Gesù ne è pienamente consapevole, c’è il male del mondo e la croce come rimedio, l’umiliazione più aberrante che può essere assegnata a un uomo. Come accettare questo? Pietro non ci sta. Vorrebbe che Gesù non deviasse dal modo in cui ha agito sino a ora: discorsi applauditi, miracoli osannati, un po’ di successo ancora e... tutto si sistemerà, prima o poi la gente si convincerà che lui è “l’atteso del Signore”.
Gesù scaccia Pietro con parole inaspettate e sconvolgenti: «Va’ dietro a me», non farti maestro, ma sii discepolo che segue e accetta di dover capire, non pretendere di essere l’insegnante di Dio! E lo chiama “Satana”, un nome che ci riporta alle tentazioni iniziali, quando Gesù, dopo aver ricevuto il battesimo di Giovanni, viene condotto dallo Spirito nel deserto per aprirsi alla volontà di Dio.
Satana è il tentatore per eccellenza, colui che conosce le arti della divisione e sa come sradicare in noi ogni pensiero che viene da Dio. Gesù torna alla croce: in essa, se lo vogliamo, possiamo soffocare ogni vanità e comprendere che si salva il mondo solo con l’amore di Dio. Ma questo, per ora, i discepoli non lo hanno ancora compreso sino in fondo. Verrà il momento in cui in questo amore saranno coinvolti: allora per il Maestro amato daranno davvero tutto, anche la vita!
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Marco (7,31-37)
Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
La solitudine è vinta
Il racconto di Marco, questa domenica, è ambientato in territori pagani. Non essendovi giunta la legge di Mosè, questi territori erano ben marcati nei loro confini e ritenuti esclusi dalla salvezza assegnata a Israele. In scena c’è un sordomuto. Si tratta dell’uomo chiuso alla novità di Dio: il pagano, ma in fondo anche il discepolo infedele al Signore. In questo sordomuto siamo tratteggiati tutti noi con le nostre durezze di fronte al Vangelo e con l’invocazione che Gesù ci renda docili al soffio dello Spirito che ricrea e rinnova la nostra umanità indirizzandola verso il cuore del Padre che in Gesù ci salva.
Gesù si comporta in un modo interessante: mentre tutti cercavano di stare alla larga dai pagani, egli va in disparte con uno di loro, quasi a indicare che la questione dell’uomo chiuso in sé stesso, sordo alla Parola e incapace di ascolto, lo riguarda personalmente, non è questione da risolvere tra la folla, ma in una relazione personale, quasi intima, che riguarda l’agire stesso di Dio.
Non solo: Gesù tocca con la propria mano il male, fa esperienza del dolore in cui l’uomo è solo con sé stesso ed escluso da ogni speranza: agisce direttamente su di lui, perché si apra al bene, subito, senza incertezze. Nel testo c’è un imperativo forte ad aprirsi: “deve aprirsi”, perché non è possibile che sfugga al dono dell’intimità filiale con Dio per la quale l’uomo è stato creato. Il miracolo avviene: Gesù squarcia le nebbie dell’isolamento e l’uomo malato supera la propria solitudine, scopre relazioni buone, costruttive, può vivere in pienezza tutto l’umano e ogni occasione di ascolto di Dio stesso.
C’è ancora qualcosa di significativo: il bene ha vinto il male e si è manifestato per ciò che è, occasione di rinnovamento, di rinascita, di apertura. Tutti colgono qualcosa di interessante, di bello, che va detto e testimoniato. Quanto a Gesù, di lui si dice semplicemente la verità, ma con stupore, riconoscendo cioè il dono: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
Conosciamo il proverbio “la lingua batte dove il dente duole”: si parla di ciò che fa male, ma apriamo il cuore nel dolore e insistiamo nel chiedere sollievo alla nostra sofferenza quando qualcuno può aiutarci. Questo proverbio è oggi quasi capovolto: “la gente va dove vede il bene”. Possiamo dire questo di Gesù, ma dovremmo poterlo dire anche della sua Chiesa, che di Gesù è segno e trasparenza nel mondo.
Per esserlo in pienezza la Chiesa, che viene radunata da tutti i popoli della terra, ha imparato ad aprirsi all’ascolto e a testimoniare una novità di vita più umana e umanizzante. Ma il nostro essere aperti in questo senso va continuamente verificato, non va mai dato per scontato, come per ogni dono di Dio.
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