di Card. Tettamanzi
In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO ROMANO, curata dal cardinale Dionigi Tettamanzi.
Marco
(7,1-8.14-15.21-23)
Chiamata di nuovo
la folla, [Gesù] diceva
loro: «Ascoltatemi tutti
e comprendete bene! Non
c’è nulla fuori dell’uomo
che, entrando in lui,
possa renderlo impuro.
Ma sono le cose
che escono dall’uomo
a renderlo impuro». E diceva [ai suoi
discepoli]: «Dal di dentro
infatti, cioè dal cuore degli
uomini, escono i propositi
di male: impurità, furti,
omicidi, adultèri, avidità,
malvagità, inganno,
dissolutezza, invidia,
calunnia, superbia,
stoltezza. Tutte queste
cose cattive vengono fuori
dall’interno e rendono
impuro l’uomo».
Con tutto il cuore
Le parole di Gesù pongono la questione
del cuore dell’uomo, dove si annida una
molteplicità di sentimenti, decisioni e gesti
che mostrano ciò che noi siamo.
Nella Bibbia Dio parla a noi attraverso il
“cuore”, leggendo nel profondo segreto della
vita di ciascuno, e dal cuore noi a lui rispondiamo.
Ed è sempre col cuore che stiamo in
ascolto della realtà: la leggiamo, la valutiamo,
la soppesiamo e prendiamo le decisioni
che contano.
Così, quando diciamo a una persona
o ci rivolgiamo a Dio stesso nella preghiera
dicendo «ti amo con tutto il cuore», esterniamo
non un sentimento vago, ma la decisione
di impegnarci per un progetto comune che corrisponde
certamente alla volontà dell’altro (anche
alla volontà di Dio), ma è pienamente deciso
e condiviso anche da noi.
Può aiutarci a capire il Vangelo la bellissima
preghiera di san Paolo per i cristiani di Efeso:
«Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri
cuori, e così, radicati e fondati nella carità,
siate in grado di comprendere con tutti i santi
quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la
profondità e di conoscere l’amore di Cristo che
supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di
tutta la pienezza di Dio» (Ef 2,17-19).
Domandiamoci allora: che cosa c’è nel nostro
cuore e quali sono le decisioni che quotidianamente
prendiamo? Mirano alla vita di fede
attraverso il compimento di ogni buona volontà
contraria a qualsiasi ingerenza del male
nella vita nostra e del mondo? Oppure il nostro
cuore è superbo, ci chiude in un’autosufficienza
che forse, nonostante le apparenze,
non va contro il male che c’è ma si accontenta
di non farne troppo?
È di questo che Gesù discute con gli scribi e i
farisei che vivono appoggiati unicamente alle
tradizioni. Il bene che altri hanno inteso nel
passato e hanno compiuto nel presente non deve
generare un noioso rimpianto di ciò che
una volta tutti facevano e ora non più! Non possiamo
essere come gli interlocutori di Gesù che
si chiedono, piagnucolando, «dove andremo a
finire» se i tuoi discepoli non purificano le loro
mani prima di mangiare?
La risposta di Gesù mostra come egli è in profonda
sintonia col cuore di tutti: di quanti lo seguono
sforzandosi di percepire la novità dirompente
della sua Parola e di quanti non si aprono
alla legge nuova dell’amore che fa il bene.
L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori
(ecco ciò che deve entrare in noi e trovare una
volontà disponibile) perché da questi stessi
cuori esca solo bontà, compassione, solidarietà,
condivisione, capacità di rivolgerci insieme
all’unico Padre che ama tutti ed è in cerca
di ciascuno e, da ciascuno, vuole una risposta
fatta di preghiera e di vita buona.
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Giovanni
(6,60-69)
Molti dei discepoli
di Gesù, dopo aver
ascoltato, dissero:
«Questa parola è dura!
Chi può ascoltarla?».
Gesù, sapendo dentro di
sé che i suoi discepoli
mormoravano riguardo
a questo, disse loro:
«Questo vi scandalizza?
E se vedeste il Figlio
dell’uomo salire là
dov’era prima? [...]». Da
quel momento molti dei
suoi discepoli tornarono
indietro e non andavano
più con lui. Disse allora
Gesù ai Dodici: «Volete
andarvene anche voi?».
Gli rispose Simon Pietro:
«Signore, da chi
andremo? Tu hai parole
di vita eterna e noi
abbiamo creduto
e conosciuto che tu
sei il Santo di Dio».
Vivere per il Signore
È il caso di dire che sulla questione del
suo Corpo e del suo Sangue (la sua vita
data per noi) Gesù si è giocato tutto: ha
lasciato per strada molti dei suoi discepoli e
ha rischiato persino il rifiuto da parte dei Dodici.
E questo mi dice quanto sia grande la
sua bontà, ma anche quanto sia deciso e a volte
duro il suo andare nella direzione del compimento
del progetto che Dio gli ha affidato.
A volte Gesù è duro anche con noi. È vero
che non abbiamo dubbi sull’Eucaristia e su
tante altre pagine di Vangelo, ma è strano che
a noi sembri scontato ciò che ai discepoli di
Gesù sembrava del tutto inconcepibile. Corriamo
il rischio di non pensare con la dovuta serietà
alle occasioni in cui il Signore ci coinvolge
e quasi ci inchioda: spesso ascoltiamo un
brano di Vangelo e pensiamo che sia ovvio il
suo contenuto, che sia chiaro che dovremmo
comportarci e scegliere proprio come Gesù ha
detto... Ma poi dimentichiamo. Eppure il Vangelo
è sempre lì ad attendere la nostra obbedienza,
il nostro “sì” quotidiano, mentre
noi rischiamo nei fatti di divagare e di vivere
lontano da ciò che abbiamo capito.
L’Eucaristia invece è lì, testimone di un
amore eterno, che facciamo fatica a credere
vero e a imitare. Non facciamo forse come coloro
che se ne sono andati? Merita allora d’essere
ripresa e meditata una frase del Vangelo
di domenica scorsa. Gesù dice: «Come il Padre,
che ha la vita, ha mandato me e io vivo
per il Padre, così anche colui che mangia me
vivrà per me». È il caso di ascoltare bene: il
Padre condivide la sua stessa vita con Gesù e
Gesù è inviato perché la vita del Padre sia in
tutti noi.
E lo strumento per questa condivisione
è che noi, mangiando il suo corpo, viviamo
per lui. “Vivere per” è il segno di una
dedizione profonda, coraggiosa, a volte
eroica: una mamma vive per il proprio bambino;
due coniugi vivono l’uno per l’altro,
un prete vive per il Vangelo... Pensiamo a
quante scelte si fanno in nome di ciò per cui
si vive, a quante cose pur buone diventano
oggetto di rinuncia, a quante idee vengono
messe da parte e a quanti progetti passano in
secondo piano, quando si “vive per...”.
La questione centrale dell’Eucaristia è
proprio giocata sul “per chi” si vive. Sì, Gesù
ha fatto il passo che solo lui poteva compiere
secondo il disegno di Dio; ma in questo stesso
disegno ora siamo coinvolti tutti noi che
celebriamo la sua presenza nel mondo, nella
Chiesa e nelle nostre esistenze. La celebriamo
“vivendo per lui”, senza le pericolose deviazioni
di chi per ogni fatica tende a fare
un’eccezione, per ogni gesto d’amore tende a
suonare la tromba davanti a sé.
Con san Tommaso possiamo dire: «Ti adoro
devotamente, o Dio nascosto», umilissimo
nell’amore che hai riversato nei nostri cuori
con tanta sovrabbondanza ed efficacia.
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Giovanni
(6,51-58)
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».
Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me.
Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
La liturgia della Parola riprende l’ultimo
versetto del Vangelo della scorsa domenica
e nella fede accoglie l’affermazione
di Gesù: «Io sono il pane vivo, disceso dal
cielo», il pane della vita.
Queste parole conducono il racconto di
Giovanni al culmine della polemica dei giudei
contro Gesù: «Come può costui darci la
sua carne da mangiare?». Non è solo una questione
pratica: come è possibile che uno si lasci
mangiare? Sappiamo che sarà possibile attraverso
l’accettazione libera della morte di
croce, quando Gesù sarà il vero agnello sacrificato
e consumato nel banchetto pasquale.
È anche una questione altamente
simbolica perché fa riferimento alla vita
dell’uomo, alla sua carne e al suo sangue, di
cui Dio chiede conto a tutti perché di ogni vita
è il Signore.
Ma proprio qui sta il vertice della misericordia
di Dio, che in Gesù – dice san Paolo –
«ha dato se stesso per noi», «si è umiliato fino
alla morte e alla morte di croce, annientando
sé stesso, lui che era Dio». Gesù che dà la
vita non è un’immagine astratta o un modo
di dire: è vicenda talmente concreta da riguardare
la sua carne e il suo sangue, mangiabile
e bevibile (e dunque vita sua in noi)
sotto i segni del pane e del vino.
Per noi tutto questo è scontato, ma non dovrebbe
esserlo. Nell’Eucaristia è infatti riposto
il gesto più alto di ogni libertà umana e
della stessa libertà divina, perché l’autentica
libertà, giocata «nell’amore più grande», è
quella di chi «dà la vita per i propri amici».
Nella mente dei giudei, che ascoltavano Gesù,
non c’era solo un senso di ribrezzo per doversi
nutrire della sua carne: le sue parole erano
una vera e propria bestemmia, perché il sangue,
la vita dell’uomo, era marcato da una sacralità
intoccabile.
Come può essere, così come
vuol farci credere, il Figlio di Dio e, allo
stesso tempo, dire cose così orrende per la legge
di Mosè? Ma proprio perché «sangue e carne
insieme» sono vita Gesù ha scelto di darsi
a noi così: niente di meno della vita stessa
di Dio poteva liberare l’uomo dal peso della
lontananza, a motivo del peccato, dalla fonte
di ogni esistenza! Non c’era altro modo che
quello dato nell’Eucaristia per poter tornare
davvero nella casa del Padre, nel suo abbraccio
misericordioso!
Possiamo intravvedere i perché di questo
“gesto eucaristico” compiuto da Gesù. Il loro
senso è spiegato dalla croce, strumento di
morte per lui e di vita per noi; come tutto
questo avvenga resta un mistero davanti al
quale alzare le mani in segno, non tanto di
resa, ma di adorazione riconoscente: lì c’è Gesù,
così come era visibile agli apostoli, prima,
durante e dopo la sua morte e risurrezione. È
importante continuare a domandarci “come
ha fatto?”... Sì, come ha potuto darsi così, per
noi, poveri peccatori?
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Luca (1,39-56)
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
Allora Maria disse:
«L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome;
di generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre».
Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.
Celebriamo oggi la solennità di Maria Assunta
in cielo. Per Maria si è adempiuta la
profezia da lei stessa cantata: grande tra
le donne e grande per tutta l’umanità, ma soprattutto
grande allo sguardo di Dio che, per
suo tramite, attraversa i secoli della storia e li purifica
nella sconfinata sua misericordia.
Così è resa
santa la vicenda personale di ciascuno di coloro
che, come Maria, vivono sotto lo sguardo
di Dio con umiltà e coraggio, nell’obbedienza
Mi si consenta una piccola confidenza. Passando
un giorno per un paesino di montagna, accanto
a una cappellina dedicata alle anime del purgatorio,
ho letto questa frase scritta a caratteri
antichi e un poco rovinata dal tempo: «Quel che
sarete un dì, noi siamo adesso; chi dimentica
noi, dimentica sé stesso».
Mi pareva un evidente
richiamo a non dimenticarci di coloro che sono
morti, a pregare per loro e a vivere nella prospettiva
del giudizio di Dio. E così mi sono trovato a
riflettere sul destino che ci attende accanto a Gesù,
là dove Maria è già entrata in pienezza di grazia.
Pensando oggi a Maria, posso rimeditare
questa frase, non in relazione al purgatorio, ma
al nostro vero futuro secondo il grandioso disegno
del Padre: tutti siamo predestinati a questa
gioia e Maria, al di sopra di tutti coloro che ci
hanno preceduto nel cammino di fede, ci ricorda:
tale quale sono io, sarete anche voi! C’è dunque
una grande speranza nel nostro futuro che
oggi viene anticipato in questa celebrazione di
Maria, la più grande dei discepoli del Signore.
Il Vangelo d’oggi non dimentica però di soffermarsi
nel raccontare la vita di Maria nella
prospettiva di quel servizio che oggi noi stessi
siamo chiamati a vivere verso quanti hanno bisogno:
la gloria cantata nel Magnificat non è disincarnata,
in essa non si entra per fatalità,
ma per amore: in virtù dell’amore di Dio, anzitutto,
e in virtù di quegli atti di continua attenzione
che noi compiamo per vivere liberi da
ogni forma di ripiegamento egoistico su noi stessi.
Sì, Dio umilia i superbi e svuota i ricchi, ma
lui ci ricorda che, nella nostra libertà, siamo noi
gli strumenti del suo agire. Non ci è lecito trattenere
l’amore ricevuto in un guscio di egoismo,
in una vita senza prospettive di consegna di noi
stessi al bene di tutti.
È questa una via molto semplice, già percorsa
da tanti genitori e anziani che, guardandosi indietro
nel tempo, possono vedere e contemplare
le tracce del passaggio di Dio nella loro storia.
Anche attraverso di noi il Signore fa cose grandi!
Bisogna però saper vedere e assecondare i
tanti segni con cui Dio ci invita a “partire in fretta”
verso il bisogno di chi vive non troppo lontano
da noi. Per Maria si trattava di Elisabetta; noi
possiamo alzare lo sguardo per comprendere in
che direzione Dio ci sta chiamando a donarci
con delicata e gioiosa premura.
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Giovanni (6,41-51)
I Giudei si misero a
mormorare contro Gesù
perché aveva detto: «Io
sono il pane disceso dal
cielo». E dicevano: «Costui
non è forse Gesù, il figlio
di Giuseppe? Di lui non
conosciamo il padre e la
madre? Come dunque può
dire: “Sono disceso dal
cielo?”». Gesù rispose
loro: «Non mormorate tra
voi. Nessuno può venire a
me, se non lo attira il
Padre che mi ha mandato;
e io lo risusciterò
nell’ultimo giorno. Sta
scritto nei profeti: “E tutti
saranno istruiti da Dio”.
Chiunque ha ascoltato il
Padre e ha imparato da lui,
viene a me. [...] In verità,
in verità io vi dico: chi
crede ha la vita eterna. Io
sono il pane della vita. [...]
Se uno mangia di questo
pane vivrà in eterno».
Il segno della sua fedeltà
C’era qualcosa che, da parte dei Giudei,
bisognava voler vedere in piena libertà
in Gesù: la relazione con il Padre
«che lo ha mandato». E ancora: il Padre che
agisce anche in noi ci attrae verso Gesù, ci assimila
a lui, ci rende “figli nel Figlio” perché la
vita che è in Gesù, il primogenito di tutti i figli
di Dio, sia anche in ciascuno di noi! Questo è
il meraviglioso progetto da sempre pensato e
voluto da Dio, nella sua infinita sapienza e
nel suo immenso amore: per ciascuno di noi.
Essere liberi non solo di vedere ma anche
di prendere parte all’opera di Dio in Gesù. E
non è cosa da poco: esige una “iniziazione”,
un affidamento che ci consenta, nel tempo,
di scoprire che il Vangelo – questa splendida
notizia della speranza e della vita che abbiamo
in Dio nostro Padre – è “vero”. Vero
d’una verità che si fa esperienza di vita nuova.
In realtà solo vivendo il Vangelo, facendo
“ciò che lui ci dirà” (è l’esortazione che Maria
ci ha rivolto alle nozze di Cana) la salvezza sarà
non solo “annunciata”, ma “evento” concreto
che cambia la vita della persona.
Gli interlocutori di Gesù mostrano di non
possedere questa libertà: sono intrappolati
dalla loro stessa mente che, forse anche inconsapevole,
interrompe il desiderio di pienezza
di vita a fronte di un uomo che promette
“troppo” per ciò che a tutti appare: «È il figlio
di Giuseppe, il falegname»... è un pezzo
di pane, è un po’ di vino! Non è ciò che dice:
«Pane disceso dal cielo». Gesù ha pazienza: sa
che quanto sta dicendo di sé ha dell’incredibile
e, rivolgendosi anche a noi, duemila anni
dopo, ci chiede di lasciarci «istruire da
Dio», di non presumere che i nostri occhi
possano vedere tutto o che la nostra intelligenza
possa entrare nelle ragioni di Dio.
Entreremo
nei “perché” più profondi solo ascoltando,
credendo, dando fiducia alle parole efficaci
di Dio che hanno dato vita a tutto, hanno
suscitato i profeti, hanno rivestito di carne
nel grembo di Maria il Verbo d’amore pronunciato
fin dall’eternità e ora lo rivestono
di Pane, perché questo Gesù sia accolto come
forza di salvezza a tutti necessaria.
Occorre credere per «avere la vita di Dio»
in noi: credere che Dio vuole questo e lo realizza
in modi sempre nuovi e sorprendenti.
La manna era solo un segno: il pane per il
cammino di un giorno. L’Eucaristia è realtà
ancora più stupefacente: è il Dio-veramentecon-
noi, sul nostro stesso cammino, che condivide
attese gioie e speranze, che spinge in
avanti – verso la pienezza del bene – la nostra
storia quotidiana, che si fa “pane” e ci dona
l’energia di continuare il cammino verso
la prossima meta, fino alla “vita eterna”.
È veramente straordinario che il pensiero di
Gesù si sia rivolto fino a noi, alla Chiesa di oggi
e di domani: l’Eucaristia è e sarà sempre il segno
più alto della fedeltà amorosa di Dio all’uomo
e alla sua fame di salvezza e di gioia.
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Giovanni (24-35)
[La folla] salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato».
Affidare la vita a Cristo
Fissiamo la nostra attenzione sulla gente che si è messa alla ricerca di Gesù. È una ricerca che molte volte anche noi compiamo sia pure in modi diversi: preghiamo, leggiamo qualche libro, ascoltiamo qualcuno che ci parla del Signore, ripensiamo la nostra vita alla luce del Vangelo... Cerchiamo Gesù perché abbiamo un bisogno in fondo al cuore, un desiderio che non sappiamo ben esprimere, e che Gesù oggi vuole purificare.
Ci chiede infatti: «Perché mi cercate?». Per la verità questa è una domanda ricorrente nel Vangelo, ma il particolare interessante è che oggi Gesù mette a nudo le nostre intenzioni, a volte non sincere, non purificate alla luce della volontà di Dio. Gesù apre il cuore dei suoi interlocutori perché riconoscano che non hanno capito a fondo di che cosa era segno la cura che egli ha avuto per loro moltiplicando i pani: non mi cercate perché ho cura di voi, dice, ma perché volete che il gesto “magico” si ripeta; perché desiderate essere liberati dalla fatica quotidiana e volete la sazietà di chi si sente appagato da un bene che non è così grande e forte come il bene che io ho in serbo per voi.
E proprio qui inizia il discorso eucaristico in cui ci siamo introdotti domenica scorsa. Gesù afferma che si possono cercare due realtà, entrambe importanti, ma non entrambe decisive per la pienezza di vita e di senso che noi andiamo cercando: c’è una ricerca di cose che durano un giorno, che sfamano dal mezzogiorno alla sera, e c’è una ricerca di beni che inducono a guardare più in là e più in profondità dentro noi stessi, fino a scoprirvi il disegno di Dio, fino a sentire la sua voce che chiama alla vita eterna, alla partecipazione della sua stessa vita.
Gesù dice: «Io sono il Pane per questa vita», il Pane che colma questo desiderio che mai si assopisce se non nel compimento in noi di tutto quanto il Vangelo. Mi sembra che la gente abbia compreso bene cosa Gesù volesse dire. Lo intuisco dalla domanda che gli rivolge: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Sì, Gesù non vuole un ascolto passivo, ma vuole il nostro coinvolgimento nella sua obbedienza alla volontà del Padre.
Percepiamo però che questo coinvolgimento non inizia da una buona volontà umana, bensì da una grazia, da un affidamento a Colui che cambia i cuori. Proprio questo mi sembra il senso della risposta di Gesù alla domanda posta: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato ». L’opera di Dio che noi possiamo compiere sta in un solo atto, essenziale e quantomai decisivo: credere, affidarsi, dare alla nostra vita una meta alta, impegnarci per un cammino che ha le sue difficoltà e fatiche ma per il quale conosciamo il segreto e la fonte della forza che ci è indispensabile. Forse proprio per questo la folla pregò Gesù, dicendo: «Signore, dacci sempre questo pane».
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Giovanni (6,1-15)
[...] Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». [...] Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanti ne volevano.
Il Pane del cammino
Per diverse domeniche la liturgia della Chiesa ci inviterà a meditare il capitolo 6 del Vangelo di Giovanni. È il capitolo che ci fa ascoltare il lungo discorso di Gesù sull’Eucaristia: al capitolo successivo inizia il racconto delle grandi polemiche e dei grandi gesti, contrastati dagli scribi e dai farisei, che porteranno Gesù allo scontro finale e alla morte in croce. Nella narrazione di Giovanni manca il racconto dell’ultima cena, non perché l’abbia dimenticato, ma perché l’Eucaristia come tale – lo spezzare il pane nel giorno del Signore – era un fatto non solo conosciuto, ma da tempo abitualmente celebrato nelle comunità cristiane.
Così all’evangelista sembra più necessario testimoniare il significato di questa azione liturgica e la sua necessità per la vita e il cammino della Chiesa. Prima del grande discorso, però, Giovanni attira la nostra attenzione su di un miracolo di Gesù, a tutti noi ben conosciuto. C’era una grande folla che seguiva Gesù per ascoltarlo, attratta dal bene che faceva. Ma ben presto si presenta un problema non da poco: nel luogo deserto dove si trovano non c’è cibo e la gente è stanca e affamata.
I discepoli vengono incaricati di provvedere, ma non hanno risorse: cinque pani e due pesci è tutto quello che hanno racimolato e vengono portati da un ragazzo e presentati a Gesù. Guardiamo ora le mani di Gesù e ascoltiamo quanto accade: «Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti». È il versetto del brano di oggi che possiamo confrontare con i gesti di Gesù nell’ultima cena: «Prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli» (Luca 22,19).
Ecco, per noi si fa molto semplice la riflessione: in una situazione in cui il cammino ha debilitato tutti e tutti sono stanchi, Gesù compie un gesto che rinfranca. I cinque pani e i due pesci vengono moltiplicati per dar coraggio a tutti. E anche oggi è così. Nell’ultima cena, di fronte a un altro pane, Gesù offre ai suoi un cibo nuovo, moltiplicato non tanto in quantità, ma nel tempo,“ in memoria di lui”, perché non venga meno la sua presenza nel mondo, il suo conforto a tutti, in particolare a quanti per il Vangelo si spendono con gioia. «Era vicina la pasqua dei giudei», annota san Giovanni: era vicino il giorno in cui Gesù sarebbe morto in croce.
Il Vangelo di oggi ci offre un anticipo di quel “Pane del cammino” di cui anche noi nella Chiesa abbiamo bisogno per attraversare i tempi e i luoghi nei quali dare testimonianza al Signore Gesù e dichiararne la presenza viva e amante. Riceviamo questo Pane perché sia rassicurato e fermo il nostro passo, il nostro portare il Signore là dove tanti nostri fratelli lo attendono e, spesso anche in modi non consapevoli, persino nelle nostre stesse famiglie.
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Marco (6,30-34)
Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.
In disparte con Gesù
Gli apostoli sono appena tornati dalla missione. Erano stati inviati a due a due per predicare il Regno di Dio e manifestarne la straordinaria potenza nei segni che vincono il male. Sono tornati entusiasti e ansiosi di raccontare «quello che avevano fatto e insegnato ». Gesù si compiace del loro impegno, consapevole della fatica da loro incontrata e sostenuta. La missione deve aver avuto successo: c’era molta gente attorno a Gesù, tanto che «non avevano neanche il tempo di mangiare».
È di consolazione la finezza di Gesù che, ascoltato il loro entusiasmo, invita i Dodici in disparte: per riposarsi. Questo invito al riposo, «in disparte», suona come un momento dal sapore spirituale. Gesù sa che i suoi amici hanno bisogno di distensione. E lo “stare in disparte” richiama alla mente le esperienze in cui la nostra anima entra in contatto con lo Spirito di Gesù per attingervi riposo, gioia e sentimenti di gratitudine per il bene compiuto, per gli incontri avuti, per le persone accolte.
In tutti noi c’è il bisogno di entrare in confidenza con Gesù, ma non insieme a molti altri, bensì nel colloquio a tu per tu, dove i pensieri si possono distendere e dove possiamo trovare quella pace cercata nella fatica che ci consuma quotidianamente. Gesù ci segnala la necessità di far tacere l’ansia delle cose fatte o ancora da fare e di “sentire” che il disegno di Dio si compie in modo semplice, anche attraverso di noi: abbiamo fatto molto per i figli, abbiamo avuto momenti impegnativi durante la giornata lavorativa, stiamo soffrendo per qualcuno che ci è caro o per una situazione che ci disturba e ci agita...
Ma adesso lasciamo che il nostro animo si plachi e consentiamo a Gesù di mettere a tacere pensieri e preoccupazioni disorientanti: sforziamoci di percepire una Presenza che consola e ci dona coraggio. Qualche volta, testimonia il Vangelo di oggi, questo “stare in disparte” non riesce: «non abbiamo avuto tempo». In effetti capitano giornate così intense da «non avere quasi il tempo di mangiare»: la compassione per gli altri supera la premura verso noi stessi.
Ogni mamma e papà sa bene che ci sono momenti in cui siamo necessari, anche quando vorremmo essere altrove: siamo stanchi nel cuore, ma c’è un figlio adolescente disorientato con cui parlare, e non sarà facile; c’è un anziano non autosufficiente cui provvedere, e siamo già sfiniti... Ci sono momenti in cui questo “stare in disparte” con Gesù sembra una Provvidenza, una compassione rivolta a ciascuno di noi. Signore, aiutami a non farmi schiacciare dalla fatica, insegnami ad avere il tuo stesso sguardo sugli altri, sulla mia famiglia, su chi ha bisogno. Ma tu, Pastore buono, cammina sempre davanti a me, perché non mi smarrisca nell’impegno quotidiano...
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Portare la buona notizia
Marco (6,7-13)
Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.
L’insegnamento di Gesù non era come quello dei rabbi del suo tempo. Di lui si dice che aveva un modo autorevole di parlare di Dio. Non esponeva una semplice dottrina, ma testimoniava di persona il «Padre suo». Dal Padre era stato mandato perché il mondo avesse vita in abbondanza: naturale che Gesù indicasse una via superiore alla grande legge di Mosè. Dunque, non era un maestro di dottrina, ma una fonte di vita presso cui trovare l’imbocco e l’impulso di una “via” che conduce ben oltre sé stessi e supera tutti quanti i ragionamenti umani. Per questa ragione, gli apostoli vengono mandati a due a due, non ciascuno per conto proprio o per un proprio interesse; vengono mandati purificati e spogliati del superfluo, ma ripieni della Parola stessa di Gesù e del suo medesimo potere contro il male. Oggetto della predicazione degli apostoli era il fatto nuovo della presenza di Dio tra noi nella persona stessa del Maestro. Così accade anche oggi nell’opera della Chiesa che annuncia e testimonia il Regno di Dio. C’è un’immensa responsabilità depositata da Gesù nella missione dei Dodici. Essi sono portatori di una Novità che ha l’efficacia del seme quando cade sulla terra buona. È bene allora che noi, una volta di più, ci interroghiamo riguardo al nostro “ascoltare”, al suo “portare frutto” attraverso una fiducia tutta consegnata al Signore che solo converte i nostri cuori e attrae a sé le nostre esistenze. Certo, la libertà dell’uomo rimane intatta, anzi giunge a pienezza di fronte alla potenza di Dio che converte solo chi gli si affida e lo accoglie a cuore umile e spalancato. Mac’è la possibilità anche del rifiuto di ascoltare e di convertirsi. Che cosa significa il gesto che Gesù suggerisce ai Dodici di «scuotere la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro»? Significa la consapevolezza del limite che l’apostolo porta dentro di sé: lui non sa e non può costringere nessuno alla fede, non ha accesso al misterioso segreto di ogni persona, ossia alla libertà degli altri, perché è la stessa struttura della fede a esigere la decisione personale dell’interlocutore. Solo il “sì” dell’uomo può essere risposta autentica al “sì”di Dio! Spesso ci stupiamo del fatto che tanti sforzi, tante parole, persino tanto buon esempio dato, non portino i frutti che “giustamente” speravamo. Ci capita di sentirci addirittura colpevoli di questo. E ci accusiamo di non essere stati buoni genitori, buoni insegnanti, buoni catechisti, buoni preti... Ma ecco Gesù che ci viene incontro: ci dice di non attaccarci più di tanto alle nostre opere di evangelizzazione, soprattutto di non credere che la libertà degli altri ci appartenga. No! Neppure Dio si arroga una simile pretesa. Gesù ci esorta a non giudicare e a non disperare; ci invita a lasciare che sia lui a portare il peso dell’indifferenza o dell’incredulità di molti. A noi lascia solo di rispondere a questa formidabile domanda: se veramente sai di essere un “servo inutile” cui non appartiene il frutto dell’annuncio, perché ti lamenti? Non dovresti lasciare tutto nelle mani del Padre, quando hai fatto ciò che dovevi?
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Gesù e le nostre pretese
Marco (6,1-6)
In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua».
Al Vangelo della scorsa domenica, in cui Gesù chiedeva e otteneva la fede, sembra fare da contrappunto il brano di oggi in cui è protagonista l’incredulità stupita della gente di Nazaret. Gesù, nella sinagoga, trova gente che lo ascolta con un pregiudizio invincibile: qui da noi parla e altrove ha compiuto miracoli; qui fa il sapiente e da altre parti agisce; qui dice di essere il Figlio di Dio e là ha agito nel nome di Dio. Anche noi vorremmo avere sempre il privilegio del miracolo, ma ci disturba l’autorevolezza con cui il Signore ci chiede la conversione. Presumiamo di sapere molto – o persino tutto – sul suo conto: sappiamo che è il Figlio di Dio (mi faccia scendere ora da questa croce e crederò in lui!), ma se non ci ascolta gli imputiamo una incomprensibile lontananza dai nostri guai quotidiani; sappiamo che è risorto e vivo (a volte proviamo momenti di singolare intimità affettuosa con lui nella preghiera!), ma spesso dobbiamo cercare il “Dio che si nasconde”, che ci chiede il prezzo della purificazione del cuore, e ci scandalizziamo; ammiriamo la forza con cui ha compiuto la volontà del Padre (la sua croce ha salvato il mondo!), ma quando avvertiamo che, in certe situazioni, la volontà di Dio può avere aspetti ripugnanti, ci ribelliamo... Proviamo dunque l’identico stupore della gente di Nazaret: se Gesù è ciò che dice, dov’è il suo potere, il suo regno, la sua gloria? Come mai le nostre giornate sono sempre faticose e uguali? Ma da che parte sta, se non dalla mia? Io gli crederei anche, ma quanto al consegnargli tutto di me...? Andiamo sì contro la gente di Nazaret, ma con tanta cautela. Ricordiamoci piuttosto che, da quando si è fatto uomo e «ha posto la sua tenda tra noi», siamo noi la “terra” su cui cade il seme buono della sua parola. Questa sua “patria” siamo noi, nell’intimità delle nostre coscienze. Rischiamo però di essere sterili e improduttivi perché di lui riteniamo di sapere già tutto, abbiamo l’idea che lui sia il potente che sta “dalla nostra parte”. Ma in questo modo Gesù è sconfitto dalle nostre “pretese”: quelle che vogliono che sia lui a seguire noi e non viceversa. E in questa situazione Gesù miracoli non ne fa. Nel Vangelo i miracoli a volte presuppongono la fede dei momenti di prova: la morte incombente o una malattia ostinata, come nel Vangelo di settimana scorsa. Per noi vale la stessa regola: sappiamo che aver fede significa consegnarsi interamente alla volontà buona del Padre. Non è solo attesa fiduciosa del miracolo. Altre volte invece, nel Vangelo, il miracolo suscita la fede. Qui però dobbiamo fermarci e chiederci quanti miracoli ci vogliono ancora per convincerci a credere. E quanta “passione” deve ancora dimostrare Dio nei nostri confronti perché ci decidiamo ad amarlo con tutte le nostre forze, perché ci rendiamo disponibili nel suo Spirito a compiere quanto ancora manca al bene del mondo?
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Marco (5,21-43)
Venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come vide [Gesù], gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, [...] venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male [...].
Un Dio che risana e vince
Il racconto si sviluppa attorno a Gesù, circondato da molta folla. La gente sembra interessata a ciò che dice e fa. Ci sorprende e ci incoraggia l’atteggiamento di Gesù che, in questa situazione, sa rapportarsi con due sole persone che hanno il cuore ferito e angosciato: il capo della sinagoga e una donna qualsiasi, malata da molto tempo. I due emergono dall’anonimato con le loro sofferenze: la morte incombente di una bambina e lo scoraggiamento nella malattia.
Gesù ascolta e agisce: «Andò con lui», con il capo della sinagoga. È un tragitto (in)contro alla morte di una bambina; ma la preghiera sembra non essere stata tempestiva: «Ormai» è bene lasciare Dio in pace, perché la morte è arrivata per prima. Gesù si esprime con due imperativi che diventano veramente sensati solo dopo essere stati accreditati dai fatti: «Non temere, abbi fede... La bambina dorme ».
Gesù vede la realtà in modo diverso dai presenti e da ciascuno di noi: ci invita a non avere paura di ciò che da sempre ci spaventa e legge l’oggetto della nostra paura non come il definitivo ormai accaduto, ma come qualcosa che può ancora essere sconfitto. Sì, sconfitto: però soltanto da lui. Quell’«Io ti dico» rivolto alla bambina sospende lo scetticismo dei presenti, fa loro trattenere il fiato nell’attesa che alla parola faccia seguito il fatto.
Nessuno degli ascoltatori ha il tempo di ragionare, di dubitare, di protestare per le parole “esagerate” che invocano la potenza di Dio contro la morte: infatti «subito la bambina si alzò e camminava». Noi crediamo che Dio vince la “grande” morte nella Pasqua del Figlio suo Gesù. Egli, vivo, intercede anche oggi per la vita del mondo, presso il Padre; ma Gesù vince anche quella morte “provvisoria” non ancora del tutto sconfitta in ciascuno di noi e frequentemente messa a confronto con Gesù stesso in diversi episodi evangelici: Lazzaro, il figlio della vedova di Nain, il servo del centurione...
E c’è un altro miracolo contro lo stesso nemico, il male, che si manifesta in forme meno definitive ma non meno aggressive contro di noi. Questo nemico toglie la vita a poco a poco, così come a poco a poco induce allo scoraggiamento: è la malattia. Una donna che forse non vuole disturbare il Maestro già in cammino per un’altra urgente richiesta di salvezza, ha una fede grande e dalla sua stessa fede viene salvata: di nuovo, salvata “subito”.
La sua vicenda ci ricorda il desiderio di Dio che il suo progetto di vita entri definitivamente nella nostra storia: sono davvero luminosi quei racconti nei quali di fronte al male insistente c’è il “subito” di Dio che risana e vince: aprendo alla speranza certa e consegnando alla gioia profonda. Mi viene in mente una domanda di Gesù: Dio, che è Padre buono, ci «farà forse aspettare a lungo?». E poi quest’altra domanda, che ci induce a pensare con estrema serietà alle nostre scelte di vita: «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
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Natività di san Giovanni Battista
Luca (1,57-66.80)
Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei. Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». [...] Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio.
L’alba della salvezza
Dal popolo di Israele viene Giovanni il Battista. Suo compito è di annunciare, con la predicazione e con la testimonianza di una vita culminata nel martirio, l’atto supremo e definitivo della misericordia di Dio che si compie nel Figlio Gesù, unico e necessario salvatore di tutti. La novità del Regno di Dio che, sorto da Israele, raggiunge il mondo intero, ha nella nascita di Giovanni la sua alba luminosa.
Esso è dono gratuito che irrompe nel mondo nonostante l’incredulità che sempre tenta l’uomo: da una parte c’è Zaccaria che, all’annuncio della nascita di Giovanni, non crede alla profezia dell’angelo e, dall’altra, c’è Elisabetta che, sterile e avanti negli anni, si trova commossa davanti al dono di un figlio insperato, il cui concepimento era da tutti ritenuto umanamente impossibile.
Ma «nulla è impossibile a Dio», come dice l’angelo a Maria. Del resto, Giovanni porta un nome che significa “forza di Dio”, la forza che porta il mondo intero sotto la croce di Gesù, nostra salvezza. Giovanni nasce, vive, muore “precorrendo” questa grazia: viene al mondo per esserne testimone attraverso il martirio. Anche ciascuno di noi è chiamato a rallegrarsi e a lasciarsi afferrare dallo stupore, insieme ai parenti e agli amici di Elisabetta, per tutti i segni di salvezza che Dio opera.
Di più: tutti noi veniamo avvolti e penetrati dalla stessa forza che Dio ha dato a Giovanni perché il mondo venga avvertito che non c’è speranza per l’uomo se non nella volontà misericordiosa del Padre che «tanto ha amato il mondo da dare il Figlio unigenito». La Chiesa precorre ancora, come Giovanni, l’annuncio del Vangelo: sa di anticipare con le sue parole e i suoi gesti l’azione divina che solleva l’umanità dal proprio limite assoluto, il peccato. Esso è opera del nemico del Regno, il diavolo, che da sempre tenta di strappare a Dio l’uomo e colpirlo nella sua dignità di creatura e di figlio.
La Chiesa sa di essere investita di questa formidabile responsabilità; sa che l’opera di Giovanni è narrata dai Vangeli come esempio e appello per lei. Invochiamo allora il Signore perché ci sentiamo investiti dalla “forza di Dio” in vista della più sconvolgente delle notizie che l’umanità abbia mai ascoltato: «Preparate la via del Signore», di colui che, comeè venuto in Gesù di Nazaret, così ancora oggi viene, e sempre verrà nei tempi futuri a offrire misericordia e speranza.
Anche oggi noi guardiamo al Vangelo e diciamo la nostra gratitudine perché tutto ci smuove ad annunciare che Dio è Padre buono, che nessuno è solo al mondo, che ognuno ha nello sguardo alla croce la ragione più forte per lasciarsi coinvolgere nell’opera di Dio, che ha senso venire al mondo e spendersi, come Giovanni, per un bene così grande: siamo tutti chiamati a essere espressione della forza d’amore con cui Dio continua ad attrarre a sé il mondo.
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Marco (4,26-34)
Gesù diceva (alla folla): «Così è il Regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa [...]». Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il Regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
"Terra buona" per Dio
Ci sono molti studi che possono aiutarci a capire che cosa è il Regno di Dio, di cui Gesù tanto spesso parla nelle sue parabole. È una realtà così centrale e decisiva da essere l’oggetto di una domanda fondamentale nella preghiera del Padre nostro: «Venga il tuo Regno». Possiamo definirlo semplicemente così: è la presenza di Dio tra gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo. Gesù dice che esso è una realtà piccola piccola, come un seme nascosto sotto terra; ha però una straordinaria forza esplosiva quando viene deposto nella vita di chi è disponibile e ha buona volontà riguardo al Vangelo!
Possiamo anche non esserne pienamente consapevoli (come il contadino che ha seminato il suo campo), ma quando accogliamo questa presenza di Dio, la vita si trasforma radicalmente e cresce nel vero e nel bene, senza che ci sia dato di sapere grazie a che cosa tutto questo avviene: possiamo dire, ascoltando l’insieme del messaggio di Gesù, che l’esclusiva bontà di Dio fa il primo passo e ci viene incontro, mentre lo sforzo umano può corrispondere a questa bontà e permettergli di dare i suoi frutti.
La forma più gratuita e singolare della presenza di Dio la possiamo contemplare nell’Eucaristia. Essa ha tutte le caratteristiche tipiche di questo Regno: non è nelle nostre capacità rendere presente Gesù, è pura grazia, è dono assoluto. Non nasce dal nostro desiderio di Dio, dalla nostra volontà di trattenere il Signore dentro il pane e il vino. Ma Dio conosce in profondità e in pienezza l’intimo del cuore di ogni uomo e sa che tutti – nessuno escluso – aspiriamo a incontrarlo e ad amarlo: sì, desideriamo lui, ma lui è già qui, per noi, per ciascuno di noi. E c’è di più.
Noi desideriamo il Regno di Dio come principio di comunione e di fraternità: ecco allora l’Eucaristia che suscita la Chiesa riunita attorno a Gesù. Questo Regno non coincide con la Chiesa, ma di questa Chiesa Dio si serve, per questo la raduna: essa è via e strumento per incontrare ogni uomo. Sì, è composta di uomini fragili. Il Signore però si è messo nelle loro mani: nelle nostre mani! Dobbiamo allora averne cura, perché questa forza che la Chiesa porta in sé sta tutta nell’amore di Dio.
Ed è proprio questo amore a impegnare quotidianamente la Chiesa: in essa il Regno ogni giorno cresce, si manifesta e viene testimoniato. Dunque il Regno di Dio, che non dipende da noi nel suo inizio, ci chiede di essere la “terra buona” dove esso può dare frutti di salvezza, radunandoci nell’unico amore che redime da ogni male e che unisce l’umanità intera chiedendo a noi una disponibilità semplice, umile e gioiosa: Dio ha la sua forza ed è già – senza nessuna sosta – all’opera nel mondo, che da lui è amato e condotto a salvezza.
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Santissimo corpo e sangue di Cristo
Marco (14,12-16.22-26)
[...] I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
La vittoria dell’amore
Quando si immolava la Pasqua, cioè mentre veniva ucciso l’agnello offerto al tempio per il perdono dei peccati di tutto il popolo, segno della liberazione da una schiavitù antica, quella dell’Egitto, ma mai dimenticata: sia perché durata quattrocento anni, e sia perché – nella forma di una disobbedienza quotidiana alla legge del Signore – era una schiavitù tuttora in atto. Proprio in questo momento, secondo l’evangelista Marco, Gesù anticipa la propria morte. Lo fa con un gesto assai semplice, ma capace di farci cogliere diversi contenuti della nostra fede pasquale: Gesù si dà in un pane spezzato, di cui dice «è il mio corpo», e in un calice di vino, di cui dice «è il mio sangue».
Corpo spezzato e sangue versato: non poteva esserci allusione più chiara alla propria morte, ormai così vicina. Il suo è un gesto di suprema libertà e di totale confidenza. Gesù dice infatti ai suoi amici: «Nessuno mi toglie la vita, ma io stesso la offro per voi»; anzi, mi sostituisco all’agnello ucciso oggi nel tempio perché sappiate che sono io – il Battista non lo aveva anticipato con grande chiarezza? – il vero agnello sacrificale, che prende su di sé il peccato del mondo.
Celebriamo, come è tradizione, la festa del Corpus Domini a ridosso della grande solennità della Pasqua. Una scelta, questa, che ci richiama alla memoria l’immagine dell’Apocalisse che descrive l’agnello come sgozzato, ma vivo e ritto sul trono. È dunque pienamente vittorioso nell’amore sconfinato di Dio, perché se è vero che l’amore vince su tutto, anche sul male, Gesù ha offerto a noi, nel suo corpo crocifisso, «l’amore più grande che dà la vita per i suoi amici».
Ecco, dunque, che cosa celebriamo in questa festa: certamente la reale presenza di Gesù nell’Eucaristia e insieme la necessità da parte nostra di essere presenti davanti a questo inimmaginabile dono d’amore in un atteggiamento di preghiera, di adorazione, di riconoscimento grato e gioioso del dono che ci è stato dato. È necessario però non dimenticare che lo stesso dono noi lo riceviamo tuttora, proprio come quella sera in cui Gesù a tavola ci offrì il “segno” più chiaro del suo amore: anche oggi egli dice: «Sono qui per te, sono qui con te, con te e con tutti i tuoi fratelli; ti faccio dono della Chiesa».
Mistero questo ancora più straordinario perché chiude il cerchio dell’offerta di sé, da parte di Gesù, nel pane e nel vino che ogni domenica anche noi portiamo all’altare: lì egli si offre ancora, facendoci ripetere le sue parole che contengono l’esortazione a «fare in memoria di lui» con il gesto dello spezzare il pane e del versare il vino. Esattamente in questi gesti i primi discepoli riconoscevano il Risorto che li rimandava da Emmaus, tappa della loro fuga da Gerusalemme, alla comunità là rimasta, indecisa e impaurita. In questi stessi gesti Gesù ancora ci riunisce e ci manda in missione, con il cuore in pace, con il Vangelo sulle labbra e nei gesti concreti della vita d’ogni giorno.
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Matteo
(28,16-20)
In quel tempo, gli undici
discepoli andarono
in Galilea, sul monte che
Gesù aveva loro indicato.
Quando lo videro,
si prostrarono. Essi però
dubitarono. Gesù
si avvicinò e disse loro:
«A me è stato dato ogni
potere in cielo e sulla
terra. Andate dunque
e fate discepoli tutti
i popoli, battezzandoli
nel nome del Padre e del
Figlio e dello Spirito
Santo, insegnando loro
a osservare tutto ciò che
vi ho comandato.
Ed ecco, io sono con
voi tutti i giorni, fino
alla fine del mondo».
La storia di Dio con l’uomo
Gli undici, obbedendo alla richiesta di
Gesù di incontrarsi in Galilea, vedono
il Signore e si prostrano davanti a lui.
Il loro è un gesto di adorazione, ma l’evangelista
Matteo si premura di dirci che erano tutti
piuttosto insicuri dell’esperienza che stavano
vivendo. Quasi a dire che qui c’è una Chiesa
che fa fatica ad affidarsi alle parole e ai gesti
di Gesù. Ma è proprio a questa Chiesa che
Gesù si fa vicino.
È bene porre il nostro sguardo
nello spazio “vuoto” che si situa tra l’obbedienza
al comando del Signore e l’incontro
con lui. Intuiamo che il Signore Risorto ha a
che fare con un mistero al quale ci è dato di
accedere solo per grazia, e dunque nel segno
di un immenso rispetto.
Ma ecco che uno spiraglio di affetto ci aiuta
a superare il dubbio. Gli undici non sanno
tutto, ma vedono proprio di fronte a sé stessi
quel Gesù cui hanno voluto bene: il resto è al
di là della loro comprensione.
C’è però un dato
insuperabile: dopo la sua morte, Gesù parla
ancora una volta con loro.
Invitati ad andare in Galilea, essi hanno
obbedito. E ora Gesù domanda loro altre due
cose: percorrere il mondo e fare discepoli gli
uomini attraverso il battesimo. È un compito
formidabile: andare lontano richiede già un
coraggio grande, perché esige di lasciare
tutto a causa del Vangelo; inoltre, a questo
coraggio si aggiunge la necessità di aver fiducia
che il cuore dell’uomo è predisposto ad
ascoltare Gesù.
E si va non nel proprio nome,
ma nel nome di Dio Padre, Figlio e Spirito
Santo, nel nome di chi si è rivelato nelle sacre
Scritture come l’autore dell’intera Storia
della salvezza e che ora, in Gesù, si fa nostro
interlocutore per assegnarci un compito alto
e necessario all’uomo di ogni tempo.
Oggi siamo chiamati a fermarci su di una parola
che aiuta a capire con quale atteggiamento
gli undici e la Chiesa obbediscono da sempre alla
missione ricevuta. È l’atteggiamento del “timore
di Dio”: esso sorge in noi quando ci rendiamo
conto di trovarci davanti al Signore.
Dio
è nelle parole che ascoltiamo e che non possiamo
lasciar cadere nel nulla: e in quelle parole
c’è un progetto talmente grandioso e bello
per ciascun uomo da far sbocciare in noi un
senso di singolare rispetto e insieme la paura
di poter in qualche modo rovinare l’opera di
cui diventiamo annunciatori.
Di fronte a Dio-Trinità ci tremano i polsi
non per la paura, ma per il senso della grandezza
del dono che la storia umana racchiude
da quando il Signore ha dato la vita ed è risorto
perché a questa vita tutti potessero attingere
salvezza e pace, senso e coraggio quotidiano
nel bene.
Il Risorto ha introdotto la
Chiesa nella propria missione che, se da
un lato è dono (misericordia sulle nostre
fragilità), dall’altro è compito
(annuncio che questa misericordia
è per tutti, nessuno escluso). Questa
è stata e continua a essere la
storia di Dio con l’uomo.
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