Il tema del “lavoro femminile” è un tema relativamente recente, al quale Giovanni Paolo II ha dedicato attenzione specifica sia nella Familiaris Consortio sia nella Mulieris Dignitatem.
«… Non si
può non osservare come nel campo più specificamente familiare un'ampia e
diffusa tradizione sociale e culturale abbia voluto riservare alla donna solo
il compito di sposa e madre, senza aprirla adeguatamente ai compiti pubblici,
in genere riservati all'uomo.
Non c'è
dubbio che l'uguale dignità e responsabilità dell'uomo e della donna
giustifichino pienamente l'accesso della donna ai compiti pubblici. D'altra
parte la vera promozione della donna esige pure che sia chiaramente
riconosciuto il valore del suo compito materno e familiare nei confronti di
tutti gli altri compiti pubblici e di tutte le altre professioni. Del resto,
tali compiti e professioni devono tra loro integrarsi se si vuole che l'evoluzione
sociale e culturale sia veramente e pienamente umana. » (FC, n. 23)
Riconoscendo il fondamentale apporto del “genio
femminile” alla vita economica e sociale, Giovanni Paolo II solleva tuttavia la
questione della cura intesa nella sua accezione più ampia, comprendente sia il
lavoro di cura familiare sia la cura delle relazioni familiari. Un nodo
inscindibile, che ancora oggi appare problematico ma che è necessario
considerare sotto i molteplici aspetti che lo caratterizzano
La questione del lavoro femminile emerge come
significativa, nel dibattito pubblico, a partire dagli anni Cinquanta/Settanta
(a seconda dei Paesi ai quali facciamo riferimento: emerge prima nei Paesi a
economia più avanzata, come Stati Uniti e Paesi Nordici, e solo dopo il boom
economico degli Anni ’60 in Paesi quali l’Italia, la Spagna, la Francia). Sono
gli anni nei quali la partecipazione delle donne al mercato del lavoro si fa
via via sempre più diffusa; sono anche gli anni nei quali, in numero sempre più
crescente, le donne accedono ai gradi di istruzione superiore, e sono, infine,
gli anni del femminismo, con le molteplici accezioni e le derive che tale
corrente di pensiero assume. In particolare sottolineiamo come la cultura del
genere e della sostanziale in-differenza rispetto al maschile e al femminile,
considerati come “costruzioni sociali” e quindi come “stereotipi” da abbattere,
sia diventata pressoché mainstreaming. A questo si oppone la visione
antropologica cristiana:
«… La donna
rappresenta un valore particolare come persona umanae, nello
stesso tempo, come quella persona concreta,per
il fatto della sua femminilità.Questo
riguarda tutte le donne e ciascuna di esse, indipendentemente dal contesto
culturale in cui ciascuna si trova e dalle sue caratteristiche spirituali, psichiche
e corporali, come, ad esempio, l'età, l'istruzione, la salute, il lavoro,
l'essere sposata o nubile.» (Mulieris
Dignitatem, n. 29)
Gli ultimi decenni del Novecento vedono la
definitiva consacrazione della parità (formale) tra uomini e donne sul luogo di
lavoro, e l’accesso delle prime donne a livelli di alta dirigenza; in molti
Paesi tra i quali l’Italia, tuttavia, una grande maggioranza di donne, con il
passaggio alla maternità, sceglie di ritirarsi dal lavoro per svolgere il
proprio compito di cura familiare, soprattutto le donne con più alti livelli di
istruzione appartenenti alle classi più agiate. L’ascesa del protagonismo
femminile nel mercato del lavoro è segnato anche da profondi cambiamenti
nell’ambito della famiglia, e da un’equazione sostanziale tra presenza della
donna nel mercato del lavoro e bassi tassi di fertilità.
A partire dalla metà degli anni Novanta, tuttavia,
il quadro muta radicalmente in alcuni aspetti specifici. Nel campo
dell’istruzione, le donne giungono al culmine della parabola ascendente: si
laureano prima e con voti migliori dei colleghi maschi, un dato che è rimasto
costante in questi ultimi vent’anni. La partecipazione femminile al mercato del
lavoro diventa quindi un dato realmente importante: sono le donne con livelli
di istruzione più alti quelle che, avendo presumibilmente stipendi migliori e maggiori
possibilità di carriera, rimangono al lavoro. La massiccia presenza numerica di
donne nel mondo del lavoro non porta tuttavia con sé un’altrettanto rapida e
conseguente presenza delle donne ai livelli decisionali: in tutti i Paesi (e in
alcuni più di altri) le donne che rimangono nel mercato del lavoro sperimentano
l’esistenza di quel “soffitto di cristallo” che preclude loro di arrivare ai
livelli alti: un soffitto che non si vede, ma c’è, perché la parità uomo-donna
è formalmente dichiarata, ma sostanzialmente disattesa.
A partire dalla fine degli anni Novanta, il mercato
del lavoro inizia a mutare secondo quei trend che sono diventati oggi evidenti
a tutti: maggiore precarizzazione dei posti di lavoro, e perdita del potere di
acquisto dei salari. Questi due aspetti congiunti fanno sì che, nel budget
familiare, il lavoro femminile venga considerato sempre meno come un elemento
accessorio, e sempre più come reale necessità per “arrivare a fine mese”. Al
contempo, emerge come evidente un altro dato statistico: sono le donne che
lavorano quelle che decidono di avere figli, mentre i Paesi e i territori nei
quali maggiore è il livello di disoccupazione/inoccupazione femminile, minori
sono i tassi di fertilità (accade in Italia rispetto all’Europa, al Sud Italia
rispetto al Nord Italia).
La doppia presenza sul mercato del lavoro e come caregiver di riferimento all’interno
della famiglia, ruolo che le donne hanno mantenuto, ha posto il contesto
familiare di fronte a nuove sfide, sia all’interno (definizione dei ruoli,
gestione della cura) sia all’esterno (a chi e come affidare i compiti di
cura?). Molteplici le soluzioni adottate nei vari Paesi, che non sono riusciti
finora a trovare la “ricetta magica”, in un difficile bilanciamento tra
politiche di pari opportunità e matrifocali centrate sull’affidamento della
cura ai servizi e politiche di supporto alla cura familiare.
In particolare, all’interno del dibattito sul lavoro
femminile e sulla cura, appare necessario:
- riconoscere la necessità di politiche di conciliazione famiglia-lavoro come politiche familiari, e non solo come politiche di pari opportunità. Se le politiche di pari opportunità appaiono necessarie nel nostro Paese, è altresì necessario riconoscere che le responsabilità genitoriali stanno in capo a entrambi i genitori, e non solo alle madri. Tale riconoscimento darebbe luogo alla formulazione di politiche che siano realmente di armonizzazione tra la vita lavorativa (di entrambi i genitori) e la vita familiare.
- riconoscere a livello sociale e fiscale
l’insostituibile ricchezza prodotta dal lavoro di cura familiare; tale lavoro
di cura è equiparabile oggi, secondo recenti studi, a oltre il 30% del PIL
europeo. Eppure, la scelta di molte donne di dedicarsi alla famiglia è oggi fortemente
penalizzata non solo a livello sociale, ma anche a livello fiscale e
contributivo.
- riconoscere che la dimensione della cura non
consiste solo nel lavoro di cura familiare e nell’accudimento dei bambini
piccoli o degli anziani fragili, secondo quell’accezione restrittiva e
strumentale adottata dalle maggiori agenzie internazionali. La cura è una
dimensione complessa che comprende la relazionalità, l’espressività, la
dedizione, la piacevolezza, il reciproco riconoscimento e deve essere
considerata fine a se stessa.
- permettere
alle famiglie una reale libertà di scelta tra molteplici opzioni: lavoro fuori
casa, lavoro di cura familiare, un mix tra i due; libertà di scelta tra
differenti tipologie di servizi, baby-sitter, o un mix tra servizi e cura
privata; libertà di scelta riguardo alla quantità di tempo da dedicare al
lavoro remunerato e al lavoro di cura familiare.
Abstract dell'intervento tenuto a Bareggio, 11.05.2012.
Pubblicato il 22 maggio 2012 - Commenti (0)