08
mar
Come ogni 8 marzo che si rispetti, di donne si parla. Quest'anno, soprattutto sui Media, si parla molto anche di conciliazione famiglia-lavoro, un po' perché il tema lavoro è di strettissima attualità, un po' perché il Ministro Fornero non ha mai fatto mistero di voler implementare politiche di conciliazione davvero efficaci (sono molto curiosa di vedere quali!).
Un approccio che ormai sta diventando mainstreaming, noto, è lo sforzo comune di togliere il tema della conciliazione dalle pari opportunità e di considerarlo piuttosto come un tema "di famiglia", un tema cioè che interessa in modo trasversale padri e madri.
A questo proposito, voglio parlarvi oggi della proposta lanciata pochi giorni fa dal
Forum delle Associazioni Familiari sul tema della conciliazione famiglia-lavoro: il
Fondo Paritetico per la Conciliazione.
Tale proposta parte da una riflessione sul diritto alla conciliazione, che non è sancito in alcun modo nella legislazione italiana. L’esempio più evidente di questa impostazione appare essere l’impostazione stessa dell’art. 9 della L. 53/00, Misure per conciliare tempi di vita e tempi di lavoro, che permette lo stanziamento di fondi per il finanziamento di progetti di conciliazione famiglia-lavoro, ma non arriva a considerare la
conciliazione come un diritto universalmente riconosciuto (come accade invece
per i congedi parentali regolamentati nell’ambito della stessa legge). La conciliazione è dunque sostanzialmente una buona prassi, un’azione
virtuosa all’interno di un sistema virtuoso.
Il Forum, attraverso una proposta pensata come innovazione sociale, vorrebbe invece arrivare all'affermazione di tale diritto (uno dei nuovi diritti in ambito lavorativo? mi sono chiesta io).
La proposta prevede la creazione di un Fondo Paritetico per la Conciliazione che permetta, secondo modelli collaudati in altri paesi europei, tra cui il “Levensloopregeling” olandese, prestazioni di sostegno al reddito nel caso di:
(i) richiesta di periodi aspettative/congedi per ragioni familiari ULTERIORI rispetto a quelli stabiliti già dalla legge e dal contratto collettivo;
(ii) ricorso al lavoro part time in alcune fasi della vita professionale.
Tale Fondo potrebbe essere strutturato su base volontaria, nell'ambito della contrattazione collettiva nazionale, e agganciato ai fondi pensione già esistenti; il lavoratore potrebbe usufruirne, previo accordo con il datore di lavoro, in alcuni momenti della propria vita professionale o negli ultimi anni di lavoro; lo Stato dovrebbe garantire un contributo a favore del datore di lavoro che assume un'altra persona, durante i periodi di utilizzo di tale Fondo.
Questa la proposta, a grandi linee.
In allegato trovate il documento completo.
Pubblicato il
08 marzo 2012 - Commenti
(0)
12
gen
Ieri ho fatto un'intervista-lampo con un giornalista de La Discussione.
Che ne dite? C'è un errore e un refuso (nella prossima vita farò la correttrice di bozze) ma spero di essere stata chiara nel sottolineare che la conciliazione è una dimensione che investe il benessere famigliare nel suo complesso, e non solo una questione di donne.
Chissà se c'è qualcuno in ascolto...
Pubblicato il
12 gennaio 2012 - Commenti
(0)
29
dic
Foto: Flickr
Escono i dati Istat sulla conciliazione famiglia-lavoro nel 2010, con un primo dato significativo sulla cura nel nostro Paese: sono oltre 15 milioni gli italiani che si prendono cura di un bambino, di un disabile o di un anziano, nel nostro Paese. Un esercito silenzioso che probabilmente, in termini di PIL, vale molto di più del 38% (è stato stimato infatti che il lavoro di cura non retribuito vale suppergiù il 38% del PIL europeo).
E tuttavia, l'Istituto di Ricerca focalizza la propria attenzione su quante energie il lavoro di cura (materno per definizione, nel nostro Paese) draga dalla partecipazione al mercato del lavoro, e possibilmente da un mercato del lavoro che consista in un impiego full-time. L'enfasi in particolare sulla mancanza di servizi per la cura e le conseguenze che tale mancanza ha sull'occupabilità delle donne è certamente significativa, in un'ottica lavoristica ben sponsorizzata anche dall'ultimo articolo di fondo di Alesina e Ichino sul
Corriere della Sera del 24 dicembre. Risulta abbastanza oscuro, almeno a una prima veloce lettura, il significato del dato sull'interruzione dell'attività lavorativa per almeno un mese dopo la nascita del figlio (si tratta di licenziamento o di congedo parentale?): e comunque, 1 donna su 4 interrompe la propria attività lavorativa.
Tantissimi e molto interessanti, tuttavia, i dati riportati sulle preferenze espresse dagli intervistati sul bilanciamento famiglia-lavoro (oltre il 30% del campione intervistato, uomini e donne, dichiara che vorrebbe poter dedicare meno tempo al lavoro e più tempo alla famiglia), i dati sul part-time, sulla flessibilità oraria e sull'utilizzo dei congedi parentali. Rimangono stabili i dati sull'utilizzo del congedo parentale da parte dei padri, con un'interessante affondo sulle motivazioni che frenano i padri dal prendere il congedo parentale: pochissimi coloro che hanno indicato la motivazione economica, mentre prevalgono ragioni di carattere personalistico (non ne ha avuto bisogno perché qualcun altro si prende cura del figlio 26,5%, perché ne usufruisce il partner 12,9%, preferisce lavorare per scelta personale 12,9% e non ne ha diritto 19,9%)
Colpisce in particolare che il 26,8% delle intervistate dichiari di non aver usufruito del congedo parentale poiché non ne ha diritto: un dato che dovrebbe interrogare seriamente, al di là delle politiche sui servizi, chi fa politiche di tutela del diritto alla maternità o, meglio ancora, alla genitorialità. Il dato, peraltro, non è disaggregato per area geografica o per titolo di studio, quindi risulta difficile comprendere il profilo di queste donne "senza diritto", e tuttavia sarebbe estremamente interessante.
Il testo integrale con tutte le tabelle è disponibile sul sito dell'Istat, e precisamente
qui.
Pubblicato il
29 dicembre 2011 - Commenti
(0)
14
set
Premessa numero 1: quando parliamo di flessibilità non intendiamo mai la precarietà, un fenomeno tutto italiano che tutti quanti ci auguriamo finisca presto.
Premessa numero 2: quando ho letto questo articolo ho pensato che, anche in Italia, a volte succede la stessa cosa.
Il titolo dell'articolo di cui sto per parlarvi è molto interessante: "
Chi vuole la flessibilità? Gli uomini". In questo articolo la columnist di
BNet afferma che alla domanda: "Sareste disposti a decurtare di un 10% il vostro stipendio in cambio di flessibilità oraria sul posto di lavoro?", a rispondere affermativamente sono stati più gli uomini delle donne. Il 12% degli uomini ha risposto affermativamente, contro il 6% delle donne.
Certo, non sono grandi numeri. Ma la proporzione tra uomini e donne è abbastanza sorprendente, anche se consideriamo il fatto che gli uomini guadagnano mediamente più delle donne. L'editorialista di BNet si pone però una domanda ancora più radicale: perché pensare la flessibilità solo in termini di meno presenza in ufficio, e quindi stipendio minore, e non pensare la flessibilità come opportunità di lavorare anche da casa o secondo orari non standard, dove possibile? E questa è un'opportunità per tutti, uomini o donne.
Pubblicato il
14 settembre 2011 - Commenti
(0)