Mi sono capitati tra le mani due articoli interessanti e speculari sul lavoro, che riprendono alcuni temi che ho affrontato ultimamente riguardo il senso del lavoro e il piacere intrinseco che si prova (o, meglio, si dovrebbe provare) lavorando.
Il primo è il commento di Gramellini (
La Stampa di oggi) sui 900 dipendenti Alitalia che vorrebbero "felicemente" scivolare in un lungo in pre-pensionamento. Cito la chiusa del commento, che mi sembra efficace:
Io so che quelli della generazione di mio padre cominciavano a morire il giorno in cui andavano in pensione. Forse esageravano nel mettere il lavoro al centro della loro vita. Ma trovo più triste che oggi lo si consideri solo una fonte (sempre più magra) di sostentamento. Una trappola da cui scappare al più presto, con il sottile egoismo di chi utilizza privilegi che saranno negati a quelli che verranno dopo di lui.
Il secondo, di segno diamentralmente opposto, riguarda invece il rapporto tra felicità e lavoro. Si tratta di un articolo pubblicato online su
topemployers, in inglese - particolarmente interessante perché mette in relazione felicità, profitto e politiche di conciliazione famiglia lavoro (che per la verià vengono indicate come politiche di
work-life balance, ma accontentiamoci :).
Nella prima parte di questo articolo, Creating a Happy Workforce (che in italiano, letteralmente, sarebbe Avere dei dipendenti felici), l'Autore si sofferma in particolar modo sul legame tra felicità e lavoro, partendo dalla constatazione che "avere un lavoro nel quale è possibile crescere professionalmente, nel quale si è apprezzati e nel quale è possibile realizzare obiettivi significativi è giudicato tanto importante quanto avere una buona vita sessuale, una famiglia stabile e buoni amici". Come dire, dunque, che l'investimento di significato in ambito lavorativo è una dimensione fondamentale del lavoratore.
Rifacendosi alle più recenti critiche ai sistemi di misurazione del benessere dei Paesi (il PIL), la ricerca vuole dimostrare che non c'è contraddizione tra felicità e produttività. Come assunto della propria impostazione metodologica l'Autore dell'articolo prende in considerazione due concetti cari alla psicologia del lavoro:
1.Il concetto di flow (letteralmente, corrente) caro alla psicologia positiva, che consiste sostanzialmente in uno stato mentale di totale immersione in ciò che si sta facendo. Tale stato mentale è generalmente associato al piacere riguardo a ciò che si sta facendo, e la felicità sarebbe dunque il risultato di tale coinvolgimento e del risultato che ne consegue (il compiacimento...).
2. A completamento di quanto appena detto, è necessario aggiungere il concetto di significato, sviluppato da Jonathan Haidt: è necessario che, oltre a sperimentare tale compiacimento, il lavoratore possa vedere in modo chiaro la connessione tra ciò che sta facendo e "risultati significativi" del proprio lavoro (nell'articolo non è specificato, ma io aggiungerei che tali risultati devono essere visti sia a livello macro, cioè aziendale, sia a livello micro, cioè personale).
Partendo da queste considerazioni, lo studio mostra come investire in formazione, crescita professionale e politiche di work-life balance renda l'azienda maggiormente profittevole. La seconda parte dell'articolo analizza i modelli di analisi e di misurazione per implementare tali misure.
Due storie, due mondi, un abisso in mezzo. Ma rimane forse la necessità di restituire significato al lavoro quotidiano, sia attraverso un'operazione più propriamente culturale, sia attraverso nuove politiche di gestione del personale in tante aziende italiane.
Pubblicato il 12 ottobre 2011 - Commenti (0)