Don Sciortino

di Barbara Tamborini

Barbara Tamborini, psicopedagogista, autrice di libri sull'educazione. Ha 4 figli.

 
25
mag

La morte di Elena

Ieri sera, prima di dormire (almeno così credevo) ho sfogliato 30.08.2010. Immagini e parole di Lulù (Kowalski 2011), il libro fotografico che Shirin Amini con Niccolò Fabi ha realizzato per ricordare una festa. Il 30 agosto 2010, Olivia, la loro Lulùbella, avrebbe compiuto due anni se una forma acuta di meningite non l’avesse colpita. I genitori hanno deciso di festeggiare il suo compleanno comunque, hanno scelto di condividere il dolore per la perdita della figlia con ventimila persone e tanti amici cantanti, realizzando un evento lungo un giorno per finanziare la fondazione “Parole di Lulù” in un progetto di Medici con l’Africa, “un viaggio nel tempo e nello spazio con un nome di bambina tra le labbra, con i propri fantasmi e le proprie speranze davanti agli occhi, e quel mistero dell’esistenza che per un attimo eterno e tenero ci rende davvero fratelli” (il papà). Il sonno se n’è andato. La foto di Lulù nascosta dietro la quarta di copertina mi ha colto di sorpresa.

Poi mio figlio ha cominciato a chiamare: “Mamma, mi fa male la pancia!” e poi anche C. “Mamma, mi sono sporcata!” e così per tutta la notte sono stata sveglia con loro. Noi tre e un virus violento che li tormentava. Una di quelle notti in cui le lavatrici non si contano. Ho avuto tempo per pensare a quanti genitori darebbero la vita per potersi prendere cura ancora dei loro figli, per vederli crescere, a qualsiasi prezzo. Accorgersi di non poter più fare niente per alleviare la sofferenza di un figlio, perderlo quando la vita è ancora tutta da vivere. Le parole possono poco, così anche i gesti, ma in quel poco c’è tutto quello che vale la pena fare per metterci al cospetto del mistero e provare a incontrarlo.

Shirin chiude il libro scrivendo: «Sono felice di aver creato un luogo dove trovarla. Sono felice di voler aprire ancora le braccia». Credere nell’eterno di fronte a un presente sfigurato non è facile. Serve la forza di tante braccia per tenere in piedi una mamma davanti alla croce di un figlio. Servono gambe forti che vanno là dove i genitori ancora non riescono a guardare. E questo è quello che noi genitori dobbiamo fare con Lucio, il papà che dopo cinque ore di lavoro è tornato in macchina per andare a prendere la figlia Elena al nido e si è trovato davanti agli occhi la figlia in fin di vita. Sopravvivere a un figlio dopo averne causato la morte per una dissociazione, per un automatismo fatale è per un padre una pena eterna, un macigno con cui dovrà lottare tutta la vita.

Qualche giorno fa mio figlio più grande giocava a basket in cortile con un amico. Improvvisamente canestro e tabellone sono precipitati a terra, proprio dove di solito gioca la nostra piccolina. Quel canestro l’ho fissato io un paio di anni fa, ho cercato di bloccarlo al meglio. Ho usato delle corde forti, mi sono detta che poi avrei fatto qualcosa di meglio. Avrei fatto… Grazie al cielo tutto è successo quando sotto non c’era nessuno, ma il tonfo del crollo mi ha paralizzato il sangue. È bastata una frazione di secondo per sentire dentro quello che sarebbe potuto essere. Prendersi cura di un figlio non è impresa facile. A volte facciamo del nostro meglio, a volte ci proviamo, in alcuni momenti siamo troppo stanchi per riuscirci ma lo stesso restiamo lì. Quanto il troppo ha il sopravvento sono messe a nudo le nostre debolezza e paghiamo il conto dei nostri errori.

A Lucio non serve certo un processo per capire la sua colpa. Nessuna sentenza lo farà mai sentire innocente e nessuna pena sarà paragonabile al dolore per la perdita di Elena. Lucio non avrà un’altra possibilità con sua figlia per non sbagliare. A Lucio va il mio abbraccio, per quanto poco conti. Mai, neanche per un istante, potrei dire con certezza che una fatalità del genere di certo non mi capiterà. Le parole e le azioni possono poco, ma se tutti insieme proviamo a spingere con Lucio quel masso, può essere che un giorno sulla pietra, spuntino un paio d’ali.

Pubblicato il 25 maggio 2011 - Commenti (7)
17
mag

Imparare dai bambini

La prima goccia cadde un centimetro sopra il suo orecchio alle 3.16. La seconda sfiorò i capelli di Elena, verso le 5. La terza, alle 6, fece centro.
“Mamma, mamma!”
“Elena? Cosa c’è?”
“Mamma, piove… ”
“Sono qui. Cosa dici? avrai sognato!”
“No mamma, guarda, tocca la guancia…”
“Sarà una lacrima… Oh santo cielo! Non ci posso credere… quei…”
“Cosa dici mamma?”
“Niente, tu torna a dormire. Spostati da questa parte. Io vado a dire due parole a quelli di sopra”.
“Voglio venire anch’io su da Ibrahim!”
“Non se ne parla nemmeno. Tu resti qui!”
“Guido. Alzati dal letto!”
“Eh? Cosa è successo?”
“Ci piove in casa. Te l’avevo detto che quelli avrebbero fatto dei danni. Io non li avrei fatti venire a abitare proprio sopra di noi”
“Ma io che c’entro? È stata l’agenzia a dargli l’appartamento.”
“E tu tutto sorridente alla notizia… Adesso ci vai tu a parlargli”.
“Ok, più tardi ci…”
“Ma hai capito? Piove dal soffitto di tua figlia. Le è caduta una goccia nell’occhio… chissà da dove arriva quell’acqua… mi chiedo perché nostra figlia si sia legata a quel bambino. Con tutti gli amichetti che ci sono in giardino... Cosa avranno da dirsi?”
“Che problema c’è se giocano insieme? Sono nelle stessa classe della materna…”
“Le disgrazie non viaggiano mai da sole!”
“Sono due bambini!”
“Sua madre se ne sta sulla panchina tutta coperta anche quando ci sono 40°, la piccola sempre al collo… Ha quel sorriso stampato… E nostra figlia le parla… resta lì ad ascoltarla incantata…”
“Sono pronto, adesso vado su”.
“Voglio proprio sapere come riuscirai a farti capire. Quelli manco ti aprono… vedrai!”

Un po’ di ore dopo suonò il campanello: Elena si precipitò alla porta.
“Aspetta, fammi vedere chi è”.
La mamma scrutò dallo spioncino. Ibrahim se ne stava ritto in piedi sul pianerottolo con qualcosa in mano. La mamma gli aprì.
“Ciao” gridò Elena precipitandosi verso l’amico.
“Buongiorno signora, devo dare una cosa a Elena”, disse d’un fiato alla donna che le stava davanti.
“Ciao, sono venuto a riportarti questo”, tirò fuori dal sacchetto che aveva in mano una boccia di plastica trasparente con dentro un biglietto arrotolato. Elena si fece triste:
“Non è arrivata al mare!”
“No… l’uomo dei tubi l’ha ritirata fuori. Dice che rompe il nostro bagno. Anch’io sono triste”, e il bambino porse la palla a Elena con tutto il bene di cui era capace.
“Ci riproveremo al fiume!”.

Giulia se ne restò muta. La mamma di Ibrahim lo chiamò dall’altro capo delle scale.
“Arrivo mamma. Devo andare”. Si girò e corse veloce verso il suo appartamento. Elena, appena in casa, si mise a piangere:
“Speravo tanto di farla arrivare al mare… la maestra ci ha detto che tutti i tubi arrivano al mare. Aveva ragione Ibrahim a dire di non farlo…”
“Non ci posso credere! Non dirmi che sei stata tu a fare questo?”
“Mamma era un messaggio troppo importante!”
“Fila in camera tua!”, Elena se ne andò di là con le lacrime agli occhi, lasciando la sua palla a terra. Sperò di consolarsi prendendo al volo una nuova goccia, ma dal soffitto smise di piovere. Giulia si sedette nel corridoio con la palla in mano, l’aprì e srotolò il biglietto e vide un mare azzurro con una bambina bionda e un bimbo scuro che si tenevano per mano. Per un attimo, dal viso di Giulia, ricominciarono a cadere gocce.

Nel mese della festa della mamma, un racconto per tutte donne che si sentono straniere e per i figli che ci aiutano a conoscerle. Raccontateci le vostre esperienze di integrazione, come i bambini vi aiutano a incontrare l’altro. Buona settimana a tutti!

Pubblicato il 17 maggio 2011 - Commenti (1)
11
mag

Guarda mamma!

Viviamo in una casa con un giardino e un piccolo orto. In primavera c’è un sacco di lavoro da fare, cresce tutto molto in fretta. Sto raccogliendo l’erba che ho strappato.
P. (5 anni): “Mamma, guarda!”
“Bravo!” è sceso dallo scivolo senza mani.
J. (10 anni): “Guarda mamma, tiro una sborda… metto un cucchiaio all’incrocio del pali”
“Vediamo…”
J.: “Aspetta eh, aspetta… riprovo, questo non mi è riuscito… No, neanche questo… tu guarda, adesso tiro… No, cavoli, aspetta che riprovo…”.
A. (7 anni) “Hai visto come sono brava mamma? Guarda, lo faccio girare con la mano?” sta giocando con l’hula-hop. “Bravaaa… come gira!”
J.: “Ecco! Non mi ha visto!”
Io: “Hai fatto goal?”
J.: “No, ma se lo facevo non mi vedevi!”
C. (2 anni): “Eni mamma mammona… oio bicipetta” (vieni mamma, voglio la bicicletta)
Io: “Adesso non possiamo andare in bici, devo prima finire qui”

Mi piace lavorare fuori. Ho ricavato un’aiuola al bordo del prato e ho piantato qualche fiore che resiste al sole.
P.: “Guarda! Mamma… Mammaaaaaaaaaaa… guarda!” P. scende di testa dallo scivolo.
“Attento! Metti bene le mani davanti”.
J.: “Guarda questo… l’ultimo tiro…”
A.: “Guarda… lo lancio e lo riprendo…”
C.: “bicipetta… bicipetta!”

I miei figli sono appena tornati da scuola. Gli zaini sono stati lasciati a fianco dell’aiuola, i grembiulini sullo scivolo piccolo.
Io: “No P.! A testa in giù di schiena è vietato… poi lo fa anche C.…”
C.: “ch’io sciolo” (anch’io voglio andare sullo scivolo)
J.: “Mamma… non mi stai guardando!”
A.: “L’ho lanciato in altissimo… hai visto… poi l’ho preso al volo… è difficile?”
P.: “Allora salto giù…”
Io: “Ma sei impazzito?”
J.: “Guarda che sto per tirare…”
A.: “Provo a farlo ancora…”
Io: “C., non strappare quei fiorellini!”

La testa mi gira, e l’orto è ancora pieno di erbacce da raccogliere. Poi mi viene un’idea: “Bambini, guardate come strappo l’erba… venite qui a vedere. Sentite che profumo queste piante? Venite più vicino, guardate… riesco a mettere tanta erba sulla paletta e ad arrivare fino al bidone senza farla cadere… guardate bene… vado piano altrimenti… Guardate, ora la faccio cadere nel sacco… vediamo se non cade fuori niente… guardate, sono cadute tre foglie… le raccolgo. Ora vado a prendere le altre erbacce… venite che vi faccio vedere, riesco a prenderne ancora tante. Guardate come sono stata brava a raccoglierle tutte… vi faccio vedere come uso bene il rastrello…
J.: “Mamma? Posso andare a fare i tiri?”
A.: “Io voglio allenarmi con l’hula-hop”.
Io: “Ditemi voi… A me piaceva quando stavate qui a guardarmi…”
A.: “Facciamo che ognuno si allena da solo… poi fa vedere agli altri…”
Io: “Mi sembra un’ottima idea… per un po’ niente –GUARDA!-”

Tutti tornano a giocare. C. si è messa nella casetta. Mi piace stare all’aria aperta e godere di questa pace. Raccontatemi come tenete insieme il bisogno di attenzione dei vostri figli con i doveri e i diritti dell’essere mamma.
Un caro saluto e buona settimana a tutti.

Pubblicato il 11 maggio 2011 - Commenti (0)
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