26 mag
Abbeveratoio, Antonio Fontanesi (1818-1882), Bologna, Pinacoteca Nazionale.
Benedetto l’uomo che confida nel Signore:
è come un albero piantato lungo un ruscello,
verso la corrente stende le sue radici...,
le sue foglie rimangono verdi...,
non cessa di produrre frutti.
(Geremia 17,7-8)
In un panorama desertico e assolato si leva
un albero verdeggiante e carico di frutti. Come
è possibile in un terreno ove al massimo
sopravvivono i cespugli e i rovi? Ci avviciniamo,
ed ecco che scopriamo in un piccolo
avvallamento laterale un corso d’acqua sottile
ma perenne: le radici si sono tese fino a
raggiungere quella sorgente di vita ed è per
questo che la pianta si erge orgogliosa con la
sua chioma. L’immagine è semplice, ma agli
occhi del profeta Geremia, il drammatico testimone
nel VI secolo a.C. del crollo del regno
di Giuda e della rovina di Gerusalemme,
si trasforma in un simbolo. Infatti, l’applicazione
è subito esplicitata in apertura: «Benedetto
l’uomo che confida nel Signore, è lui la
sua fiducia!».
Non sappiamo quanti anni dopo, un altro
ebreo, un salmista, leggerà queste righe del
profeta e le riprenderà per comporre il suo
canto, quel Salmo che diverrà quasi l’atrio
d’ingresso o il portale dell’intero Salterio: il
giusto «è come albero piantato presso un canale,
dà frutto nella sua stagione, le sue fronde
non appassiscono mai, tutte le sue opere
hanno successo» (Salmo 1,3). Egli, poi, continuerà
e, per contrasto, dipingerà a dittico il
ritratto del malvagio, «simile a pula che il
vento disperde» (1,4), cioè a una realtà secca,
leggera, inconsistente, da far volare col ventilabro
o da ardere nel mucchio della paglia.
La fedeltà a Dio e alla sua legge è principio
di vita, di fecondità, di freschezza interiore.
Quando un altro profeta, Ezechiele, vorrà
rappresentare il futuro ultimo della storia
– quello che i teologi chiamano “l’escatologia”
– ricorderà che il verdeggiare della vita dipende
da un fiume che scaturisce dal tempio,
ossia dalle acque sante della grazia divina:
«Lungo quel fiume, su entrambe le rive, crescerà
ogni sorta di alberi da frutto, le cui foglie
non appassiranno, i loro frutti non cesseranno,
matureranno ogni mese, perché le acque
sgorgano dal tempio» (Ezechiele 47,12).
Limpido è, perciò, l’appello dei profeti: volete
vivere un’esistenza vera e feconda? Attingete
all’acqua della fede, della fiducia,
della fedeltà operosa a Dio e alla sua parola.
È ancora Geremia a usare un’immagine analoga,
ma al negativo, in un frammento che
abbiamo avuto occasione di considerare in
passato: «Il mio popolo ha abbandonato me,
sorgente d’acqua viva, e si è scavato cisterne
piene di crepe che non riescono a trattenere
l’acqua» (2,13). È interessante segnalare una
curiosità. Questo profeta è uno degli autori
biblici più sensibili alla natura, alla sua bellezza
e alla sua possibilità di parlare a noi
umani attraverso i suoi segni.
Così, in contrasto al quadretto rigoglioso e
fresco che ha ora dipinto, egli oppone, in
un’altra pagina poetica intensa ed emozionante,
la tragedia di una siccità terribile e
prolungata, sotto la morsa di una calura implacabile,
con la vegetazione avvizzita, le fonti
inaridite e la disperazione sia degli abitanti
sia degli animali che «aspirano l’aria come
sciacalli, con gli occhi languidi, perché non ci
sono più pascoli» (si legga il capitolo 14). E
anche là Geremia scopre un segno divino: il
Signore colpisce un popolo che è arido e senza
frutti ed egli si è fatto ormai assente, «come
un forestiero sulla terra, come un viandante
che si è fermato una sola notte».
Pubblicato il 26 maggio 2011 - Commenti (0)
19 mag
Vaso, colombe e uva, mosaico in San Vitale a Ravenna
"Io sono la via, la verità, la vita.
Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me."
(Giovanni 14,6)
«Preso il boccone, Giuda subito uscì.
Ed era notte...». Su Gerusalemme,
dunque, si stende il velo delle tenebre
e Giuda, il traditore – dopo aver partecipato
a quell’ultima cena durante la quale
Gesù gli aveva espresso un estremo gesto di
attenzione offrendogli il “boccone dell’ospite”,
segno di cordialità –, s’avvia di corsa per
le strade deserte della città santa a consumare
il suo tradimento. In quella «grande sala,
arredata e già apparecchiata, al piano superiore
» di una casa gerosolimitana (Marco
14,15), era salito Gesù con i suoi discepoli. Là
aveva celebrato la cena pasquale e poi, uscito
Giuda, aveva iniziato a parlare.
Quella sarebbe stata l’ultima sera della sua vita terrena. Le sue parole, perciò, acquistavano il sapore di un testamento. Giovanni, l’evangelista, ha rielaborato quei discorsi secondo uno stile che è stato chiamato “a ondate” perché, come accade ai flutti della risacca sul litorale che ricoprono lo stesso spazio in forme sempre diverse, così i temi dominanti, la fede e l’amore, ritornano ripetutamente su sé stessi, ma costantemente con tonalità e sfumature differenti. Facciamo solo due citazioni. L’una è per la fede, che è comunione con Cristo: «Io sono la vera vite, voi i tralci. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da sé stesso, se non rimane nella vite, così anche voi, se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci» (Giovanni 15,1.4-5).
L’altra citazione è sull’amore: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così anche voi amatevi gli uni gli altri... Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (13,34; 15,12).
Ora, però, la nostra analisi si concentra sulla frase che abbiamo scelto e proposto. Gesù ha fatto balenare ai suoi amici ciò che lo attende, la morte e il successivo ingresso nell’orizzonte divino, promettendo che là avrebbe preparato un posto anche per loro. Tommaso, il “dubbioso”, gli obietta: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». E la risposta di Cristo è in quella potente affermazione che abbiamo citato. Essa si apre con quell’«Io sono» che vale molto di più di una semplice copula verbale perché, come spesso avviene nel quarto Vangelo (si legga, ad esempio, Giovanni 8,58), si rimanda alla solenne autopresentazione di Dio nel roveto ardente al Sinai: «Io sono colui che sono» (Esodo 3,14).
A quella premessa gloriosa si collegano tre titoli che s’inanellano tra loro. Infatti, Cristo è «la via» per raggiungere il Padre proprio perché è «la verità», ossia la rivelazione perfetta del mistero di Dio. Attraverso lui, perciò, «conoscerete la verità che vi farà liberi » (8,32). I nostri passi avanzeranno verso quell’orizzonte di luce, guidati dalla parola di Gesù che è «verità».
Ma egli è anche «la vita» che non perisce, l’essenza stessa di Dio, ed è per questo che, stando uniti a lui in pienezza – appunto come i tralci al tronco della vite – noi saremo ammessi all’intimità vitale con Dio, il Padre, Signore della vita. Mettiamoci, allora, sulla strada che egli ci rivela e, stretti a lui, raggiungeremo la luce eterna e divina: «Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (8,12).
Pubblicato il 19 maggio 2011 - Commenti (0)
12 mag
Gli antichi cedri sul monte Libano a Bouman, A. Montfort (1802 - 1884), Parigi, Museo d'Orsay.
"Dissero gli alberi al rovo: «Vieni tu a regnare su di noi!». E il rovo: «Se mi ungete re su di voi, venite, rifugiatevi alla mia ombra!». (Giudici 9, 14 - 15"
(Luca, 24,29)
Il grande poeta inglese John Milton, nel suo
Paradiso perduto (1667), ha scritto un verso
paradossale: «Meglio regnare all’inferno,
che servire in cielo». Con questo assioma affermava,
però, una verità amara: gli uomini
preferiscono il potere a ogni costo, convinti,
come diceva un nostro noto uomo politico,
che «il potere logora chi non ce l’ha».
Ebbene, noi attraverso il nostro frammento
biblico faremo insieme una caustica riflessione
su questo anelito dell’uomo, causa di
tanti mali per la società. Lo faremo attraverso
la prima, compiuta parabola che appare
nella Bibbia. Come sappiamo, sarà Gesù con
le sue almeno 35 parabole a rendere popolare
questo genere letterario. Esso, però, era
già diffuso nell’antichità ed è rintracciabile
anche nell’Antico Testamento.
A narrare la parabola (in ebraico mashal),
che abbiamo proposto nel suo apice conclusivo,
è un certo Iotam, fratello di Abimelek:
quest’ultimo s’era messo in testa di diventare
re della città ebraica di Sichem e, per raggiungere
il suo scopo, aveva iniziato con un
bel bagno di sangue, eliminando tutto il suo
clan familiare, una settantina di persone,
considerate come pericolosi pretendenti o
concorrenti. Una di queste s’era, però, salvata
nascondendosi: era appunto il fratello minore
Iotam. Egli sale sul monte che diverrà
sacro ai Samaritani, il Garizim, e urla il suo
apologo, così da mettere in guardia i suoi
concittadini di Sichem sull’abisso verso il
quale stanno incamminandosi. A valle, infatti,
è riunita un’assemblea di capi di Sichem e
della regione che stanno per proclamare Abimelek
come loro sovrano.
Come accade nelle favole, protagonisti sono
o gli animali o i vegetali personificati che
diventano maestri degli umani insipienti.
Nel nostro caso entrano in scena innanzitutto
i tre alberi tipici del paesaggio mediterraneo:
l’ulivo, il fico, la vite (si legga il testo integrale
di Giudici 9,7-21). La delegazione delle
altre piante si reca da questi tre “colleghi”
per invitarli ad assumere la carica di re degli
alberi. Ma la risposta è negativa: essi sono lieti
di essere utili agli altri col loro olio o col
frutto dolce o col vino inebriante e non vogliono
lasciarsi prendere da manie di dominio,
librandosi sopra le altre piante, gloriandosi
e vivendo riveriti e serviti.
Di fronte a questo rifiuto la delegazione si
rassegna al tentativo di coinvolgere il rovo il
quale accetta subito con piacere, dato che
non ha nessun impegno se non quello di ramificarsi
su altri vegetali vivendo da parassita
e producendo solo spine. E subito il rovo
rivela la tipica arroganza del potere. Arido
com’è, s’immagina già frondoso ed elevato e
invita le altre piante a piegarsi sotto la sua
ombra. È questo il frammento da noi citato
che prosegue con un’altra battuta da sbruffone:
se non vi piegherete a me, ebbene «esca
dal rovo un fuoco e divori i cedri del Libano».
Detto in altri termini, facendo il gradasso, il
rovo minaccia persino i possenti e maestosi
cedri del Libano.
Iotam applica la morale della parabola alla
sua situazione politica. Il lettore potrà liberamente
applicarla alla nostra classe politica,
ricordando comunque che un po’ di anelito
verso il potere prevaricatore è in tutti noi.
Il nostro scrittore Luciano De Crescenzo ci ricordava
mediante il suo personaggio Bellavista
che «il potere non sazia, anzi, è come la
droga: richiede sempre dosi maggiori».
Pubblicato il 12 maggio 2011 - Commenti (0)
05 mag
La cena a Emmaus, (1622-1623), opera di Diego Velázquez.
"Resta con noi, perchè si fa sera e il giorno volge ormai al tramonto! "
(Luca, 24,29)
«A chi di noi la casa d’Emmaus non è
familiare? Chi non ha camminato
su quella strada, una sera che tutto
pareva perduto? Il Cristo era morto per noi. Ce
lo avevano preso il mondo, i filosofi e gli scienziati.
Non esisteva più nessun Gesù per noi sulla
terra. Seguivamo una strada e qualcuno
era venuto a lato. Eravamo soli e non soli.
Era ormai sera. Ecco una porta aperta, l’oscurità
di una sala ove la fiamma del caminetto rischiara
il suolo e fa tremolare le ombre. Opane
spezzato!... Rimani con noi, perché il giorno declina,
la vita finisce». Abbiamo voluto rievocare
quella pagina indimenticabile del Vangelo di
Luca attraverso la creazione letteraria della Vita
di Gesù (1936) del noto scrittore cattolico francese
François Mauriac.
In quei due discepoli – dei quali è riferito solo
un nome, Cleopa (ossia Cleopatro) – è rispecchiata
la vicenda di tutti i credenti. Anch’essi
camminano lungo quella via che da Gerusalemme
punta verso il villaggio di Emmaus (variamente
identificato dagli archeologi e quindi
un po’ misterioso e “aperto” a tanti luoghi). Condividono
la stessa tristezza e il dubbio. Sono soli
e sfiduciati. Ma ecco accostarsi un ignoto viandante
e qui lasciamo l’applicazione dello scrittore
francese per ritornare alla pagina evangelica
e al suo significato intimo. Il Cristo risorto e
glorioso non è riconoscibile con la pura e
semplice esperienza concreta: si ricordi l’imbarazzante
equivoco di Maria di Magdala che
scambia il Risorto per il custode del giardino cemeteriale
di Gerusalemme (Giovanni 20,14-16).
È necessaria una nuova forma di conoscenza.
Due sono le tappe di questo che è il processo della
fede. Prima c’è l’ascolto delle Scritture spiegate
dal Cristo, ancora ignoto, in chiave cristiana.
Poi si ha lo «spezzare il pane» che, come sappiamo,
nel linguaggio neotestamentario è un rimando
all’Eucaristia.
Ora, se osserviamo attentamente questi due
momenti, ci si accorge che essi riflettono già la
liturgia cristiana che ogni domenica anche noi
celebriamo. Essa comprende la lettura delle
Scritture e la «frazione del pane». Luca, rievocando
quel pomeriggio primaverile di duemila anni
fa, ci suggerisce dunque dove è possibile incontrare
il Cristo risorto, come accadde allora ai
due discepoli di Emmaus: nell’ascolto della parola
di Dio «il cuore arde nel petto», è la prima
tappa del riconoscimento; ma è allo «spezzare il
pane» che «gli occhi si aprono e riconoscono» in
quel viandante il Cristo risorto.
Quell’invocazione, diventata un canto che
spesso ripetiamo – «Rimani con noi perché si fa
sera» –, si trasforma in un inno al Risorto perché
adempia la sua promessa di essere con noi
«tutti i giorni, sino alla fine delmondo» (Matteo
28,20), non solo con la sua «parola di vita» e col
suo «Spirito di verità», ma soprattutto col suo
corpo e il suo sangue donati per noi. È attraverso
l’Eucaristia che anche noi diventiamo
«un solo corpo, perché tutti partecipiamo all’unico
pane» (1Corinzi 10,17). Cantava la scrittrice
tedesca Gertrud von le Fort (1876-1971):
«La polvere dei nostri atomi si raccoglie... / Tu
entri nel cuore della nostra solitudine, / per dischiuderla
come una porta spalancata... / Siamo
un solo corpo e un solo sangue».
Pubblicato il 05 maggio 2011 - Commenti (0)
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