21 dic
L’annuncio ai pastori, particolare, affresco della Natività, 1192. Monti Troodos, monastero bizantino di Nostra Signora di Araka (Scala).
"Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e sulla terra pace agli uomini che egli ama."
(Luca 2,14)
Quante volte abbiamo cantato nella
Messa il Gloria in excelsis, e
nella nostra memoria è incastonato
in modo indelebile anche il suo
prosieguo che mette in scena la pax in
terra destinata agli hominibus bonae voluntatis.
Quest’ultima espressione è talmente
comune da essere divenuta uno
stereotipo per definire i giusti, appunto
gli «uomini di buona volontà». Può,
quindi, sorprendere che la traduzione
italiana del Vangelo di Luca che si legge
nella liturgia abbia, a differenza della
versione latina, la formula «pace agli
uomini che egli [Dio] ama», dove è evidente
che la volontà è quella divina e
non l’umana.
Quest’inno, intonato dagli angeli nella
notte natalizia, rivolto ai pastori che,
«pernottando all’aperto vegliavano tutta
la notte facendo la guardia al loro
gregge» (Luca 2,8), vuole infatti esaltare
la gloria di Dio, cioè la sua presenza efficace
che è trascendente («nei cieli»), ma
è anche operante nella storia proprio attraverso
il dono della pace offerto
all’umanità.
Ebbene, nell’originale greco
si parla semplicemente degli «uomini
dell’eudokía». Ora, questo vocabolo
è usato per designare il progetto salvifico
di Dio, è quindi la sua benevolenza,
il suo amore. In forma didascalica
potremmo parafrasare così: «Pace agli
uomini che sono oggetto della buona
volontà di Dio».
Tra l’altro, anche nei celebri
manoscritti giudaici di Qumran,
presso il mar Morto, ci si imbatte in
una formula ebraica analoga che esalta
la “buona volontà” di Dio di cui gli uomini
sono oggetto.
È interessante notare che, alle soglie
della passione di Cristo, durante il suo
ingresso trionfale a Gerusalemme, la folla
dei suoi discepoli canterà: «Pace in cielo
e gloria nel più alto dei cieli» (Luca
19,38). Commentava l’esegeta americano
Raymond E. Brown: «È un tocco pieno
di fascino che la moltitudine della milizia
celeste proclami la pace sulla terra,
mentre la moltitudine dei discepoli proclama
la pace in cielo: i due passi potrebbero
diventare quasi un responsorio antifonale
». Ora, inno natalizio e inno pasquale
s’intrecciano tra loro sul tema della
pace, lo shalôm messianico, celebrato
già nell’Antico Testamento.
La pace biblica, come è noto, non è
solo assenza di guerra e di odio, ma è
anche pienezza di vita, di amore, di
gioia. Il Messia è per eccellenza il «Principe
della pace» (Isaia 9,5). Paolo ai cristiani
di Efeso ricorda che «Cristo è la
nostra pace» perché, abbattendo idealmente
il muro che separava nel tempio
di Gerusalemme il “Cortile degli Israeliti”
dal “Cortile dei Gentili”, ossia dei pagani,
ha creato «in sé stesso, dei due, un
solo uomo nuovo, facendo la pace» (Efesini
2,1415).
Ed è significativo che siano i pastori
i primi destinatari di questa “annunciazione”
natalizia, figure che un trattato
del Talmud, la grande raccolta delle
tradizioni e delle norme giudaiche,
considerava impure a causa della loro
convivenza con gli animali e disoneste
per le loro violazioni dei confini territoriali
durante le loro migrazioni e le
loro soste, e quindi inabili a essere giudici
e testimoni nei processi (Sanhedrin
25b). Si prefigurava già il detto di
Cristo riguardo agli ultimi destinati a
essere i primi.
Pubblicato il 21 dicembre 2012 - Commenti (2)
13 dic
Arrivo della Sacra Famiglia alla locanda di Betlemme di Joseph von Fuehrich, olio su tela, 1838. Berlino, Nationalgalerie, Staatliche Museen zu Berlin (Scala).
"Diede alla luce
il suo figlio primogenito,
lo avvolse in fasce e lo pose
in una mangiatoia,
perché non c’era posto
per loro nell’alloggio."
(Luca 1,34)
La grotta, il bue e l’asino, mezzanotte:
guai se nel nostro presepe mancassero
questi elementi che recano con sé tutta
l’atmosfera natalizia e le emozioni bellissime
di un’infanzia innocente, forse perduta. Ma se
scorriamo le righe del racconto evangelico di
Luca, di questo apparato non c’è menzione perché
esso è sbocciato liberamente come un fiore
della tradizione su un testo che è, invece, molto
più sobrio. Ecco, allora, alcune brevi annotazioni
attorno alla narrazione lucana.
La prima riguarda quel sorprendente “figlio
primogenito” che farebbe pensare ad altri
figli successivi di Maria. Già abbiamo avuto
l’occasione di puntualizzare che questa è una
nota giuridica nella quale si esalta la primogenitura,
elemento capitale nella struttura
familiare ebraica e nell’asse ereditario. È paradossale,
ma – come abbiamo avuto modo di
documentare per un passo di Matteo (2,25) –
nel mondo semitico si può parlare di una madre
che muore di parto «dando alla luce il suo
figlio primogenito»!
La seconda nota ci porta nell’ipotizzata
grotta della nascita di Gesù. Il greco di Luca
parla, però, di un “alloggio” (katályma), non
di una “locanda o albergo” (in greco pandochéion,
come si ha nella parabola del Buon
Samaritano: Luca 10,34). Siamo, quindi, in
presenza di una casa dove probabilmente risiedevano
i parenti di Giuseppe, casa già occupata
nel suo vano principale (“alloggio”).
Rimaneva, però, uno spazio ulteriore ove si
ospitavano gli animali nelle notti fredde; talora
era ricavato nella roccia, ma non necessariamente,
né era raro il fatto che vi dormissero
anche persone. Ecco, allora, spiegata
quella “mangiatoia” (fátne) nella quale viene
adagiato il neonato Gesù.
Siamo, perciò, in un contesto familiare, comune
alla gente di modeste condizioni, soprattutto
in un villaggio agricolo-pastorale
com’era la Betlemme di allora, i cui fasti di “città
di Davide”, come la denomina Luca (2,4),
erano stati da sempre soppiantati da quelli di
Gerusalemme, poco distante. Suggestivo è, invece,
il gesto appuntato da Luca: Maria «avvolse
in fasce» con premura materna il suo
bambino. Nel racconto parallelo della nascita
di Giovanni Battista si nota semplicemente
che «Elisabetta diede alla luce un figlio» nella
casa sua e di Zaccaria, circondata dalla festa
dei parenti (1,57-58).
Infine, da dove vengono il bue e l’asino? È
probabile, certo, la presenza di qualche animale
domestico in quella casa, come sopra abbiamo
prospettato. Ma la tradizione ha, forse,
introdotto questo particolare leggendo allegoricamente,
cioè con una libera applicazione,
un passo di Isaia in cui il Signore si lamenta
dell’ottusità del suo popolo con questo paragone
vivace: «Il bue conosce il suo proprietario
e l’asino la greppia del suo padrone, ma
Israele non conosce, il mio popolo non comprende
» (1,3).
Pubblicato il 13 dicembre 2012 - Commenti (1)
08 dic
Visitazione, Maria ed Elisabetta, miniatura, Egerton 1149, f.53v. Londra, British Library.
"Maria disse all'angelo:
«Come avverrà questo,
poiché non conosco uomo?»".
(Luca 1,34)
Il racconto lucano dell’annunciazione
a Maria ha da sempre un intoppo in
questa risposta che la «vergine, promessa
sposa a un uomo della casa di Davide
di nome Giuseppe» (1,27) rivolge
all’angelo che le affida l’incarico di generare
il «Figlio dell’Altissimo» (1,32). È
noto che il verbo «conoscere» nel linguaggio
biblico può indicare anche l’atto
sessuale. La replica di Maria è agevolmente
decifrabile nel senso più immediato.
La donna ha finora perfezionato
il primo atto del complesso rituale
matrimoniale giudaico, quello del fidanzamento,
che non presuppone ancora
la convivenza.
Pertanto, la reazione di Maria è abbastanza
logica: non “conoscendo” ancora
il suo futuro sposo (in senso pieno)
dato il suo statuto di “fidanzata”, non
potrà ora concepire e poi generare. Ecco,
a questo punto, la precisazione successiva
dell’angelo: «Lo Spirito Santo
scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo
ti coprirà con la sua ombra: perciò
colui che nascerà sarà santo e chiamato
Figlio di Dio» (1,35). La generazione di
Maria prescinde dal legame nuziale
con Giuseppe, tant’è vero che il racconto
parallelo di Matteo (1,18) la vede già
incinta «prima ancora che andassero a
vivere insieme». Là sarà ancora un angelo
a puntualizzare lo stesso concetto: «Il
bambino che è generato in lei viene dallo
Spirito Santo» (1,20).
Se le cose stanno così, perché ci si è accaniti
in passato su queste parole di Maria?
La preoccupazione era quella di
esaltare la Vergine in modo tale da non
farle mai balenare nella mente neppure
la possibilità di un pensiero o un atto
che non fosse in linea con la sua verginità.
Così, alcuni padri della Chiesa come
Gregorio di Nissa, Ambrogio e Agostino
assegnarono a quel presente («non conosco
») un valore di futuro: «non conoscerò
uomo», non ho intenzione – neanche
nel matrimonio con Giuseppe – di
avere rapporti sessuali, emettendo così
un voto di castità perpetua. Ovviamente,
di tutto questo non c’è traccia nella
narrazione lucana.
Questo, però, non significa che la verginità
della madre di Cristo non sia nel
centro del testo evangelico. Il progetto divino,
rivelato attraverso il messaggero
angelico, esclude esplicitamente che Gesù
nasca da un seme umano: Dio opera
in Maria mediante il suo Spirito rendendola
feconda e incinta già in quel
momento epifanico. In questa luce è
ben diversa la situazione tra le due donne
protagoniste del Vangelo dell’infanzia
di Gesù secondo Luca: Elisabetta è
una moglie sterile, implora un figlio e
Dio le concede di averlo tramite il marito
Zaccaria e, così, nasce Giovanni; Maria è
vergine e il figlio che avrà è dono divino
in senso assoluto senza diretta mediazione
umana (Giuseppe avrà solo la funzione
estrinseca di padre legale).
Come scrive un esegeta, Raymond
E. Brown, «nell’annunciazione della
nascita del Battista ci troviamo di
fronte a un ardente desiderio dei genitori
che sentono molto la mancanza
di un figlio. Maria è invece vergine,
non ha ancora vissuto col marito, non
ha questa umana e ardente attesa: per
lei si tratta di una sorpresa. Non si ha
più a che fare con la supplica da parte
dell’uomo e col generoso esaudimento
da parte di Dio. Qui ci troviamo davanti
all’iniziativa di Dio che oltrepassa
qualsiasi cosa sognata da uomo o
da donna».
Pubblicato il 08 dicembre 2012 - Commenti (2)
04 dic
Annunciazione alla fontana di Toros di Taron (secolo XIII-XIV), Ms 6289 f 143r, 1323, miniatura armena, scuola di Glajor (Sinuia). Matenadaran, Erevan, Armenia.
"L'angelo le disse:
« Rallègrati, piena di grazia:
il Signore è con te»".
(Luca 1,28)
Appena ascoltiamo queste righe di Luca,
si affollano nella mente tante immagini
che l’arte cristiana ha dispiegato su
muri, tele, tavole, pietre durante i secoli per
rappresentare l’annunciazione dell’angelo a
Maria, mentre nelle nostre orecchie sembra
echeggiare una delle tante Ave Maria che la
musica ha intessuto di armonie. Può, però,
stupire che proprio quella prima frase angelica
non contenga nella versione proposta
quell’“Ave” o almeno quel “Ti saluto” tradizionale
a cui siamo abituati da sempre, soprattutto
attraverso la recita del rosario.
Di per sé il greco originale, cháire, potrebbe
ammettere anche una simile resa; ma
l’evangelista, in filigrana, vuole far affiorare
l’eco di un’altra voce, quella dei profeti e
del loro invito alla gioia messianica rivolto
alla “figlia di Sion”, cioè a Gerusalemme personificata
e, quindi, a tutto il popolo dell’alleanza.
Così, ad esempio, canta il profeta Sofonia:
«Rallègrati, figlia di Sion, il re di Israele, il
Signore è in mezzo a te...» (3,14). Nel grembo
della figlia di Sion, sede del tempio e della casa
di Davide, Dio entra in dialogo col suo popolo.
Nel grembo di Maria, la nuova figlia di
Sion, il Signore si rende presente in maniera
piena e perfetta nel suo Figlio.
In questa linea si spiega anche l’appellativo
successivo che, in greco, conserva lo stesso
verbo del “rallègrati”, cháirein: infatti, si ha il
participio passivo kecharitoméne, che ha per
soggetto sottinteso Dio. Il significato genuino
sarebbe, perciò, «tu che sei stata riempita
della grazia» divina. Maria è la sede dell’effusione
suprema della grazia (cháris) del Signore,
perché in lei è presente Dio stesso nel Figlio
che lei concepisce e genera. San Bernardo,
in una sua pagina famosa, spingerà retoricamente
Maria ad accettare questo dono:
«L’angelo aspetta la tua risposta, Maria! Stiamo
aspettando anche noi, o Signora, questo
tuo dono che è dono di Dio. Sta nelle tue mani
il prezzo del nostro riscatto...».
Il primato è, dunque, divino; Maria – come
scriverà sant’Ambrogio – non è il Dio del
tempio, ma il tempio di Dio. In lei brillano in
pienezza la grazia divina, la volontà salvifica
del Signore, il suo amore redentore. Maria è
la nuova arca dell’alleanza, avvolta nella nube,
segno del mistero di Dio (Esodo 40,35):
«Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza
dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra
», le dice l’angelo Gabriele (Luca 1,35). In
lei si ha, dunque, la presenza definitiva di
Dio nella storia umana. Il racconto dell’annunciazione
è, quindi, squisitamente teologico
e cristologico.
Una nota in appendice. La tradizionale
preghiera mariana dell’Ave Maria ha, comunque,
la sua radice proprio nel testo lucano
e ha una sua prima, simbolica testimonianza
nella stessa grotta di Nazaret detta
dell’“Annunciazione”, sede di un culto giudeo-
cristiano fin nei primi secoli. Su una
delle pareti si è scoperto un graffito con questa
invocazione in greco, XAIPE MAPIA, che
è appunto il “Rallègrati Maria”, trasformatosi
nel latino Ave Maria del rosario, la preghiera
diffusa fin dal Medioevo e ancora viva
nei nostri giorni come la più popolare
orazione mariana.
Pubblicato il 04 dicembre 2012 - Commenti (2)
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