25 ago
Beato Angelico (1387-1455), Annunciazione, particolare capitello con rondine. Madrid, Prado.
"Anche il passero
trova una casa
e la rondine
il suo nido
dove porre i suoi
piccoli,
presso i tuoi altari,
Signore degli
eserciti, mio re
e mio Dio!
(Salmo 84,4)."
Un po’ tutti qualche volta siamo stati
catturati dagli arabeschi che i voli degli
uccelli disegnano nel cielo, soprattutto
quando si tratta di rondini e passeri che
fanno parte del nostro paesaggio quotidiano.
Secoli fa anche un poeta ebreo era là, col
volto fisso in alto, nel cielo limpido di Gerusalemme,
a contemplare lo svolazzare di questi
uccelli che avevano ricavato spazi per i loro nidi
nei cornicioni del tempio di Sion. La dolce
e delicata immagine di questi uccelli si era, così,
trasformata in poesia, anzi, in preghiera.
È appunto il frammento del Salmo 84 da
noi proposto, un piccolo ritaglio contenente
quella scena e appartenente a un inno in onore
di Sion, il colle gerosolimitano che ospitava
il tempio, la sede della presenza del Signore,
cittadino tra i suoi concittadini umani.
Non ci deve stupire che in un quadretto così
intenso, amabile e spirituale entri un’invocazione
apparentemente tanto forte e fin dura,
«Signore degli eserciti», in ebraico Jhwh seba’ôt.
Questo, infatti, era il titolo divino tipico
del santuario di Gerusalemme e la prima idea
sottesa non era tanto quella delle armate
ebraiche guidate dal generale supremo, quanto
piuttosto quella cosmica dell’“esercito” delle
stelle e degli elementi naturali che obbediscono
al loro Creatore. Nel libro del profeta
Baruc si legge: «Le stelle brillano nelle loro postazioni
di guardia e gioiscono. Il Signore le
chiama ed esse rispondono: Eccoci!, sfavillanti
di gioia in onore del loro Creatore» (3,34-35).
Ma ritorniamo all’immagine del nostro versetto.
Essa è preparata da un’appassionata invocazione-
esclamazione: «Quanto sono amabili
le tue dimore, Signore degli eserciti! L’anima
mia languisce e si strugge per gli atri del Signore.
Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio
vivente!» (84,2-3). Il Salmista, a questo punto,
invidia passeri e rondini che non si staccano
dal tempio, come deve fare lui, pellegrino
che ormai sta per lasciare il tempio di
Sion, probabilmente dopo una delle tre cosiddette
“feste di pellegrinaggio” (in questo caso
pare non siano né Pasqua, né Pentecoste, bensì
la solennità delle Capanne, legata alla vendemmia:
si parla, infatti, nel versetto 7 delle
«prime piogge» che sono appunto quelle autunnali).
Fortunati, dunque, questi uccelli che hanno
qui la loro dimora e non si devono distaccare
per ritornare a valle, nella quotidianità.
Dietro di essi l’orante intravede i ministri
del tempio che hanno una residenza perpetua
e non solo temporanea (come il pellegrino)
a Sion, in una costante intimità con Dio.
Tuttavia, egli non rimpiange questa manciata
di ore che ha trascorso lassù e che adesso
è finita, perché «anche un sol giorno nei
tuoi atri vale più di mille» altrove. E continua:
«Ho scelto di stare sulla soglia del mio
Dio piuttosto che dimorare nelle tende degli
empi» (84,11). È evidente il contrasto tra due
«tende», quella dell’arca dell’alleanza del Signore
in Gerusalemme, e i padiglioni dei
templi idolatrici o dei palazzi dei potenti.
Solo nella casa del vero Dio c’è la vita, il
sole, la protezione contro gli incubi del male:
«Sole e scudo è il Signore Dio che concede
grazia e gloria e non rifiuta il bene a chi cammina
con rettitudine» (84,12). Il clima spirituale è
quello che esprime anche un poeta mistico indiano,
nella sincerità della sua fede. È Kabir,
vissuto nel XV secolo, che cantava: «O cuore
mio, non staccarti dal sorriso del tuo Dio, non
errare lontano da lui. Colui che veglia sugli uccelli,
sulle bestie e gli insetti, colui che ti cura
da quand’eri ancora nel grembo di tua madre,
non ti proteggerà ora che ne sei uscito?».
Pubblicato il 25 agosto 2011 - Commenti (2)
12 mag
Gli antichi cedri sul monte Libano a Bouman, A. Montfort (1802 - 1884), Parigi, Museo d'Orsay.
"Dissero gli alberi al rovo: «Vieni tu a regnare su di noi!». E il rovo: «Se mi ungete re su di voi, venite, rifugiatevi alla mia ombra!». (Giudici 9, 14 - 15"
(Luca, 24,29)
Il grande poeta inglese John Milton, nel suo
Paradiso perduto (1667), ha scritto un verso
paradossale: «Meglio regnare all’inferno,
che servire in cielo». Con questo assioma affermava,
però, una verità amara: gli uomini
preferiscono il potere a ogni costo, convinti,
come diceva un nostro noto uomo politico,
che «il potere logora chi non ce l’ha».
Ebbene, noi attraverso il nostro frammento
biblico faremo insieme una caustica riflessione
su questo anelito dell’uomo, causa di
tanti mali per la società. Lo faremo attraverso
la prima, compiuta parabola che appare
nella Bibbia. Come sappiamo, sarà Gesù con
le sue almeno 35 parabole a rendere popolare
questo genere letterario. Esso, però, era
già diffuso nell’antichità ed è rintracciabile
anche nell’Antico Testamento.
A narrare la parabola (in ebraico mashal),
che abbiamo proposto nel suo apice conclusivo,
è un certo Iotam, fratello di Abimelek:
quest’ultimo s’era messo in testa di diventare
re della città ebraica di Sichem e, per raggiungere
il suo scopo, aveva iniziato con un
bel bagno di sangue, eliminando tutto il suo
clan familiare, una settantina di persone,
considerate come pericolosi pretendenti o
concorrenti. Una di queste s’era, però, salvata
nascondendosi: era appunto il fratello minore
Iotam. Egli sale sul monte che diverrà
sacro ai Samaritani, il Garizim, e urla il suo
apologo, così da mettere in guardia i suoi
concittadini di Sichem sull’abisso verso il
quale stanno incamminandosi. A valle, infatti,
è riunita un’assemblea di capi di Sichem e
della regione che stanno per proclamare Abimelek
come loro sovrano.
Come accade nelle favole, protagonisti sono
o gli animali o i vegetali personificati che
diventano maestri degli umani insipienti.
Nel nostro caso entrano in scena innanzitutto
i tre alberi tipici del paesaggio mediterraneo:
l’ulivo, il fico, la vite (si legga il testo integrale
di Giudici 9,7-21). La delegazione delle
altre piante si reca da questi tre “colleghi”
per invitarli ad assumere la carica di re degli
alberi. Ma la risposta è negativa: essi sono lieti
di essere utili agli altri col loro olio o col
frutto dolce o col vino inebriante e non vogliono
lasciarsi prendere da manie di dominio,
librandosi sopra le altre piante, gloriandosi
e vivendo riveriti e serviti.
Di fronte a questo rifiuto la delegazione si
rassegna al tentativo di coinvolgere il rovo il
quale accetta subito con piacere, dato che
non ha nessun impegno se non quello di ramificarsi
su altri vegetali vivendo da parassita
e producendo solo spine. E subito il rovo
rivela la tipica arroganza del potere. Arido
com’è, s’immagina già frondoso ed elevato e
invita le altre piante a piegarsi sotto la sua
ombra. È questo il frammento da noi citato
che prosegue con un’altra battuta da sbruffone:
se non vi piegherete a me, ebbene «esca
dal rovo un fuoco e divori i cedri del Libano».
Detto in altri termini, facendo il gradasso, il
rovo minaccia persino i possenti e maestosi
cedri del Libano.
Iotam applica la morale della parabola alla
sua situazione politica. Il lettore potrà liberamente
applicarla alla nostra classe politica,
ricordando comunque che un po’ di anelito
verso il potere prevaricatore è in tutti noi.
Il nostro scrittore Luciano De Crescenzo ci ricordava
mediante il suo personaggio Bellavista
che «il potere non sazia, anzi, è come la
droga: richiede sempre dosi maggiori».
Pubblicato il 12 maggio 2011 - Commenti (0)
10 feb
Offerta di Caino e Abele, maestro Bertram (1340-1415), altare maggiore, chiesa di San Pietro (Amburgo), Hamburger Kunsthalle
"Se stai per presentare la tua offerta all’altare, e là ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia là il tuo dono, davanti all’altare, e va’ prima a riconciliarti col tuo fratello.
Poi torna a offrire il tuo dono."
(Matteo 5,23-24)
La processione dei fedeli sta per accedere al tempio di Sion per offrire i sacrifici
rituali. Alla porta d’ingresso, ecco un
levita che proclama una serie di condizioni
prerequisite per poter essere ammessi al culto.
Quali erano queste clausole di ammissione?
Norme di purità esteriore con abluzioni,
come accadeva in molti templi dell’antichità
o come avviene con le fontane che precedono
le moschee? Prescrizioni sull’abbigliamento,
come leggiamo oggi sui cartelli posti davanti
alle nostre cattedrali o chiese storiche? Anche
l’antica raccolta delle tradizioni giudaiche, il
Talmud, ammoniva che «non si deve salire
sul monte del tempio con le scarpe, né con la
borsa, né con la polvere sui piedi e non si deve
sputare per terra».
Ecco, invece, l’elenco di coloro che sono ammessi
al tempio secondo quel levita: «Chi cammina
con moralità, chi pratica la giustizia,
chi dice la verità dal cuore, chi non ha calunnia
sulla lingua, chi non fa del male al suo
prossimo, chi non insulta il suo vicino, chi
considera spregevole il perverso e onora colui
che teme il Signore, chi non ha esitazioni, anche
se ha giurato a suo danno (nel mantenere
la parola data), chi non presta denaro a usura,
chi non si lascia corrompere contro l’innocente!
». A questo punto ecco la conclusione: «Chi
agisce così, sarà stabile per sempre» e quindi
starà sulla rupe solida del tempio, simbolo
della potenza salvatrice di Dio.
Abbiamo sceneggiato il testo del Salmo
15, perché esso è in qualche modo l’antefatto
del frammento che abbiamo proposto ritagliandolo
da quel fondamentale “Discorso
della Montagna”, considerato – forse un po’
eccessivamente – la “Magna Charta” del cristianesimo
(in verità, nel cuore del messaggio
cristiano si devono porre anche e soprattutto
l’Incarnazione e la Pasqua di Cristo).
Gli studiosi della Bibbia hanno classificato
il Salmo 15 e altri passi analoghi come una
“liturgia d’ingresso” ed è facile capirne il
motivo. L’ingresso al culto è aperto solo se si
ha la coscienza pura e onesta. Anche noi iniziamo
la Messa con l’atto penitenziale in cui
ci riconosciamo peccatori davanti a Dio e ai
nostri fratelli.
I fratelli sono, appunto, al centro del passo
matteano che stiamo considerando. Immaginiamo
allora due fratelli. Uno sta per entrare
nel tempio a pregare e a fare la sua offerta
sacrificale o a partecipare all’Eucaristia. L’altro
fratello è in città: tra i due c’è stata una lite
violenta e non si parlano più, anzi, si detestano.
Il primo sa di questa tensione e vorrebbe
quasi ignorarla. Ecco, però, la voce di Gesù:
lascia lì dono e offerta, rientra in città e
bussa alla porta di tuo fratello e cerca di riconciliarti
con lui. Tutto questo è emblematicamente
rappresentato oggi in un gesto liturgico
divenuto ormai abitudinario e scontato,
quello dello scambio di pace prima di ricevere
l’Eucaristia.
Più significativo al riguardo è il rito ambrosiano
della Chiesa di Milano che pone tale gesto
prima dell’offertorio con questa esortazione:
«Secondo l’ammonimento del Signore,
prima di presentare i nostri doni all’altare,
scambiamoci un segno di pace». Come insegnavano
i profeti, la liturgia senza la vita giusta,
il rito senza la giustizia, la preghiera senza
l’amore sono sgraditi a Dio e rischiano di
essere una farsa. Era ancora Gesù che ripeteva:
«Quando vi mettete a pregare, se avete
qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché
anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a
voi i vostri peccati» (Marco 11,25).
Pubblicato il 10 febbraio 2011 - Commenti (0)
09 gen
Ecce Homo, Antonello da Messina (1430 ca.-1479), Novara, Broletto.
"Il mio Servo non griderà né urlerà, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà la canna incrinata, né spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta. "
(Isaia 42,2-3)
Entra in scena presentato da Dio stesso. Non ha un nome, né una genealogia,ma soltanto un titolo, Servo, in ebraico’ebed, che non è indizio di inferiorità, ma espressione di una dignità, diremmo noi, quasi di ministro. Egli appare all’improvviso in un capitolo, il 42, del libro di Isaia: siamo in quelle pagine – che vanno dal capitolo 40 al 55 – assegnate dagli studiosi a un autore diverso rispetto al grande profeta dell’VIII secolo a.C. e che è stato denominato convenzionalmente “il Secondo Isaia”.
Costui era vissuto nel momento arduo ed esaltante del VI secolo a.C., quando il re di Persia, Ciro, spazzato via l’impero babilonese, aveva concesso a Israele di ritornare dall’esilio alla terra dei padri.
La domanda è ora spontanea: chi è questo personaggio che sale alla ribalta in quattro
canti incastonati nei capitoli 42; 49; 50 e 53 del rotolo profetico di Isaia? Tante sono le
identificazioni tentate, sia individuali (un profeta? Geremia? Mosè? Un maestro di sapienza?), sia collettive (Israele stesso, oppure gli Ebrei fedeli che ora stanno per rimpatriare?). Proprio perché soprattutto nell’ultimo dei quattro canti il volto del Servo è segnato dai tratti della sofferenza e la sua è una missione sacrificale, la tradizione cristiana non ha avuto esitazione nell’intravedere in quella figura i tratti del Messia, naturalmente applicati al Cristo della passione, morte e risurrezione.
Noi ora fissiamo lo sguardo su uno dei primi lineamenti di quel Servo che potremmo
riassumere in una parola: la mitezza. Sembra, infatti, di sentire già echeggiare l’appello
di Gesù: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete
il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore. Il mio giogo
è, infatti, dolce e il mio carico leggero» (Matteo 11,28-30). Tre sono le immagini che descrivono la mitezza del Servo.
Innanzitutto la sua non è la voce potente e inquietante degli antichi profeti: il suo è, in
verità, un annunzio di liberazione e di salvezza, non di giudizio e di condanna. Egli non
punta l’indice nella piazza contro le ingiustizie, ma con pazienza passa quasi di casa in casa per convincere e convertire.
Ecco, allora, gli altri due simboli suggestivi e trasparenti: la canna incrinata non è da lui
gettata via, ma riaggiustata e riutilizzata; lo stoppino che sta sfrigolando e crepitando
perché senza olio non viene brutalmente spento, ma di nuovo alimentato perché ritorni
a sfavillare. È un atto d’amore nei confronti di ciò che sembra destinato alla rovina. È
quell’andare in cerca della pecora perduta, è quell’abbracciare il figlio smarrito e ritornato a casa, è quell’atteggiamento che Gesù costantemente testimonierà con le sue parole e le sue azioni.
Pubblicato il 09 gennaio 2011 - Commenti (0)
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