07 feb
Cristo in casa di Marta di Giovanni da Milano (secolo XIV). Firenze, Santa Croce.
"Marta, Marta,
tu ti affanni
e ti agiti
per
molte cose...
Maria ha scelto
la parte migliore."
(Luca 10,41-42)
Gesù è accolto festosamente nella casa
di una famiglia amica: è una scena di
serenità e di pace che vari pittori hanno
voluto ricreare nelle loro tele, da Tintoretto
nel 1500 (Monaco) a Velázquez nel 1618
(National Gallery di Londra), da Vermeer nel
1653 (a Edimburgo), fino a Overbeck nel
1815 (a Berlino). È solo l’evangelista Luca
(10,38-42) a narrarci questo episodio che presenta
due donne, Marta e Maria, mentre Giovanni
introdurrà un’altra scena parallela ma
differente che vede ancora le due donne nello
stesso atteggiamento che tra poco descriveremo
(12,1-11).
Nella narrazione giovannea,
però, non solo si indica la località, Betania,
un sobborgo di Gerusalemme, ma si fa anche
emergere la figura del fratello Lazzaro, il
quale era stato oggetto di un intervento clamoroso
di Cristo: come si sa, egli l’aveva riportato
in vita (11,1-45).
Ma ritorniamo all’episodio descritto da Luca.
Ciò che accade entro quelle pareti è noto:
Marta funge da padrona di casa (non si cita
Lazzaro), ed è subito coinvolta nei calorosi riti
dell’ospitalità, una realtà molto sentita e
vissuta in Oriente. La sorella Maria, invece, si
intrattiene nell’ascolto dell’ospite.
Le parole che Gesù riserva a Marta, infastidita
per l’assenza di collaborazione della sorella,
hanno dato alla scena un valore simbolico,
interpretato dalla tradizione come
la raffigurazione di due modelli di vita, quella
attiva e impegnata nel sociale e quella
contemplativa e mistica. La prima sarebbe
stata svalutata dalla risposta di Gesù a scapito
della seconda.
Anche il poeta francese Paul Claudel, nel
suo dramma Lo scambio (1894), darà il nome
di Marta alla protagonista umile e laboriosa
facendone l’emblema della dedizione alla famiglia,
all’esistenza quotidiana, agli impegni
concreti. In realtà, le cose stanno diversamente
se si approfondisce il testo evangelico,
a partire dalle parole di Cristo che suonano
così: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per
molte cose, ma di una sola cosa c’è bisogno
[altri codici antichi hanno invece questo testo:
«ma c’è bisogno di poco, anzi di una sola
cosa»]. Maria ha scelto la parte migliore, che
non le sarà tolta».
Ebbene, di Marta nel racconto di Luca si diceva
che «era tutta presa», quasi «distolta» a
causa del servizio a cui si era totalmente dedicata.
Qui è la chiave per comprendere la puntualizzazione
di Gesù. Marta si è lasciata assorbire
completamente dalle cose esteriori.
Maria, invece, incarna il modello del discepolo
che, in qualsiasi contesto, è in ascolto della
Parola divina e tiene sempre la barra rivolta
verso «la parte migliore» e fondamentale.
Detto in termini generali, non è il lavoro in
sé che allontana da Dio e dallo spirito (Gesù
con tutto il suo predicare, guarire, incontrare,
ascoltare non era forse anche lui un “attivo”?),
bensì è l’alienazione nell’agire, è l’essere
catturati totalmente dalle cose, senza
più un atteggiamento interiore, implicito o
esplicito, rivolto verso Dio, una sorta di canale
intimo aperto verso di lui.
Pubblicato il 07 febbraio 2013 - Commenti (2)
24 gen
Cristo sul Calvario incontra la Madre e la Veronica. Francesco Bonsignori, (1455 -1519 ca.), Firenze, Bargello (Scala).
"Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua."
(Luca 8,1-2)
Qualche lettore si chiederà: dov’è
mai la difficoltà in questa frase
che abbiamo sentito tante volte
nelle prediche senza imbarazzarci, anche
perché di croci da portare ne abbiamo
non poche nella nostra vita quotidiana?
Abbiamo voluto proporre questo
lóghion – come lo chiamano gli studiosi
– ossia questo “detto” lapidario di
Gesù, per mostrare in verità quanto minuziosa
debba essere la nostra lettura
dei testi biblici, così da non perdere la
ricchezza delle loro iridescenze tematiche
e delle loro sfumature. Partiamo
innanzitutto dal tema della frase pronunziata
da Cristo.
L’espressione «venir dietro a me» (in
greco opíso mou érchesthai) designa la
sequela del discepolo che deve avere come
emblema di imitazione il suo Maestro
e Signore, muovendo i passi della
vita sul suo stesso sentiero.
Questo percorso
comprende due decisioni. La prima
è il “rinnegare sé stessi”, ossia abbandonare
l’egoismo e l’interesse personale.
È ciò che non farà in quella notte
drammatica san Pietro il quale, anziché
“rinnegare sé stesso”, “rinnega” il
suo Signore (Matteo 26,69-75; Luca
22,54-62).
La seconda scelta da compiere è
quella di avviarsi sulla salita ardua del
Calvario, pronti a essere coerenti fino
alla fine, sacrificando ogni cosa, anche
la stessa vita. Matteo presenta, infatti,
questo detto di Gesù così: «Se qualcuno
vuol venire dietro a me, rinneghi sé
stesso, prenda la sua croce e mi segua»
(16,24).
Come è evidente, l’evocazione
è quella della crocifissione; in altri termini,
l’evangelista, che scrive a una comunità
cristiana contestata e perseguitata,
fa balenare davanti ai loro occhi
anche il rischio del martirio, una scelta
estrema da compiere sulla scia del
suo Signore.
Diverso è il contesto a cui si rivolge
Luca: i cristiani sono poveri e in gravi
difficoltà nell’esistenza quotidiana. Ecco,
allora, la variante che egli introduce
per applicare la frase di Gesù all’esperienza
che i suoi lettori stanno vivendo:
il discepolo «prenda la sua croce ogni
giorno e mi segua». Quell’“ogni giorno”
è significativo perché evoca l’impegno
che si deve assumere nelle vicende giornaliere.
La “croce” diventa il simbolo
di tutte le prove, le fatiche, i sacrifici,
le sofferenze che gravano sulla vita e
che il cristiano accoglie con fedeltà e costanza
come segno della sua adesionesequela
a Gesù.
È questa una sorta di legge evangelica,
tant’è vero che più avanti Cristo ribadisce:
«Colui che non porta la propria
croce e non viene dietro a me, non può
essere mio discepolo» (Luca 14,27). E
non è detto che sia meno impegnativo
portare la propria croce ogni giorno rispetto
all’atto estremo del martirio. È
un po’ quello che affermava Pirandello
in un suo dramma, Il piacere dell’onestà
(1917): «È molto più facile essere un
eroe, che un galantuomo. Eroi si può essere
una volta tanto; galantuomini, si
dev’essere sempre».
Pubblicato il 24 gennaio 2013 - Commenti (4)
17 gen
Cristo risorto appare a Maria Maddalena, 1521-1523, affresco di Bernardino Luini. Milano, chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore (Scala).
"C’erano con Gesù i Dodici e alcune donne...
Maria, chiamata Maddalena,
dalla quale erano usciti sette demoni."
(Luca 8,1-2)
La storia dell’arte ha potuto ricamare
molto liberamente immagini
erotiche attorno alla figura di Maria
originaria del villaggio di Magdala
(che s’affaccia sul lago di Tiberiade):
l’ha ritratta, infatti, spesso discinta o
nuda, coperta solo dai lunghi e morbidi
capelli, anche quando la rappresentava
nello stato di penitente, come accade
nella tela di Tiziano (1523) di Palazzo
Pitti o alle varie “Maddalene” di Guido
Reni, riprese in repliche e copie. Ma
questa donna – che seguirà Gesù fino ai
piedi della croce e che lo incontrerà il
mattino di Pasqua nell’area cemeteriale
di Gerusalemme ove era stato sepolto
(Giovanni 20,11-18) – era proprio
una prostituta convertita?
Se stiamo al testo di Luca che abbiamo
citato, troviamo solo questa annotazione:
da lei Gesù aveva fatto «uscire
sette demoni». Più o meno una cosa
analoga è detta delle altre figure femminili
che costituiscono, coi Dodici, il seguito
di Cristo: «Alcune donne che erano
state guarite da spiriti cattivi e da infermità
».
Ora, è noto che spesso nella
Bibbia non si distingue nettamente
tra malattia e possessione diabolica.
Ad esempio, il giovane che Gesù guarisce
ai piedi del monte della Trasfigurazione
rivela chiaramente i sintomi
dell’epilessia, ma gli evangelisti parlano
di un «demonio» o di uno «spirito impuro
» (vedi, ad esempio, Marco
9,14-28, oppure Luca 9,37-43).
Il nesso tra peccato e malattia, che
spesso affiora nell’Antico Testamento, favoriva
questa confusione, ma a noi non
permette di identificare un malato con
un ossesso. Ora, nel caso della Maddalena,
Luca parla di una sua liberazione da
ben sette demoni.
Si può, perciò, o ipotizzare
una grave forma di possessione
diabolica o più semplicemente – per la
ragione sopra addotta – di una grave e
particolare infermità (il sette è un numero
simbolico che indica pienezza)
dalla quale Gesù l’avrebbe liberata.
A questo punto è legittima la domanda:
perché si è pensato che questo stato
di male fosse collegato alla prostituzione?
La risposta sarà per molti un po’
sorprendente perché si lega non tanto
al testo citato, quanto al suo contesto.
Nella pagina precedente, del tutto indipendente,
si narra infatti l’episodio che
si svolge nella casa di un capo dei farisei
di nome Simone, del quale Gesù è
ospite (Luca 7,36-50). Là effettivamente
entra in scena «una peccatrice di quella
città»: essa rivela, però, uno spirito di
pentimento e di umanità superiore a
quello dei benpensanti che sono a
mensa con Simone.
Sulla base di questo semplice accostamento
narrativo esteriore si è applicata
l’etichetta di prostituta a Maria di
Magdala, identificata appunto senza
fondamento con quella “peccatrice”. Si
tratta, alla fine, di una calunnia che, comunque,
non sfiorò mai la mente di
Gesù. Egli, infatti, la volle alla sua sequela,
fino al vertice supremo della
sua vicenda terrena e al suo ingresso
nella gloria pasquale.
Pubblicato il 17 gennaio 2013 - Commenti (4)
10 gen
I precursori di Cristo con santi e martiri del Beato Angelico, 1423-1424, particolare di predella d’altare. Londra, National Gallery (immagine Scala).
"Gesù aveva circa
trent’anni
ed era figlio,
come si riteneva,
di Giuseppe,
figlio di Eli..."
(Luca 3,23)
Gesù sta per entrare sulla scena
pubblica. È un trentenne residente
a Nazaret, considerato figlio di
Giuseppe: è proprio dall’espressione
«come si riteneva» che nasce la definizione
di “padre putativo” assegnata allo
sposo di Maria nei confronti del figlio
legalmente da lui assunto in carico.
È appunto all’inizio della predicazione
di Cristo che l’evangelista Luca decide
di tracciare il suo albero genealogico,
così come aveva fatto Matteo (1,1-17)
all’inizio, però, della vita fisica del Bambino.
Le differenze tra le due genealogie
sono talmente tante da suscitare più
di una perplessità.
Perplessità che un po’ si diradano tenendo
conto del valore più simbolico-spirituale
che storico-documentario di
un simile genere letterario. Infatti, attraverso
gli anelli genealogici (77 in
questo caso), non si vuole tanto delineare
con rigore scientifico la sequenza dei
discendenti, quanto il legame che
l’anello terminale ha con figure di una
storia più ampia e con personaggi o vicende
emblematiche.
È per questo che
Matteo, adottando una genealogia “discendente”,
parte da Abramo come radice
della figura di Gesù ebreo secondo la
carne. Luca, invece, che scrive a cristiani
di prevalente matrice pagana, sceglie
la via “ascendente” e fa risalire Gesù fino
ad Adamo, cogliendo così la sua fraternità
con l’intera umanità.
In sintesi, potremmo dire che le genealogie
evangeliche di Cristo hanno lo scopo
di esaltare l’incarnazione del Figlio di
Dio sia nella storia umana (Adamo) sia
in quella messianica della salvezza (Abramo
e Davide).
Si traccia, quindi, un’identità
più religiosa che storica, anche se ovviamente
si assumono per l’edificazione
della serie genealogica varie figure reali
che hanno contrassegnato la vicenda del
popolo al cui interno Cristo è inserito.
Le
due versioni genealogiche di Matteo e Luca
non sollecitano di per sé un’analisi storiografica,
se non in sede critica, perché
la loro meta è quella di offrire la carta
d’identità non anagrafica, bensì teologica
del personaggio centrale.
Egli è contemporaneamente «figlio
di Adamo, figlio di Dio», come dicono
gli ultimi anelli dell’ascesa nei secoli
fatta da Luca (3,38). La rilevanza di Cristo,
quindi, non è destinata solo al popolo
ebraico, ma si stende universalmente
anche sulla storia umana, al di
là del percorso all’interno del tempo di
un popolo preciso, come è Israele.
Una
nota curiosa riguarda l’eventuale nonno
“ufficiale” di Gesù.
Se, infatti, leggiamo la sequenza di Matteo,
abbiamo il nome di un certo Giacobbe
(«Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo
di Maria»); Luca, invece, ci presenta un Eli
non meglio noto («Giuseppe, figlio di
Eli»).
Il bisnonno è, però, comune a entrambe
le genealogie, sia pure con una
lieve variante di nome: Mattan per Matteo
(1,15), Mattat per Luca (3,24). Diversità
e coincidenze che confermano la fluidità
storica di questo e di altri alberi genealogici
offerti dalla Bibbia.
Pubblicato il 10 gennaio 2013 - Commenti (3)
18 ott
Trasfigurazione di Giovanni Battista Paggi (1554-1627). Firenze, San Marco.
"In verità io vi dico:
vi sono alcuni,
qui presenti,
che non morranno
prima di aver
visto giungere
il regno di Dio
nella sua potenza".
(Marco 9,1)
Frase a prima vista sconcertante,
questa, per quel rimando alla generazione
contemporanea di Gesù
che sarebbe spettatrice o della venuta
del regno di Dio (così nel passo qui citato
di Marco 9,1 e in Luca 9,27) o del «Figlio
dell’uomo che viene nel suo regno
», secondo la variante di Matteo
(16,28). Fermo restando che gli evangelisti
spesso riprendono le parole di Gesù
Cristo incarnandole nel contesto ecclesiale
in cui essi sono immersi, sorge
spontanea una domanda: cosa s’attendevano
di vedere quei primi cristiani
durante la loro vita terrena?
Le risposte date dagli esegeti sono diverse:
Gesù allude alla successiva epifania
gloriosa della sua trasfigurazione
oppure alla sua risurrezione, o ancora
alla distruzione di Gerusalemme del 70,
tutti segni espliciti e “visibili” della venuta
del regno di Dio nella storia. In
realtà, il centro della questione è in
quel «regno di Dio», uno dei temi portanti
della predicazione di Gesù, da lui
desunto dall’Antico Testamento e sviluppato
in modo originale. Si tratta di
una metafora per descrivere il progetto
trascendente ed eterno di Dio nei confronti
della storia umana. Cristo afferma
di essere venuto a rivelarlo e a metterlo
in opera.
Ora, poiché il regno è una realtà eterna,
voluta da Dio per trasformare l’essere,
è in sé “puntuale”, è già “ora” e sempre;
tuttavia, esso si insedia visibilmente
nella storia che è fatta di uno sviluppo,
di un “prima” e di un “poi” e, quindi,
avrà diverse fasi di attuazione.
L’azione di Cristo rende presente il regno
di Dio già da adesso: «Se io scaccio i
demoni per virtù dello Spirito di Dio, è
certo giunto tra voi il regno di Dio»
(Matteo 12,28); «il regno di Dio non viene
in modo da attrarre l’attenzione e
nessuno può dire: “Eccolo qui, o eccolo
là!”. Perché il regno di Dio è in mezzo a
voi» (Luca 17,21).
Eppure, il regno dei cieli è una realtà
che dovrà innervare il futuro e, quindi,
è ancora da attendere. Allora, la frase citata
di Gesù invita a riconoscere la presenza
del regno nella persona e nell’opera
di Cristo: la salvezza che egli compie
con le sue guarigioni e i suoi esorcismi
mostra che quel progetto salvifico è già
in azione e allarga i suoi confini sottraendo
spazio al Male. I contemporanei sono
invitati a scoprirne la presenza viva ed efficace
proprio nella figura di Gesù.
Tuttavia, non si deve immaginare
che Gesù pensi già a una sorta di fine
del mondo e alla sua venuta ultima e
definitiva già entro la sua generazione,
dopo la sua morte e risurrezione.
Ci sono, infatti, varie sue affermazioni
– soprattutto all’interno del cosiddetto
“discorso escatologico” (Matteo 24-25;
Marco 13; Luca 21) – ove a questo presente
s’intreccia il futuro della pienezza
non ancora compiuta nella sequenza
del tempo a cui noi tutti apparteniamo,
sia pure in epoche differenti.
In sintesi, il regno di Dio, essendo
eterno, abbraccia e supera il tempo e,
quindi, si svela in azione in modo forte
con Cristo, la sua opera, la sua parola e
la sua Pasqua durante quella generazione,
ma anche nelle successive. Esso, però,
si proietta nel futuro fino alla “pienezza
dei tempi”, quando il regno avrà
raggiunto la sua attuazione perfetta e
conclusiva.
Pubblicato il 18 ottobre 2012 - Commenti (2)
16 ago
Bacio di Giuda, copia del mosaico della basilica di San Marco, Venezia.
"Giuda si avvicinò
a Gesù e disse: «Salve, Rabbì».
E lo baciò.
Gesù gli disse:
«Amico, per
questo sei qui!».
(Matteo 26,49-50)
In quella notte fosca, nell’orto degli Ulivi,
detto in aramaico Getsemani (“frantoio per
olive”), s’avanza Giuda, il discepolo soprannominato
“Iscariota”, forse “uomo di Kariot”,
un villaggio meridionale della Terra
Santa, oppure – secondo le varie ipotesi interpretative
formulate dagli studiosi – deformazione
del termine latino sicarius, con cui i Romani
bollavano i ribelli al loro potere, o ancora
’ish-karja’, “uomo della falsità”, forse
un soprannome negativo assegnatogli successivamente.
Il celebre gesto del bacio che egli
compie è divenuto un emblema del tradimento,
e Gesù, secondo il Vangelo di Luca,
reagisce tristemente: «Giuda, con un bacio
tradisci il Figlio dell’uomo?» (22,48).
Matteo, invece, registra solo una reazione
secca da parte di Cristo. In greco si ha soltanto
ef’ ho párei, che significa: «Per questo sei
qui!», in pratica, «fa’ quello che hai deciso di
fare». Ma questa frase, simile a un soffio, è
introdotta da un amaro hetáire, “amico”.
L’evangelista, però, riferirà uno sbocco inatteso
di quel gesto, a distanza di poche ore da
questo scarno dialogo tra l’ex discepolo e il
suo Maestro: Giuda, infatti, restituito ai mandanti
il prezzo del tradimento, travolto dal rimorso,
s’impiccherà (27,5).
Forse egli aveva vissuto una delusione interiore
rispetto al sogno di diventare il seguace
del Messia politico liberatore dal potere
oppressivo imperiale e per questo aveva tradito,
ritrovandosi però alla fine interiormente
sconvolto.
Noi ora ci poniamo una domanda
più teologica. Se il tradimento era iscritto
nel disegno di Dio che comprendeva la morte
salvifica del Figlio, quale responsabilità
poteva ricadere su chi ne doveva essere lo
strumento di attuazione?
Non è forse vero
che Gesù aveva dichiarato che «nessuno [dei
discepoli] sarebbe andato perduto tranne il
figlio della perdizione, perché si adempisse
la Scrittura» (Giovanni 17,12)?
La questione è delicata: da un lato, c’è la libertà
efficace di Dio che opera nella storia e
nel mondo; d’altro lato, c’è la libertà della
persona umana di Giuda. Questa seconda libertà
è stata sollecitata in Giuda da Satana,
come aveva ribadito lo stesso Gesù: «Non ho
forse scelto io voi, i Dodici? Eppure uno di voi
è un diavolo!», si legge nel Vangelo di Giovanni
(6,70), e lo stesso evangelista nota che, dopo
l’ultima cena con Gesù nel Cenacolo, «Satana
entrò in Giuda...; il diavolo gli aveva messo
in cuore di tradire» (13,2.27). E aggiungerà
che alla base del tradimento c’era la cupidigia
del denaro (12,4-6). La volontà di Giuda
si era, quindi, esercitata liberamente, cedendo
alla tentazione diabolica.
Come, invece, si è manifestata la libertà
di Dio, espressa nella frase «perché si adempisse
la Scrittura» usata da Gesù per collocare
l’evento del tradimento in un altro disegno
superiore? Questa formula vuole semplicemente
indicare che anche la libertà
umana con le sue follie e vergogne può essere
inserita in un disegno divino superiore.
Giuda opta coscientemente e responsabilmente
per il tradimento aderendo a Satana,
e Dio inserisce questo atto umano infame
nel suo progetto libero ed efficace di redenzione.
Dio non è, quindi, preso in contropiede
dalla scelta del traditore; egli la rispetta e
non la blocca, ma la riconduce all’interno
del disegno salvifico che si attuerà proprio
con la morte di Cristo.
Pubblicato il 16 agosto 2012 - Commenti (2)
09 ago
Giudizio Finale (1289-93), particolare dei serafini, affresco di Pietro Cavallini (1240 ca.-1320 ca.). Roma, Santa Cecilia in Trastevere.
"Quanto a quel
giorno e a
quell'ora
nessuno lo sa, né
gli angeli
del cielo, né il
Figlio ma solo
il Padre".
(Matteo 24,36)
Partiamo da una domanda iniziale che i
discepoli rivolgono a Gesù. Egli, sostando
davanti al monumentale tempio gerosolimitano
eretto da Erode, aveva annunziato
la futura rovina di quell’edificio.
I discepoli,
allora, gli avevano chiesto: «Di’ a noi
quando accadranno queste cose e quale sarà
il segno della tua venuta e della fine del mondo
» (Matteo 24,3). È evidente che, nel loro quesito,
essi intrecciano eventi diversi tra loro: la
distruzione del tempio da parte dei Romani
nel 70, la nuova venuta di Cristo giudice della
storia e la fine del mondo. Si concentrano qui
alcuni interrogativi che hanno tormentato la
Chiesa delle origini e che hanno vari riflessi
nel Nuovo Testamento (si leggano, ad esempio,
le Lettere di Paolo ai Tessalonicesi o il libro
dell’Apocalisse o la Seconda Lettera di Pietro
nella finale del cap. 3 e così via).
Queste domande sono usate da Matteo come
cornice per il cosiddetto “discorso escatologico”,
il quinto e ultimo intervento ampio
di Gesù, presente nei capp. 24-25 di quel Vangelo.
Il termine “escatologico” è di matrice
greca e indica le “realtà ultime”, cioè la fine
della storia, ma anche il fine di tutto l’essere.
Non si tratta, infatti, di una dissoluzione
nel nulla ma di una redenzione, di una salvezza,
di una nuova creazione («cielo nuovo
e terra nuova», Apocalisse 21,1), comprendente
il giudizio divino discriminante tra bene e
male (si legga Matteo 25,31-46, una pagina
memorabile che vede Cristo protagonista di
questo atto ultimo della storia umana).
Il discorso escatologico di Cristo non vuole
descrivere i fenomeni fisici o gli eventi terminali
che sigleranno la fine del mondo, anche se in
apparenza le immagini usate sembrano inclinare
in questa linea.
In realtà, si tratta di simboli
desunti da una letteratura popolare nel
giudaismo di quei secoli, presente anche
nella Bibbia col libro di Daniele, e denominata
“apocalittica”. Il termine di genesi greca designa
una “rivelazione” (si pensi all’Apocalisse
di Giovanni): essa ha come meta l’apertura simbolica
del sipario sul destino ultimo dell’essere
e dell’esistere. Proprio perché essa si affaccia su
un ignoto tenebroso, questa letteratura ama segni,
visioni, scene che recano impresse sensazioni
di terrore o di indecifrabilità.
Cristo ricorre a questo apparato non per
elaborare previsioni su quell’evento estremo,
bensì per creare tensione e impegno
nei confronti del regno di Dio, già inaugurato
con la sua venuta ma destinato a raggiungere
una meta di pienezza futura, un po’ come
aveva fatto balenare nella parabola del
granello di senape che cresce fino a diventare
un albero (Matteo 13,31-32).
In questa luce
si comprende la frase sorprendente che abbiamo
ritagliato da quel discorso. A Gesù poco
interessa fare oroscopi sulla fine del mondo
oppure sugli antefatti storici: essi sono certamente
inseriti nel piano salvifico divino.
Egli, invece, nella sua esistenza storica e
umana si interessa solo di ciò che riguarda
la sua missione, ossia instaurare le basi del
regno di Dio, un progetto di salvezza, di liberazione,
di amore che fiorirà pienamente in
quell’eternità, destinata a subentrare «a
quel giorno e a quell’ora» della fine che il
Padre celeste ha disegnato nel suo piano generale
di creazione e di redenzione. In questa
frase di Gesù brilla, quindi, la sua umanità
reale e non fittizia.
La divinità, alla quale
egli partecipa come Figlio di Dio, sarà invece
svelata nella sua risurrezione e nel suo ritorno
al Padre.
Pubblicato il 09 agosto 2012 - Commenti (0)
19 lug
Francesco Traini (secolo XIV), Giudizio finale, particolare con angelo e beato. Pisa, Camposanto.
"Amico, come mai
sei entrato qui senza
l’abito nuziale?...
Legatelo mani e piedi
e gettatelo fuori
nelle tenebre!"
(Matteo 16,23)
Le varie parabole di Gesù attingono
sempre alla vita sociale di un popolo.
Nel caso del banchetto nuziale
regale (Matteo 22,1-14) si fa riferimento
a un evento che, anche ai nostri giorni,
stimola l’interesse della comunicazione
e la curiosità della gente. Gesù, elaborando
un simile avvenimento, lo colora
di allusioni allegoriche modulate anche
sulla tradizione biblica: il re evoca
Dio, mentre suo figlio si trasfigura nel
Messia e il banchetto nuziale diventa
la grande celebrazione della festosa
era messianica (si legga Isaia 25,6-10);
nei servi inviati a convocare gli invitati
sono riconoscibili i profeti e gli apostoli;
gli invitati della prima cernita che si
comportano in modo così altezzoso e
fin aggressivo incarnano l’Israele peccatore
e i Giudei che rigettano Cristo; i
chiamati raccolti per le strade rimandano
ai pagani lieti di essere ammessi in
quel banchetto privilegiato, mentre la
città dei ribelli data alle fiamme è l’anticipazione
della rovina di Gerusalemme
del 70 dopo Cristo.
Rimane, però, un’altra scena piuttosto
sconcertante, introdotta solo da Matteo.
Alcuni studiosi pensano persino
che si tratti di un’altra parabola “incollata”
a quella del banchetto nuziale che è
nota anche a Luca (14,16-24). La prospettiva
sembra diversa e più universale:
siamo di fronte al giudizio finale ove
si consumerà una divisione netta, simile
a quella tra grano e zizzania di un’altra
nota parabola matteana (13,24-30).
È da questa seconda parte del racconto
che noi abbiamo desunto l’elemento
centrale piuttosto sconcertante, che vede
come protagonista un uomo senza
l’abito da cerimonia.
La perplessità che proviamo è spontanea:
una condanna così aspra è giustificata
da una semplice mancanza di etichetta?
Evidentemente no. Bisogna risalire
al simbolismo, diffuso in tutte le
culture, della veste. Essa non ha solo
funzioni concrete nei confronti del clima
o di decenza riguardo al pubblico,
ma rivela anche un aspetto emblematico,
estetico e sociale (si pensi solo alla
funzione fin esasperata della moda ai
nostri giorni). Anzi, l’abito da cerimonia
è spesso indizio di una dignità civile
o religiosa: è ciò che accade per i paramenti
sacerdotali, la corona e lo scettro
reale, la fascia del sindaco e così
via, tant’è vero che per indicare l’accesso
a una carica pubblica parliamo di
“investitura”.
È chiaro, allora, che l’assenza di abito
nuziale nel protagonista di questo secondo
racconto è indizio ben più grave di
una semplice carenza di educazione. È la
privazione di quelle opere e qualità
morali che possono ammettere al Regno
di Dio e al suo banchetto. Non è
sufficiente la vocazione a un compito (“i
chiamati”), bisogna anche adempierlo
con fedeltà e impegno così da diventare
“eletti”, cioè ammessi alla festa finale.
Fede e opere di giustizia devono unirsi
nell’esistenza, perché «non chiunque
dice: “Signore, Signore!” entrerà nel regno
dei cieli, ma colui che fa la volontà
del Padre che è nei cieli» (Matteo 7,21).
Altrimenti si è votati alle tenebre della
condanna infernale, lontani dal banchetto
del Regno di Dio. Là si avrà «pianto e
stridore di denti», un’immagine quest’ultima
non solo di freddo, come si ha nel
mondo classico e come suppone l’oscurità
con l’assenza del sole, ma anche di terrore
e di disperazione.
Pubblicato il 19 luglio 2012 - Commenti (2)
21 giu
Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553), Donna sorpresa in adulterio, 1532. Budapest, Museo di Belle Arti.
"Io vi dico: chiunque
ripudia la propria moglie,
se non in caso di pornéia,
e ne sposa un’altra,
commette adulterio".
(Matteo 19,9)
Eccoci di fronte a un passo che ha suscitato una valanga di interpretazioni e commenti e che ha creato una divaricazione persino all’interno delle stesse Chiese cristiane. Facciamo
subito due premesse. La prima è estrinseca. Il testo ricorre anche in una delle sei “antitesi” che Matteo colloca nel Discorso della Montagna. In esse si illustra non tanto il superamento, ma la pienezza che Cristo vuole far emergere dal dettato biblico. Sul ripudio matrimoniale egli affermava, citando il versetto del Deuteronomio (24,1) sul divorzio: «Fu detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie – eccetto il caso di pornéia – la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio» (5,32).
La seconda premessa riguarda il contesto del nostro passo (19,1-9). In esso Gesù, provocato dai suoi interlocutori che lo volevano mettere in contraddizione con la norma sulla liceità
del divorzio «per una qualsiasi mancanza», come si affermava nel Deuteronomio, risale alla Genesi che dichiara l’uomo e la donna destinati a diventare «una sola carne» (2,24). Questo è il progetto divino sulla coppia al quale Cristo si allinea, per cui «l’uomo non deve dividere ciò che Dio ha congiunto» (Matteo 19,6). Quella del Deuteronomio è, dunque, un’eccezione concessa «per la durezza del vostro cuore» (19,8). Gesù, quindi, propone nella sua visione del matrimonio il modello dell’indissolubilità.
Ma a questo punto come spiegare l’inciso – da noi lasciato con il termine greco pornéia – che presenta un’eccezione? È probabile che qui si sia di fronte a un elemento redazionale introdotto da Matteo per giustificare una prassi in vigore nella comunità giudeo-cristiana delle origini. Sarebbe, quindi, una sorta di norma ecclesiale locale che veniva incontro alla domanda rabbinica sull’interpretazione della clausola del Deuteronomio concernente il caso del divorzio «per una qualsiasi mancanza». Nell’ebraismo si confrontavano due scuole teologiche, l’una più “liberale”, incline a concedere un largo raggio di casi di divorzio (rabbí Hillel), un’altra più restrittiva e orientata ad ammettere solo l’adulterio come giustificazione per il divorzio.
Quale sarebbe, allora, l’eccezione riconosciuta dalla Chiesa giudeo-cristiana ed espressa con il vocabolo greco pornéia? Non può essere, come si traduceva in passato, il “concubinato” non essendo esso un matrimonio in senso autentico, né una generica “fornicazione”, cioè l’adulterio, perché in questo caso si sarebbe usato il termine proprio moichéia. Tra l’altro, è interessante notare che alcune opere dei primi tempi
cristiani – come Il pastore di Erma (IV,1,4-8) – e autori come Clemente di Alessandria (Stromata 2,23) dichiarano che il marito che lascia la sposa adultera non può risposarsi perché permane il precedente legame matrimoniale.
Nel giudaismo del tempo esisteva un termine, zenût, equivalente alla pornéia matteana (“prostituzione”) che indicava tecnicamente le unioni illegittime come quella tra un uomo e la sua matrigna, condannata già dal libro biblico del Levitico (18,8;20,11) e dallo stesso san Paolo (1Corinzi 5,1). In pratica, anche se non era in uso allora questa fattispecie giuridica, si tratterebbe di una dichiarazione di nullità del matrimonio contratto, linea seguita dalla Chiesa cattolica sui casi di nullità del vincolo matrimoniale precedente. Sappiamo, però, che le Chiese ortodosse e protestanti hanno interpretato l’eccezione della pornéia come adulterio e, perciò, hanno ammesso il divorzio, sia pure limitandolo a questo caso. In realtà, la visione di Cristo sul matrimonio era netta e radicale, nello spirito di una cosciente, piena e indissolubile donazione reciproca.
Pubblicato il 21 giugno 2012 - Commenti (3)
12 apr
Liberazione di una indemoniata (sec. XV) del Maestro di San Severino. Firenze, Museo Horne.
"I Chi non è con me
è contro di me."
(Matteo 12,30)
"Chi non è
contro di noi
è per noi"
(Marco 9,40)
Abbiamo appaiato due frasi di Gesù
apparentemente contraddittorie.
Da un lato, c’è la frase riferita da
Matteo e ripetuta anche da Luca (11,23)
che sembra presentare un Gesù integralista,
e per derivazione una Chiesa gelosa
della sua esclusività nel possedere la verità
e la salvezza (il famoso detto Extra ecclesiam
nulla salus, fuori della Chiesa
non c’è salvezza). D’altro lato, Marco raffigurerebbe,
invece, un Gesù più “ecumenico”,
aperto ai semi di verità che sono
diffusi in tutta l’umanità. In realtà, l’antitesi
si scioglie se si tiene presente il
differente contesto in cui queste frasi
sono state pronunciate da Gesù.
Partiamo dall’evento che origina la
battuta di Gesù in Matteo e Luca. Come
abbiamo illustrato in una precedente
analisi del passo di Matteo 12,22-29, siamo
di fronte a un dibattito con i farisei
riguardo al tema della lotta contro Satana.
È ovvio che in questa battaglia non
si possono concedere attenuanti o accordi:
il male deve vederci schierati in un
duello e chi non sta dalla parte del bene
è da considerarsi come un avversario.
Chi non è con Cristo in questa lotta
è contro di lui.
Diverso è il caso che fa da cornice alla
frase riferita da Marco. L’apostolo Giovanni
segnala a Gesù un esorcista estraneo
alla comunità cristiana che opera contro
il male satanico nel nome di Cristo, senza
che egli appartenga alla cerchia dei discepoli.
Giovanni l’aveva abbordato e, con
un tipico atteggiamento di autodifesa segnato
da un pizzico di chiusura e di gelosia
di stampo integralistico, l’aveva minacciato:
«Noi glielo abbiamo vietato perché
non era dei nostri» (Marco 9,38).
A questo punto Gesù reagisce proprio
con una dichiarazione di grande
apertura nei confronti del bene ovunque
si manifesti, frase citata dall’evangelista
Marco: «Chi non è contro di noi
è per noi». È curioso notare che questa
frase riflette un proverbio allora molto
diffuso: era usato anche nel mondo romano,
come attesta Cicerone nella sua
arringa Pro Ligario (n. 33).
Si dissolve,
così, l’apparente contraddizione tra i
due detti che, in realtà, contengono entrambi
una loro verità.
Non si deve, comunque, dimenticare
un principio generale che abbiamo
spesso ribadito: le parole di Cristo sono
state conservate dagli evangelisti
non in modo letterale e meccanico, ma
come messaggi vivi da incarnare nelle
varie situazioni vissute dalle comunità
cristiane. Non ci si deve, perciò, impressionare
di fronte a varianti che impediscono
di far combaciare perfettamente
certe redazioni della stessa frase.
Diverso naturalmente è il nostro caso.
Qui, infatti, sono di scena due situazioni
profondamente diverse che meritavano
da parte di Gesù giudizi necessariamente
antitetici.
Pubblicato il 12 aprile 2012 - Commenti (3)
05 apr
Discesa al Limbo di Andrea Bonaiuti (1346-1379), particolare con i demoni. Firenze, Santa Maria Novella, Cappellone degli Spagnoli.
"I farisei dissero:
costui scaccia i demoni
per mezzo di Beeelzebul,
principe dei demoni!".
(Matteo 12,24)
Il nome esotico “Beelzebul” è entrato
nel linguaggio generale per indicare
qualcosa di orrido, che impaurisce i
bambini. La sua origine è piuttosto remota.
Dobbiamo, infatti, risalire ai Cananei,
la popolazione indigena della
terra d’Israele, ove questo nome significava
letteralmente “Baal il principe”.
Baal, che vuol dire “Signore”, era l’appellativo
della divinità della fecondità
e della vita.
Questo dio era il principe del pantheon
cananeo e aveva come simbolo il
toro, segno di fertilità (si ricordi la tentazione
di Israele nel deserto: rappresentare
Dio sotto l’immagine di un vitello-
toro d’oro). Siamo, quindi, in presenza
dell’idolo per eccellenza.
Successivamente, proprio per la sua
capacità di tentare il popolo ebraico
all’apostasia, fu considerato «il principe
o il capo dei demoni», come si intuisce
nell’accusa che i farisei scagliano contro
Gesù e che abbiamo proposto per la
nostra decifrazione dei passi più complessi
dei Vangeli. Dobbiamo anche segnalare
che nell’Antico Testamento si
ha la forma “Beelzebub” (2Re 1,2-3): essa
è una deformazione spregiativa che
letteralmente significa “Signore delle
mosche”, un titolo che è stato apposto a
un famoso romanzo pubblicato nel
1954 dallo scrittore britannico William
Golding (in inglese Lord of the Flies).
Ma ritorniamo al testo e al contesto di
Matteo (12,22-30).
Gesù è, dunque, accusato di essere in
combutta con Satana perché riesce a
controllare i demoni con i suoi esorcismi.
La sua replica è semplice e si sviluppa
in due direzioni. Da un lato, fa notare
che è ben assurdo un Satana così autolesionista,
pronto a combattere sé
stesso. Sarebbe simile a un regno o a
una città o a una famiglia in preda a lacerazioni
interne e votata alla rovina.
D’altra parte, Gesù osserva che anche
tra i farisei c’erano alcuni – da lui chiamati
loro “figli”, che nel linguaggio di
allora significava “adepti, discepoli” –
che compivano esorcismi. Anche questi
sono asserviti a Beelzebul?
Conclude la sua argomentazione indicando
il vero principio della sua opera
di liberazione dal male diabolico: «Se io
scaccio i demoni per mezzo dello Spirito
di Dio, allora è giunto a voi il regno di
Dio» (12,28). È la potenza divina che
opera in Cristo a vincere Satana, inaugurando
così il piano di salvezza del
Padre celeste. Dobbiamo aggiungere alla
scena che abbiamo ora descritto un’appendice
che è presente nel cosiddetto
“Discorso missionario” di Gesù. Là egli
afferma: «Un discepolo non è più grande
del suo maestro, né un servo è più grande
del suo signore; è sufficiente per il discepolo
diventare come il suo maestro e
per il servo come il suo signore. Se hanno
chiamato Beelzebul il padrone di casa,
quanto più quelli della sua famiglia!»
(Matteo 10,24-25).
La spiegazione, alla luce della scena
prima descritta, è facile. Anche i discepoli,
infatti, avevano ricevuto questo incarico
dal loro Signore: «Guarite gli infermi,
risuscitate i morti, purificate i lebbrosi,
scacciate i demoni!» (10,8). Ebbene, come
è stato trattato il loro Maestro e Signore,
così anche loro verranno accusati,
forse con più veemenza, di essere
al servizio di Satana-Beelzebul, mentre
anche la loro è una missione sostenuta
dallo Spirito divino liberatore per
l’estensione del regno di Dio.
Pubblicato il 05 aprile 2012 - Commenti (2)
02 feb
Gesù precipita Satana di Mattia Preti (1613-1699). Napoli, Museo di Capodimonte.
"Gesù fu condotto nel deserto dallo
Spirito per essere tentato dal diavolo".
(Matteo 4,1)
L’ultima tentazione di Cristo è il titolo di un romanzo che lo scrittore greco Nikos Kazantzakis pubblicò nel 1955 e che è divenuto famoso per la libera e provocatoria resa cinematografica eseguita nel 1988 dal regista americano Martin Scorsese. In realtà, la vera prima tentazione di Cristo è narrata dai Vangeli Sinottici agli esordi della sua missione pubblica: Marco (1,12-13) si affida a sole quattro frasi essenziali, mentre Matteo (4,1-11) e Luca (4,1-13) “sceneggiano” l’evento in un trittico di quadri che hanno come fondali il deserto, il punto più alto del tempio di Gerusalemme e un monte molto elevato. Ciò che imbarazza il lettore è proprio l’avvenimento in sé con questa strana sorta di trasferimento “aereo” che vede Gesù in balìa di Satana.
È indubbio che la tentazione sia stata un’esperienza storica reale narrata da Cristo stesso, perché difficilmente la comunità cristiana delle origini avrebbe inventato un simile episodio che vedeva il suo Signore alla mercé del diavolo che lo provocava. Gesù stesso probabilmente ha raccontato questa vicenda traumatica forse evocando tre luoghi diversi in cui egli la visse. In essa la tentazione si configurava come la proposta di imboccare vie alternative per la sua missione messianica rispetto a quella che il Padre gli aveva assegnato: la strada di un messianismo puramente sociale (i pani) o taumaturgico (il prodigio della caduta dal pinnacolo del tempio rimanendo illeso) o politico (i regni della terra).
Certo è che la narrazione crea sorpresa, perché Satana sembra esercitare un certo potere su Gesù, ma questo elemento sorprende di meno, se si riconduce la tentazione al suo significato primario. Essa è come una messa in opera della libertà umana, della sua capacità di decisione, di scelta, di volontà. Ora, si deve ribadire con forza che l’umanità di Gesù non è una vaga somiglianza a noi ma è una realtà genuina, e quindi deve comprendere il rischio della libertà che è specifico della creatura umana. Come Adamo è sotto l’albero della conoscenza del bene e del male, cioè sotto l’albero della scelta morale libera, sottoposto allo stimolo tentatore del serpente diabolico, così anche Gesù, vero uomo, è davanti a una libera opzione che riguarda la sua missione.
Egli, però, a differenza di Adamo, fondandosi sulla parola di Dio – che cita nelle sue risposte al demonio in una specie di dibattito teologico (anche il diavolo usa riferimenti a testi biblici) – sceglie di aderire al progetto divino in maniera totale, rigettando le alternative sataniche. Emerge, in tal modo, la figura non solo del nuovo e perfetto uomo-Adamo, ma anche quella del nuovo Israele che, diversamente dal popolo ebraico in marcia nel deserto, non cade nella rete diabolica della tentazione e diviene, così, un esempio per noi, uomini e donne, spesso coinvolti e travolti dalle prove morali. La persona di Cristo, infatti, si erge alla fine come colui che ha resistito al demonio con vigore e serenità, rimanendo fedele alla volontà del Padre celeste, «ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano» (Matteo 4,11).
Pubblicato il 02 febbraio 2012 - Commenti (2)
14 lug
James Sowerby (1740-1803): Brassica arvensis, pianta di senape selvatica.
"Il Regno dei cieli è simile a un grano di senape. E' il più piccolo di tutti i semi; eppure cresciuto, è più grande delle altre piante dell'orto, tanto che gli uccelli nidificano tra i suoi rami
(Matteo 13, 31-32)"
Senza ricorrere ai grossi manuali di botanica,
basta cercare su un qualsiasi
modesto dizionario la voce senapa e si
leggerà più o meno questa definizione: «Pianta
brassicacea, il cui seme minutissimo, di sapore
acuto, si macina per farne una mostarda
(la “senape”) e, in medicina, revulsivi (“senapismi”)
». Gesù tiene, quindi, nel palmo della
mano alcuni di questi grani neri minuti e davanti
a sé e ai suoi discepoli vede ergersi l’arbusto
alto e svettante di una senapa orientale,
molto più vigorosa della nostra, capace persino
di reggere un nido d’uccelli.
È una scena molto quotidiana e familiare
che si può immaginare ambientata in un viottolo
lungo il quale si allineano gli orti con le
loro modeste coltivazioni. Come sempre, Gesù
non veleggia – come fanno certi predicatori
– sopra le teste dei suoi ascoltatori, ma
parte dai loro piedi, ossia da quella terra sulla
quale sono piantati per condurre una vita
spesso disagiata e stentata, e da lì sa poi condurli
verso un orizzonte più elevato, di natura
religiosa e spirituale. Cerchiamo, dunque,
di cogliere questo movimento rivolto verso
l’infinito di Dio ma che parte da un vegetale
domestico.
Ci riferiremo, allora, all’interpretazione del
simbolismo sotteso a questa che è una delle
35 parabole narrate dai Vangeli (c’è chi ne conta
fino a 72, allargando però il concetto di “parabola”
anche a paragoni ampi, a frammenti
narrativi, a metafore espanse). Gli studiosi propongono
un’oscillazione tra due possibilità interpretative
che, a nostro avviso, riescono a
coesistere. Da un lato, il racconto esalta un
contrasto forte e fin provocatorio tra un
«più piccolo» e un «più grande»: tra le nostre
mani c’è questo seme minuto e davanti ai nostri
occhi un albero. Non si può ignorare la discontinuità,
la sorprendente differenza. Eppure
alla base sono la stessa realtà.
La lezione, ossia lo sguardo dell’anima che
sale verso il divino, cioè il Regno dei cieli, è
limpida e semplice. Il progetto di salvezza, di
pace, di amore, di verità e giustizia che Dio
vuole attuare nel mondo con Cristo e con chi
lo segue – tale è il senso della locuzione “Regno
dei cieli” – è apparentemente piccolo, fin
minuscolo, presente in un uomo umile come
Gesù di Nazaret e in un «piccolo gregge» di discepoli,
votati alla sconfitta in un confronto
con le potenze trionfali del male. Eppure la logica
del seme che diventa un albero vale anche
per il Regno e la parabola si trasforma in
un vero e proprio canto di fiducia e speranza
che spazza via gli scoraggiamenti, gli sconforti,
le frustrazioni e le delusioni.
D’altro lato, molti esegeti definiscono questo
racconto una “parabola di crescita”. L’elemento
fondamentale sarebbe proprio l’evoluzione
tra il seme e l’albero, il dinamismo efficace
che necessariamente fa esplodere l’energia
vitale del chicco di senapa e lo fa espandere
in modo sorprendente e inatteso. Si ha, così,
un altro sguardo verso l’alto, partendo da
quel semplice vegetale: è la celebrazione della
grazia divina che opera potentemente, superando
i limiti, gli ostacoli, le crisi. Come è evidente,
anche con questa interpretazione ritroviamo
la stessa lezione di fiducia e di serenità,
ma da un altro angolo di visuale.
Pubblicato il 14 luglio 2011 - Commenti (1)
23 giu
San Paolo, mosaico della volta, Ravenna, Arcivescovado.
"Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno."
(Filippesi 1,21)
Potrebbe essere assunto quasi come il
motto di san Paolo. Sono poche parole
che nell’originale greco suonano così:
emoì gàr tò zèn Christòs kaì tò apothaneìn kérdos.
Il contrasto “vita e morte”, classico in tutte
le culture, viene dissolto perché il morire
non s’affaccia sul baratro del nulla: chi vi approda,
infatti, porta nella sua persona e nella
sua esistenza Cristo che è Figlio di Dio e,
quindi, vivente per sempre nell’eternità divina.
Anzi, avviene qualcosa di paradossale:
proprio perché, varcata la soglia del tempo,
non si hanno più le turbolenze della storia,
le fragilità della creatura, le debolezze della
persona che possono incrinare quell’intimità
con Cristo già ora vissuta, il morire diventa
un “guadagno”.
Certo, qualche tensione permane, come l’Apostolo fa notare nelle righe che seguono: «Sono stretto fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo (il che sarebbe meglio); ma per voi [ossia per i cristiani di Filippi e per quelli delle altre Chiese] è più necessario che io rimanga nel corpo» (1,23-24). Detto con altre parole, Paolo anela alla vita piena, totale e assoluta col suo Signore oltre la morte, ma sa di avere una missione da compiere anche nella fase temporale della sua vicenda umana, cioè quella ecclesiale che Cristo stesso gli ha affidato. Infatti, l’Apostolo definisce il «vivere nel corpo» come un «lavorare con frutto» (1,22).
Nella frase che abbiamo scelto scopriamo un aspetto particolare di questo grande evangelizzatore, la sua dimensione mistica, il suo legame intimo e profondo con Cristo, la sua comunione stretta e radicata col mistero divino che diventa una sorgente di energia e di gioia per la sua missione apostolica. Ai Galati aveva già ribadito di essere «crocifisso con Cristo»; per questo «non vivo più io, ma Cristo vive in me» (2,19-20). Ritorna un tema caro a Paolo: il cristiano attraverso il Battesimo e la fede rivive in sé il mistero pasquale di Cristo, nel suo morire e risorgere. Leggiamo con attenzione queste righe scritte ai cristiani della città di Colossi, nell’attuale Turchia centrale: «Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Ma quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria» (3,3-4).
Una nota a margine. Sopra dicevamo che Paolo comprende la necessità che egli continui a vivere e a operare nel tempo per svolgere ulteriormente la sua missione apostolica nei confronti dei Filippesi. Ebbene, se è vero che l’intimità più alta e risolutiva è quella che unisce l’Apostolo a Cristo, è altrettanto vero che egli sente con questi cristiani – più che con gli altri – un’altra intimità, quella dell’amicizia. Questi fedeli, di un’importante città della Macedonia, lo coprono di regali, mentre egli è in custodia presso il «pretorio» (1,13) e la «casa di Cesare» (4,22), in pratica la prefettura romana di Efeso. La durezza del carcere, la solitudine e la lontananza sono lenite da un affetto che unisce, sia pure a distanza, i cuori.
Sebbene molti studiosi tendano a vedere in questa Lettera la fusione redazionale posteriore di tre missive diverse inviate da Paolo ai Filippesi, alla fine la tonalità dominante è unica. La comunione di fede e di carità che unisce mittente e destinatari è il filo segreto unitario, anche quando l’Apostolo deve mettere in guardia severamente contro le devianze dottrinali che stanno allignando a Filippi (3,2-4,1). «Sono ricolmo dei vostri doni che sono un profumo piacevole, un sacrificio gradito, caro a Dio» (4,18).
Pubblicato il 23 giugno 2011 - Commenti (1)
19 mag
Vaso, colombe e uva, mosaico in San Vitale a Ravenna
"Io sono la via, la verità, la vita.
Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me."
(Giovanni 14,6)
«Preso il boccone, Giuda subito uscì.
Ed era notte...». Su Gerusalemme,
dunque, si stende il velo delle tenebre
e Giuda, il traditore – dopo aver partecipato
a quell’ultima cena durante la quale
Gesù gli aveva espresso un estremo gesto di
attenzione offrendogli il “boccone dell’ospite”,
segno di cordialità –, s’avvia di corsa per
le strade deserte della città santa a consumare
il suo tradimento. In quella «grande sala,
arredata e già apparecchiata, al piano superiore
» di una casa gerosolimitana (Marco
14,15), era salito Gesù con i suoi discepoli. Là
aveva celebrato la cena pasquale e poi, uscito
Giuda, aveva iniziato a parlare.
Quella sarebbe stata l’ultima sera della sua vita terrena. Le sue parole, perciò, acquistavano il sapore di un testamento. Giovanni, l’evangelista, ha rielaborato quei discorsi secondo uno stile che è stato chiamato “a ondate” perché, come accade ai flutti della risacca sul litorale che ricoprono lo stesso spazio in forme sempre diverse, così i temi dominanti, la fede e l’amore, ritornano ripetutamente su sé stessi, ma costantemente con tonalità e sfumature differenti. Facciamo solo due citazioni. L’una è per la fede, che è comunione con Cristo: «Io sono la vera vite, voi i tralci. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da sé stesso, se non rimane nella vite, così anche voi, se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci» (Giovanni 15,1.4-5).
L’altra citazione è sull’amore: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così anche voi amatevi gli uni gli altri... Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (13,34; 15,12).
Ora, però, la nostra analisi si concentra sulla frase che abbiamo scelto e proposto. Gesù ha fatto balenare ai suoi amici ciò che lo attende, la morte e il successivo ingresso nell’orizzonte divino, promettendo che là avrebbe preparato un posto anche per loro. Tommaso, il “dubbioso”, gli obietta: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». E la risposta di Cristo è in quella potente affermazione che abbiamo citato. Essa si apre con quell’«Io sono» che vale molto di più di una semplice copula verbale perché, come spesso avviene nel quarto Vangelo (si legga, ad esempio, Giovanni 8,58), si rimanda alla solenne autopresentazione di Dio nel roveto ardente al Sinai: «Io sono colui che sono» (Esodo 3,14).
A quella premessa gloriosa si collegano tre titoli che s’inanellano tra loro. Infatti, Cristo è «la via» per raggiungere il Padre proprio perché è «la verità», ossia la rivelazione perfetta del mistero di Dio. Attraverso lui, perciò, «conoscerete la verità che vi farà liberi » (8,32). I nostri passi avanzeranno verso quell’orizzonte di luce, guidati dalla parola di Gesù che è «verità».
Ma egli è anche «la vita» che non perisce, l’essenza stessa di Dio, ed è per questo che, stando uniti a lui in pienezza – appunto come i tralci al tronco della vite – noi saremo ammessi all’intimità vitale con Dio, il Padre, Signore della vita. Mettiamoci, allora, sulla strada che egli ci rivela e, stretti a lui, raggiungeremo la luce eterna e divina: «Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (8,12).
Pubblicato il 19 maggio 2011 - Commenti (0)
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