24
set

Indemoniato o folle?

"Guarigione dell'ossesso", Sant'Apollinare Nuovo, Ravenna.
"Guarigione dell'ossesso", Sant'Apollinare Nuovo, Ravenna.

"Aveva dimora fra le
tombe e nessuno riusciva
a tenerlo legato, neanche
con catene... spezzava
le catene e spaccava
i ceppi e nessuno
riusciva a domarlo".


(Marco 5,3-4)

Siamo – stando al racconto di Marco (5,1-20) – sulla costa orientale del lago di Tiberiade «nella regione dei Geraseni» (Matteo parla, invece, di Gadara, a sud-est dello stesso lago). Ci troviamo nella Decapoli, area a prevalenza pagana e quindi “impura”. Ecco emergere questa figura terribile, una sorta di mostro che vive o in una necropoli, tra i morti, oppure sui monti desertici delle alture del Golan. Appare, così, un altro segno di “impurità” e negatività, la morte e il deserto. Quando Gesù interpella lo “spirito impuro” che travolge quest’uomo, costui risponde: «Mi chiamo Legione», un altro elemento negativo perché rimanda all’oppressione romana e al suo esercito.

Ma non è finita. Quando Gesù decide di liberare quest’uomo dagli “spiriti impuri”, essi domandano e ottengono di entrare in una mandria di porci là allevati, tipici animali “impuri” per la tradizione giudaica. A quel punto il branco «si precipita dal burrone nel mare, affogando uno dopo l’altro nel mare». Il mare (in questo caso il lago: il linguaggio biblico denomina con un unico termine le grandi distese d’acqua) è il simbolo del caos e del male. La sequenza negativa che regge le fila del racconto è, dunque, impressionante: Decapoli, pagani, sepolcri, monti desertici, spiriti immondi/impuri, Legione, porci, mare.

Sembra, quindi, di essere in presenza di una sorta di compendio del male del mondo, del demoniaco che avvelena la storia ma anche dell’idolatria, perché Isaia descrive così gli idolatri: «Abitano nei sepolcri, passano la notte in nascondigli, mangiano carne suina e cibi impuri... bruciano incenso sui morti e sui colli insultano il Signore» (65,4.7). Qual è, allora, il significato da assegnare a questa narrazione, sia nella sua realtà storica sia nel suo valore esemplare? Innanzitutto il ritratto, offerto dall’evangelista, di quello sventurato, lo delinea come un pazzo furioso: non si può legarlo perché reagisce brutalmente, è autolesionista perché si percuote con pietre, urla in modo sconclusionato giorno e notte. Una volta sanato da Gesù è, invece, tratteggiato come «seduto, vestito e sano di mente» (5,15).

Fin qui per quanto riguarda l’evento storico, ossia la guarigione di un malato mentale, così come Gesù sanerà un ragazzo epilettico, scendendo dal monte della Trasfigurazione (9,14-29). Ma qual è il valore ulteriore che l’evangelista assegna a questo fatto? La risposta deve tener conto proprio di tutti gli elementi negativi che abbiamo prima elencato e dell’antica convinzione di Israele, secondo cui le sindromi più gravi presupponevano una colpa personale o una possessione demoniaca. La vicenda, allora, diventa una narrazione esemplare per celebrare la vittoria di Cristo sul male in tutte le sue forme: egli è, infatti, riconosciuto come «Figlio del Dio altissimo» (5,7), trionfante sulle forze oscure, sia fisiche sia morali, che tormentano la storia umana.

Pubblicato il 24 settembre 2012 - Commenti (2)
17
set

«Così che non si convertano»

San Matteo evangelista, mosaico. Ravenna, basilica di Sant’Apollinare in Classe.
San Matteo evangelista, mosaico. Ravenna, basilica di Sant’Apollinare in Classe.

"Per quelli che
sono fuori tutto
avvienein parabole
affinchéguardino, sì,
ma non vedano,
ascoltino, sì, ma non
comprendano..."


(Marco 4,11-12)

«Così che non si convertano e venga loro perdonato!»: finisce con questa fosca clausola la frase che Gesù pronunzia nel Vangelo di Marco riguardo alla funzione delle parabole che egli sta raccontando. Paradossale è proprio questa definizione della finalità delle parabole, espressa con quell’“affinché” che indica appunto uno scopo da raggiungere. Forse che Gesù ha scelto l’uso del linguaggio parabolico, che è anche il suo modo più comune di insegnare, per offuscare la mente e il cuore del suo uditorio e impedirgli la conversione («così che non si convertano») e il relativo perdono dei peccati («e non venga loro perdonato»)? La frase, in verità, si basa su una citazione del profeta Isaia che, nel giorno della sua vocazione, aveva ricevuto questo monito: «Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendilo duro d’orecchi e acceca i loro occhi, e non veda con gli occhi, né oda con gli orecchi, né comprenda col cuore, né si converta così da essere guarito!» (6,10).

Dobbiamo proprio partire da questa citazione per comprendere le dure parole di Cristo che sembrerebbero smentire la finalità salvifica della sua predicazione. È chiaro il contenuto dell’appello rivolto a Isaia: egli si scontrerà con il rigetto degli Israeliti, un fenomeno scontato e ben noto ai profeti. Ebbene, quegli imperativi sono in realtà equivalenti a indicativi: si adotta questa forma per mostrare quale sarà il risultato della predicazione profetica, che Dio certamente non vuole, ma che gli è già nota ed è inserita nel suo disegno di salvezza. Questo progetto salvifico, però, continuerà lo stesso e si attuerà giudicando il peccato e l’indurimento del cuore e salvando chi si convertirà e compirà il bene.

L’imperativo non è, quindi, un invito a operare in quella linea negativa, bensì è un modo per rappresentare in forma efficace che neanche il male sfugge al piano divino, che non esiste una divinità negativa che si oppone all’unico Signore, come insegnava il dualismo religioso (Dio del bene contro il dio del male), che la libertà umana con le sue scelte perverse non è ignota al Creatore e non frustra la sua volontà di salvezza. Nello stesso libro di Isaia si giunge al punto di porre anche il male sotto il comando divino: «Sono io che formo la luce e le tenebre, faccio il bene e provoco il male» (45,7). Con questa frase così aspra si vuole soltanto ricordare che nulla sfugge all’onnipotenza del Signore; anche il male e il peccato possono essere inquadrati nel suo grande disegno sull’essere e sull’esistere.

Gesù cita, dunque, questa tesi importante formulata nello scritto isaiano e quella “finalità” («affinché...») è di tipo “scritturistico”, cioè equivale alla tradizionale espressione «affinché si adempia la Scrittura che dice...». L’evangelista ne condivide con Gesù (che rimanda a Isaia) il contenuto: le parabole, che dovrebbero essere un luminoso esempio di rivelazione, diventano un elemento di ostinazione contro Cristo. Questo, però, non deve impressionare, perché Dio – che sa anche dal male trarre un bene – continuerà lo stesso a compiere l’insediamento del suo Regno. È interessante vedere come Matteo abbia riletto questa frase di Isaia e di Gesù sostituendo alla finale («affinché...») una causale più immediata e chiara («perché...»). Il messaggio in parabole di Gesù non è accolto «perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri d’orecchi, hanno chiuso gli occhi...» (Matteo 13,15).

Pubblicato il 17 settembre 2012 - Commenti (4)
10
set

Cristo liberatore e lo "spirito impuro"

Liberazione di un indemoniato, ex voto. Cesena, Madonna del Monte.
Liberazione di un indemoniato, ex voto. Cesena, Madonna del Monte.

"Nella sinagoga
vi era un uomo
posseduto da uno
spirito impuro.
Cominciò
a gridare:
«Che vuoi da noi,
Gesù Nazareno?
Io so chi tu sei:
il Santo di Dio!»"


(Marco 1,23-24)

Siamo nella cosiddetta “giornata di Cafarnao”: nell’arco di un giorno e nello spazio di questa cittadina che s’affaccia sul lago di Tiberiade, Gesù compie una serie di atti miracolosi. Uno di questi eventi si svolge nella sinagoga locale (quella che Giovanni inserì come fondale per il celebre discorso di Gesù sul “pane di vita”): all’improvviso una persona si alza nell’assemblea, mentre Gesù sta insegnando con grande autorità, e gli si scaglia contro interpellandolo e apostrofandolo (Marco 1,21-26). Chi travolge quest’uomo apparentemente normale, facendone un avversario di Cristo?

In lui agisce un’inattesa presenza specifica, sollecitata dalla parallela presenza di Gesù. È una presenza vitale e personale che interloquisce con Cristo, paradossalmente riconoscendolo come «Santo di Dio», rivelandosi quindi come dotata di una trascendenza e di un’origine divina. Si ha, perciò, un’epifania di Satana il quale sa di avere come avversario Dio stesso, presente e operante in Gesù Cristo. Non possiamo qui ridurre l’evento a una guarigione da una malattia grave, come la demenza (Marco 5,1-20) o l’epilessia (9,14-29), casi che in seguito considereremo e rubricati dagli evangelisti come possessioni diaboliche.

Sappiamo, infatti, che nell’antico Vicino Oriente si era inclini a porre sotto l’insegna del demoniaco tutto il negativo della storia: le malattie fisiche, le devianze psichiche, gli influssi sociali nefasti, il peccato personale, il male in generale. Qui, invece, si ha una presenza personale specifica; è l’incontro con un essere misterioso che si erge contro Cristo dichiarandosi suo avversario; con lui Gesù ingaggia un duello che si risolve con un comando efficace e salvatore: «Esci da quest’uomo!». E, in finale, l’urlo che si ode rappresenta il grido di sconfitta di Satana. La salvezza non viene da formule e gesti esoterici, da filtri o pozioni magiche, ma solo da un ordine autorevole e operativo di Cristo.

Al centro di questo racconto non c’è, quindi, lo “spirito impuro”, il diavolo, ma Cristo liberatore dal male. Il cristianesimo rigetta ogni forma di dualismo che veda come arbitri della storia e dell’essere due divinità antitetiche: il demonio non è il principio del male che combatte il principio divino del bene. Satana (in ebraico “avversario”) è inferiore a Dio ed è da lui controllato e dominato. Anche se, dunque, la sua presenza dev’essere ridimensionata, il diavolo (in greco, “colui che divide”) è un essere personale che agisce con forza. Certo, l’uso del termine “persona” è per lui un po’ improprio, perché si tratta di un concetto positivo, usato anche per Dio (ad esempio, le tre “persone” della Trinità).

Satana è, invece, l’antitesi di Dio, nel quale l’essere persona è pienezza assoluta; è l’antitesi anche dell’uomo, la cui persona dovrebbe essere segno di intimità, di donazione, di amore. Lo scrittore francese agnostico André Gide scriveva: «Se il diavolo potesse, direbbe: Io sono colui che non sono». E curiosamente lo stesso autore concludeva: «Non credo nel diavolo; ma è proprio quello che il diavolo spera: che non si creda in lui». A lui farà eco Giovanni Papini quando diceva che «l’ultima astuzia del diavolo fu quella di spargere la voce della sua morte».

Pubblicato il 10 settembre 2012 - Commenti (2)

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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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