25 gen
Nazareth di Maurice Denis, (1870-1943). Vaticano, Collezione d’arte religiosa moderna
"Andò ad abitare in una città chiamata
Nazaret, perchè si adempisse il detto
dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno»".
(Matteo 2,23)
A chi non ha una grande assuefazione con i testi biblici questo versetto non crea nessuna difficoltà: il nome Nazareno è diventato talmente popolare da essere accolto senza esitazione come la denominazione topografica di Gesù, che era vissuto a lungo appunto a Nazaret. Eppure la connessione – almeno come ce la presenta Matteo – non è così scontata. Innanzitutto segnaliamo il fatto che nell’originale abbiamo letteralmente Nazoraios, “Nazoreo”, che non è propriamente “Nazareno”, in greco Nazarenos, usato da Marco e Luca e più noto. In verità, entrambe le forme potrebbero rimandare all’aggettivo aramaico nazraya, che designava un abitante di Nazrat, cioè Nazaret.
Ma il vero nodo aggrovigliato è in quella premessa matteana: «Perché si adempisse il detto dei profeti». Si tratta di una formula molto cara all’evangelista, che la usa ben dieci volte per raccordare la figura di Gesù all’Antico Testamento, così che essa abbia una continuità nella storia della salvezza, la quale sboccia nella “pienezza” di Cristo: il verbo greco, infatti, pleroun, da noi tradotto con “adempiere”, designa di per sé un “giungere a pienezza”. Tra l’altro, le citazioni esplicite dell’Antico Testamento che Matteo collega alla persona o agli atti o alle parole di Gesù sono almeno 63, rivelando quindi il legame intimo tra Cristo e le Scritture ebraiche.
Ecco, però, il problema che sfugge a chi ha poca familiarità con la Bibbia: dove mai nell’Antico Testamento si cita Nazaret? La risposta è totalmente negativa. Quindi, Matteo o commette un errore, oppure ricorre a un inganno apologetico per dare alla figura di Gesù un’altra e puntuale attestazione di dignità messianica biblica. In realtà, una spiegazione c’è anche se, come vedremo, si sfrangia in varie ramificazioni difficili da selezionare. È, infatti, ben documentata la prassi giudaica secondo la quale le connessioni con i testi sacri avvenivano spesso in modo libero e creativo, soprattutto per assonanza. Matteo, che si rivela molto addentro all’uso didattico degli scribi ebrei del suo tempo, ha probabilmente imboccato questa via per esaltare la figura di Gesù in una dimensione che rivestiva storicamente un certo rilievo, ma che non aveva nessun ponte diretto con i testi profetici.
Quale potrebbe essere, allora, l’allusione biblica evocata attraverso termini dal suono affine alla parola “Nazaret” che permetterebbero a Matteo di gettare quel ponte simbolico con l’Antico Testamento? Le risposte degli studiosi a questo punto si ramificano. C’è chi pensa a un’assonanza con la parola nazîr, donde il nostro “nazireo”: si trattava della persona “consacrata” a Dio che s’impegnava in alcuni voti descritti nel c. 6 del libro dei Numeri, come l’astinenza da bevande alcoliche e il non radersi la capigliatura. In questa categoria sono collocati dalla Bibbia personaggi come il giudice Sansone (Giudici 13), il profeta Samuele (1Samuele 1,11) e lo stesso Giovanni Battista (Luca 1,15). Cristo è il “consacrato” per eccellenza, colui che in pienezza compie la volontà del Padre, e l’eco di questa sua consacrazione Matteo la sente nel nome di Nazaret.
Alcuni studiosi rimandano, invece, a nezer, il “germoglio” che – secondo il profeta Isaia (11,1) – spunta dal tronco arido della dinastia davidica: questo simbolo diverrà non solo l’emblema, ma quasi il nome simbolico del Messia che il Signore nel libro del profeta Zaccaria chiama «il mio servo Germoglio» (3,8; 6,12). Altri sentono in quel Nazoreo/Nazareno il ricorrere del verbo nazar, “conservare”, che ha dato origine a un termine (nazûr), il “resto”, con cui Isaia definiva la comunità ristretta dei veri fedeli che rimanevano tali anche nel tempo della prova e dei quali Cristo sarebbe il vessillo. Sono, quindi, molte le spiegazioni dell’assonanza biblica che Matteo dichiara con il nome “Nazaret” ignoto alle Scritture.
Pubblicato il 25 gennaio 2012 - Commenti (2)
19 gen
Nazareth di Georges Rouault (1871-1958). Vaticano, Collezione d’arte religiosa moderna.
"Giuseppe non conobbe Maria finchè ella
generò un figlio ed egli lo chiamò Gesù".
(Matteo 1,25)
Abbiamo voluto tradurre alla lettera questo versetto di Matteo, introducendo solo la specificazione dei nomi dei protagonisti, cioè la coppia Giuseppe e Maria di Nazaret. Nel nostro viaggio all’interno dei versetti difficili del Vangelo, è indubbio che una simile versione crei qualche reazione soprattutto nel lettore cattolico. Procediamo per ordine. Innanzitutto dobbiamo precisare il valore del verbo “conoscere” che qui è adottato nel significato della sua matrice ebraica, nonostante si usi ovviamente il verbo greco ghinóskein. Nella cultura classica il termine indicava la conoscenza intellettuale, razionale e spirituale. Ben diverso è il concetto biblico del “conoscere”, in ebraico jada’.
Esso presuppone una realtà ben più complessa e variegata che coinvolge, certo, la mente, ma anche la volontà, la passione, il sentimento e persino l’azione. Anche la psicologia moderna preferisce questa visione più completa del conoscere umano che implica l’aspetto intellettivo, volitivo, affettivo ed effettivo. In questa luce il verbo era divenuto un eufemismo per designare l’atto d’amore, perché si supponeva che esso dovesse coinvolgere la totalità dell’essere, dell’agire e del pensare di una persona (cosa che, purtroppo, non accade ai nostri giorni, segnati dal mero “consumare” l’atto sessuale).
Risolto il primo intoppo, eccoci all’altro ben più rilevante. La frase greca parla di una castità dei due sposi “finché” Maria diede alla luce un figlio. Ora in italiano quando si dice che una cosa non succede “fino a” un certo tempo, si suppone che di solito abbia luogo dopo: Giuseppe, allora, non ha avuto rapporti matrimoniali con Maria fino alla nascita di Gesù, ma in seguito avrebbe potuto averli. Entrerebbe, così, in crisi una delle componenti tradizionali della mariologia, la verginità costante della madre di Cristo, professata ripetutamente nei testi liturgici e dogmatici, e renderebbe “i fratelli e le sorelle” di Gesù veri e propri parenti carnali diretti (argomento sul quale ritorneremo in futuro).
In realtà, la frase in questione non è così immediata come suppone la nostra lingua. Infatti, in greco e nelle lingue semitiche con quella formula si vuole mettere l’accento solo su ciò che avviene fino alla scadenza di quel “finché…”: Giuseppe non ebbe rapporti con Maria, eppure nacque Gesù. Non ci si interessa di ciò che succederà in seguito. Quindi, di per sé non verrebbe intaccata la questione teologica della verginità permanente di Maria, questione che peraltro ebbe un dibattito molto acceso negli stessi primi secoli cristiani, come è attestato ad esempio da alcuni scritti molto polemici di san Girolamo (IV secolo).
A questo punto possiamo comprendere la legittimità della traduzione che del versetto matteano viene offerta dalla Bibbia della Conferenza episcopale italiana, usata ufficialmente nella liturgia: «Giuseppe... prese con sé la sua sposa: senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù». La resa è corretta e puntuale secondo il valore del testo originario. Né può essere allegato un altro versetto di Luca: «Diede alla luce il suo figlio primogenito » (2,7). La qualifica di “primogenito” ha un valore strettamente giuridico, perché accentua la dignità e i diritti di quel neonato. Dalla Bibbia sappiamo quanto rilevante fosse questa prerogativa: si ricordi la diatriba durissima tra Esaù e Giacobbe proprio riguardo al diritto della primogenitura, come si legge nella Genesi (cc. 25 e 27). È curioso notare che un testo aramaico della fine del I secolo evoca una madre (anch’essa di nome Maria) che morì «dando alla luce il suo figlio primogenito»...!
Pubblicato il 19 gennaio 2012 - Commenti (3)
12 gen
Vergine e bambino con San Giuseppe, pittore olandese del secolo XVI. New York, Metropolitan Museum of Art.
"Tutte le generazioni da Abramo a
Davide sono quattordici; da Davide
alla deportazione in Babilonia
quattordici; dalla deportazione
in Babilonia a Cristo quattordici".
(Matteo 1,17)
Ènoto che, aprendo la prima pagina del Vangelo di Matteo, ci si imbatte in un arido elenco di nomi, una genealogia che era, però, un genere molto caro agli antichi abitanti del Vicino Oriente. Essi, infatti, in quella catena di nomi – non di rado fittizi o impropri – intuivano la propria storia e la grandezza delle loro origini. L’imbarazzo per noi lettori moderni, abituati al rigore documentario e storiografico, si materializza anche nel caso della genealogia di Gesù. Due sono i motivi di questa difficoltà. Il primo è proprio nel suggello che Matteo appone alla sua lista, marcando il numero “quattordici” come segnale numerico costante. Ora, se dovessimo ricostruire rigorosamente la sequenza della storia biblica di Israele, ci accorgeremmo che quel numero è improponibile.
Anzi, se si dovesse fare il confronto con l’analoga genealogia di Gesù stilata da Luca (3,23-38), rimarremmo ancor più sorpresi perché è totalmente diversa: anziché essere discendente, è ascendente (da Gesù risale fino alle origini dell’umanità), ha come radice non Abramo ma Adamo e ha in comune con quella di Matteo solo due nomi! Questo imbarazzo si può sciogliere tenendo conto proprio del valore simbolico, prima che storico, delle genealogie antiche. Matteo vuole dimostrare il legame intimo di Gesù con il popolo ebraico e il suo messianismo: allora ricorre alla linea dinastica davidica più che alla discendenza naturale, forse privilegiata da Luca che raccorda, invece, Cristo all’umanità intera, rappresentata appunto da Adamo. Spinto da un’esigenza che è più di indole teologica che storiografica, ecco che Matteo ordina la sequenza genealogica in una triade scandita dal settenario che, come si sa, è nella Bibbia uno dei numeri privilegiati per indicare pienezza e perfezione. Ecco, allora, il dominio del 7+7 che esalta il filo generazionale il quale si annoda alla figura gloriosa di Davide. Anzi, sempre per la mistica delle cifre bibliche e giudaiche e per il valore numerico assegnato alle lettere dell’alfabeto, secondo la tecnica detta della “gematria”, il 14 potrebbe ammiccare anche alla somma dei numeri legati alla base del nome Dawid, cioè alle tre consonanti ebraiche d-w-d che hanno il valore numerico di 4+6+4, cioè 14.
Ma al di là di simili speculazioni, rimane il significato ultimo del messaggio di Matteo: la storia della salvezza ha una sua perfezione profonda che si esprime attraverso l’armonia numerica settenaria e che crea un arco tra Davide e Gesù, al quale si può attribuire il titolo messianico di «Figlio di Davide», che risuona otto volte nel Vangelo di Matteo. Qui, però, scatta la seconda difficoltà. La lista genealogica è retta dal verbo “generò” che segna i vari anelli: esso ricorre 39 volte ma a sorpresa manca nell’anello fondamentale, l’ultimo, riguardante Gesù. Là, infatti, non si legge: «Giuseppe generò Gesù», come negli altri casi, bensì «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo» (1,16).
E allora come Gesù può essere discendente davidico se il legittimo davidide, Giuseppe, non lo genera? La risposta è nella pagina successiva (1,18-25) quando l’angelo si rivolge al futuro sposo di Maria invitandolo ad assumere la funzione di padre legale, anche se non naturale, del figlio che la sua fidanzata porta in grembo. Ora nell’antica legislazione la paternità legale (per adozione o per altra via) poteva legittimamente conferire i diritti ereditari. Giuseppe, discendente di Davide secondo la convinzione della sua genealogia tribale, rende così Gesù «Figlio di Davide» in senso autentico, introducendolo sulla ribalta della storia sotto l’egida messianica.
Pubblicato il 12 gennaio 2012 - Commenti (1)
05 gen
Genealogia Sacra. Germania, 1500 ca. Filadelfia, Philadelphia Museum of Art. Olio su pannello, cm 158,7x150,5. John G. Johnson Collection.
"In principio era
il Logos
e il Logos era
presso Dio
e il Logos
era Dio...
E il Logos carne
divenne
e pose la sua
tenda in mezzo
a noi".
(Giovanni 1, 1.14)
Abbiamo lasciato intenzionalmente la
parola greca del testo originario nel celebre
passo biblico che proponiamo ai
nostri lettori.
Logos significa “parola, verbo,
discorso”, indica la comunicazione tipica
dell’essere umano. Nella Bibbia, però, come
ben sappiamo, la “parola” è qualcosa di più
di quello che intendiamo noi occidentali: essa
è anche l’azione con cui esprimiamo noi
stessi, perciò il termine ebraico dabar designa
contemporaneamente la parola e l’atto.
Non per nulla, nelle prime righe della Sacra
Scrittura, leggiamo: «Dio disse: Sia la luce! E
la luce fu» (Genesi 1,3). La parola divina esprime
la persona stessa e l’opera del Creatore.
In questa luce è arduo tradurre quel Logos
che apre il prologo innico del Vangelo di Giovanni.
Goethe, il famoso poeta tedesco, nel
suo Faust fa tentare al protagonista diverse
versioni che cerchino di esprimere le varie iridescenze
di quel vocabolo greco: in tedesco,
certo, è Wort, ossia “parola”, ma è anche Sinn,
“significato” dell’essere e dell’esistere; è Kraft,
“potenza” efficace e creatrice; e alla fine è Tat,
cioè “atto”, evento pieno e perfetto, anzi persona
in Cristo.
L’Evangelista, quindi, tratteggia il
mistero divino, glorioso e trascendente del Figlio
di Dio che è «presso Dio ed è Dio».
C’è, però, una svolta radicale che si manifesta
in un incrocio tra due realtà che la cultura
greca vedeva in opposizione, quasi in collisione
tra loro, così da essere reciprocamente
repellenti. Il Logos diventa sarx, “carne”.
Ora, quest’altro termine greco definisce la fragilità
della creatura, il suo essere finita, caduca,
mortale, legata al tempo e allo spazio.
Ecco,
allora, quello che potremmo chiamare lo
scandalo dell’Incarnazione. Il Logos divino,
perfetto, infinito ed eterno diventa sarx, la
“carne” umana, limitata, votata alla sequenza
temporale, imprigionata nello spazio. Gesù,
il Figlio di Dio, sarà appunto vincolato a
una cultura, a una lingua, a un modo di vivere
sociale, a un territorio e a un’epoca storica
circoscritta. La sua realtà profonda di Logos
divino è quasi compressa e umiliata fino
all’esperienza della morte, che è per eccellenza
la nostra carta d’identità di creature racchiuse
in un perimetro di tempo e spazio.
È ciò che esprimeva san Paolo in un inno
incastonato nella Lettera ai Filippesi: «Cristo
Gesù, pur essendo di natura divina..., svuotò
sé stesso, assumendo la condizione di
servo, divenendo come gli uomini e presentandosi
in forma umana; umiliò sé stesso facendosi
obbediente fino alla morte e alla
morte di croce» (2,6-8). Ed è ciò che a suo modo
ha cantato anche uno scrittore agnostico
come l’argentino Jorge Luis Borges in una
sua poesia pubblicata nel 1969 e intitolata appunto
Giovanni 1,14: «Io che sono l’È, il Fu e
il Sarà / accondiscendo al linguaggio / che è
tempo successivo... / Vissi prigioniero di un
corpo e di un’umile anima. / Appresi la veglia,
il sonno, i sogni, / l’ignoranza, la carne, /
i tardi labirinti della mente, l’amicizia degli
uomini / e la misteriosa dedizione dei cani. /
Fui amato, compreso, esaltato e appeso a
una croce». Un antico testo apocrifo cristiano
metteva in bocca a Gesù queste parole: «Io, il
Signore, divenni piccolo per potervi ricondurre
in alto, donde siete caduti».
Pubblicato il 05 gennaio 2012 - Commenti (2)
|
|