08
ott

Fede e legge

"I farisei" di Karl Schmidt-Rottluff, olio su tela, 1912. New York, Museum of Modern Art (MoMA).
"I farisei" di Karl Schmidt-Rottluff, olio su tela, 1912. New York, Museum of Modern Art (MoMA).

"Se uno dichiara
al padre
o alla madre:
«È
korbàn!»,
cioè offerta
a Dio, non
gli consentite
di fare più nulla
per il padre
o la madre."


(Marco 7,11-12)

Questa frase enigmatica è inserita all’interno di una polemica che Gesù sta intessendo con alcuni farisei e scribi, venuti da Gerusalemme in Galilea per verificare e censurare l’insegnamento e il comportamento del rabbi di Nazaret. Le critiche non mancano: ad esempio, i discepoli di Gesù non osservano le norme della purità rituale sancita dalla tradizione giudaica. Cristo reagisce accusando di ipocrisia i suoi contestatori attraverso un caso concreto, quello appunto del korbàn, termine aramaico che indica l’“offerta” sacra destinata da un fedele al tempio.
Il procedimento era semplice: quando un ebreo dichiarava formalmente che una somma di denaro o un altro bene era korbàn, cioè consacrato per il tempio, quella cifra o quella realtà non era più disponibile per altre finalità, secondo quanto affermava una prescrizione della tradizione giudaica presente nella Mishnah. Essa era una raccolta di norme e indicazioni che regolavano la prassi dei fedeli ebrei, prima trasmesse oralmente e poi codificate in un testo dal rabbi Jehuda ha-Nasî che aveva organizzato nel III secolo d.C. il materiale in 6 “ordini” (seder) e 63 trattati.

Gesù presenta una scandalosa applicazione di questa norma specifica. Se un ebreo vuole sottrarsi all’obbligo del mantenimento dei genitori anziani, può decidere di assumere una certa somma o un bene prezioso e dichiararlo korbàn per il tempio, così che non ne potrà più disporre per i suoi genitori e sarà libero dall’obbligo filiale. Ovviamente l’impegno a cui si sottraeva era maggiore, perciò ne risultava un vantaggio. Anzi, non di rado questo voto restava solo formale e, quindi, fittizio e non comportava una reale donazione, ma era soltanto un mezzo estrinseco per evadere quell’obbligo morale.
I maestri, scribi e dottori della Legge, erano consapevoli dell’immoralità di un simile comportamento, ma consideravano lo stesso valida la prassi. Gesù, invece, ne denuncia la perversione religiosa ed etica. Egli, infatti, risale al cuore della Bibbia, lacerando il velo ipocrita della casistica e proclama il primato del Comandamento del Decalogo: «Onora tuo padre e tua madre» (Esodo 20,12), laddove quell’“onorare” comportava un impegno operoso di rispetto, di tutela e di sostegno della vita familiare (si legga sul tema l’intenso paragrafo di Siracide 3,1-16).

La conclusione che Cristo appone alla sua polemica è di indole generale e rivela un atteggiamento fondamentale della vera religiosità: «Voi in questo modo annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (7,13). Sulla parola divina viene imposta una norma umana, a un comandamento morale si sostituisce un precetto legale, alla limpidità della spiritualità biblica subentra la meschinità dell’interesse privato, anche se ammantato di autorizzazioni ufficiali.
Ritorna anche in questo evento della vita di Gesù l’afflato della fede profetica che impediva al legalismo e al ritualismo di soffocare l’anima profonda della religione biblica. L’interiorità della coscienza e l’impegno di giustizia e carità debbono sempre avere il primato sui regolamenti e sui codici sacrali e sociali.

Pubblicato il 08 ottobre 2012 - Commenti (3)
01
ott

Cinquemila uomini

La moltiplicazione dei pani, miniatura di Daniele di Uranc, 1433. Manoscritto 4963 foglio 2v. Yerevan (Armenia).
La moltiplicazione dei pani, miniatura di Daniele di Uranc, 1433. Manoscritto 4963 foglio 2v. Yerevan (Armenia).

"Tutti mangiarono a sazietà…
Quelli che avevano mangiato
i pani erano cinquemila uomini.
"


(Marco 6,44)

Questa volta affrontiamo una questione che potrà sembrare secondaria. Ci interessiamo dei numeri nei cui confronti il mondo semitico (ma non solo) non si comporta con criteri solo quantitativi, come accade ora a noi, ma soprattutto qualitativi. Anche chi non ha una grande assuefazione con la Bibbia sa che numeri come 3 o 7 o 12 o 40 hanno spesso valore simbolico e sono segni di pienezza o perfezione. L’Apocalisse, al riguardo, è emblematica: tra cardinali, ordinali e frazionali ci offre ben 283 cifre! E tutti citano quel passo in cui si afferma che «il numero della Bestia è 666» (13,18), che è multiplo del 6 e somma di multipli del 6 (600 + 60 + 6): esso equivale al 7 “decapitato” (–1) o il 12 “dimezzato”. Per non dire poi che – secondo l’antica scienza della “ghematria” per la quale le lettere alfabetiche hanno un valore numerico – quel 666 può essere la trascrizione “cifrata” del nome “Nerone Cesare” in ebraico, NRWN QSR: N 50 + R 200 +W6 + N 50 + Q100 + S 60 + R 200 = 666.

Ma stiamo ora all’esempio da noi proposto con l’indicazione dei fruitori della prima moltiplicazione dei pani secondo Marco: 5.000 uomini e Matteo, nel passo parallelo, aggiunge: «senza contare le donne e i bambini» (14,21). Marco per la seconda moltiplicazione dei pani riduce il pubblico a 4.000 uomini (8,9), dato confermato da Matteo (15,38), sempre con la precisazione riguardante donne e bambini che nell’antico Vicino Oriente non erano un soggetto giuridico in senso stretto e, quindi, non entravano nel computo. Qualche perplessità nasce su questa folla enorme, tenendo conto che la Galilea era una regione limitata e Gesù si fermava a parlare in piccole rade del lago di Tiberiade o su prati molto ristretti con gruppi locali abbastanza ridotti. Tra l’altro, l’evangelista parla di una suddivisione «in gruppi di 100 e 50» persone (6,40).

Effettivamente bisogna notare che il numero 1.000 era spesso adottato per designare semplicemente una grande quantità difficile da contare, oppure acquistava il valore simbolico dell’immensità e persino dell’infinito: Dio, ad esempio perdona e ama per «mille generazioni» (Esodo 34,7). Si tratterebbe, allora, solo della segnalazione di 4 o 5 moltitudini di persone. Tra l’altro, è curioso notare che il 1.000 in ebraico è ’elef, vocabolo che indica anche il “bue” che potrebbe essere l’unità di misura alimentare per un gruppo clanico o familiare esteso, come lo era allora la famiglia patriarcale.

Certo, in alcuni casi siamo in presenza di numeri reali o almeno legati a dati documentari, come accade nei censimenti di Israele nel deserto che aprono il libro dei Numeri (capp. 1-4): essi, in realtà, riflettono cifre del periodo in cui il popolo ebraico era stanziato nella terra promessa, con probabili ritocchi simbolici, soprattutto quando si parla delle «migliaia di Israele» (1,16; vedi 1Samuele 10,19-21), designazione riservata ai vari clan. Reali sono, in buona parte, i dati numerici allegati dal libro di Esdra nel capitolo 2 (ripresi in Neemia 7,6-72) riguardo ai rimpatriati da Babilonia. È, però, indubbio che la trasmissione stessa di simili dati nei vari codici biblici a noi giunti ha subìto spesso variazioni e incertezze.
Rimane, comunque, fermo il primato simbolico di alcune cifre: è, ad esempio, il caso – nel racconto della moltiplicazione dei pani – delle ceste avanzate, 12 nel primo caso, come i dodici apostoli o le tribù ebraiche; 7 nel secondo caso, come le nazioni della terra di Canaan (Atti 13,19) o i sette “diaconi” della solidarietà gerosolimitana (Atti 6,5). D’altronde, la sazietà e l’abbondanza sono tipiche del banchetto messianico.

Pubblicato il 01 ottobre 2012 - Commenti (1)
24
set

Indemoniato o folle?

"Guarigione dell'ossesso", Sant'Apollinare Nuovo, Ravenna.
"Guarigione dell'ossesso", Sant'Apollinare Nuovo, Ravenna.

"Aveva dimora fra le
tombe e nessuno riusciva
a tenerlo legato, neanche
con catene... spezzava
le catene e spaccava
i ceppi e nessuno
riusciva a domarlo".


(Marco 5,3-4)

Siamo – stando al racconto di Marco (5,1-20) – sulla costa orientale del lago di Tiberiade «nella regione dei Geraseni» (Matteo parla, invece, di Gadara, a sud-est dello stesso lago). Ci troviamo nella Decapoli, area a prevalenza pagana e quindi “impura”. Ecco emergere questa figura terribile, una sorta di mostro che vive o in una necropoli, tra i morti, oppure sui monti desertici delle alture del Golan. Appare, così, un altro segno di “impurità” e negatività, la morte e il deserto. Quando Gesù interpella lo “spirito impuro” che travolge quest’uomo, costui risponde: «Mi chiamo Legione», un altro elemento negativo perché rimanda all’oppressione romana e al suo esercito.

Ma non è finita. Quando Gesù decide di liberare quest’uomo dagli “spiriti impuri”, essi domandano e ottengono di entrare in una mandria di porci là allevati, tipici animali “impuri” per la tradizione giudaica. A quel punto il branco «si precipita dal burrone nel mare, affogando uno dopo l’altro nel mare». Il mare (in questo caso il lago: il linguaggio biblico denomina con un unico termine le grandi distese d’acqua) è il simbolo del caos e del male. La sequenza negativa che regge le fila del racconto è, dunque, impressionante: Decapoli, pagani, sepolcri, monti desertici, spiriti immondi/impuri, Legione, porci, mare.

Sembra, quindi, di essere in presenza di una sorta di compendio del male del mondo, del demoniaco che avvelena la storia ma anche dell’idolatria, perché Isaia descrive così gli idolatri: «Abitano nei sepolcri, passano la notte in nascondigli, mangiano carne suina e cibi impuri... bruciano incenso sui morti e sui colli insultano il Signore» (65,4.7). Qual è, allora, il significato da assegnare a questa narrazione, sia nella sua realtà storica sia nel suo valore esemplare? Innanzitutto il ritratto, offerto dall’evangelista, di quello sventurato, lo delinea come un pazzo furioso: non si può legarlo perché reagisce brutalmente, è autolesionista perché si percuote con pietre, urla in modo sconclusionato giorno e notte. Una volta sanato da Gesù è, invece, tratteggiato come «seduto, vestito e sano di mente» (5,15).

Fin qui per quanto riguarda l’evento storico, ossia la guarigione di un malato mentale, così come Gesù sanerà un ragazzo epilettico, scendendo dal monte della Trasfigurazione (9,14-29). Ma qual è il valore ulteriore che l’evangelista assegna a questo fatto? La risposta deve tener conto proprio di tutti gli elementi negativi che abbiamo prima elencato e dell’antica convinzione di Israele, secondo cui le sindromi più gravi presupponevano una colpa personale o una possessione demoniaca. La vicenda, allora, diventa una narrazione esemplare per celebrare la vittoria di Cristo sul male in tutte le sue forme: egli è, infatti, riconosciuto come «Figlio del Dio altissimo» (5,7), trionfante sulle forze oscure, sia fisiche sia morali, che tormentano la storia umana.

Pubblicato il 24 settembre 2012 - Commenti (2)
17
set

«Così che non si convertano»

San Matteo evangelista, mosaico. Ravenna, basilica di Sant’Apollinare in Classe.
San Matteo evangelista, mosaico. Ravenna, basilica di Sant’Apollinare in Classe.

"Per quelli che
sono fuori tutto
avvienein parabole
affinchéguardino, sì,
ma non vedano,
ascoltino, sì, ma non
comprendano..."


(Marco 4,11-12)

«Così che non si convertano e venga loro perdonato!»: finisce con questa fosca clausola la frase che Gesù pronunzia nel Vangelo di Marco riguardo alla funzione delle parabole che egli sta raccontando. Paradossale è proprio questa definizione della finalità delle parabole, espressa con quell’“affinché” che indica appunto uno scopo da raggiungere. Forse che Gesù ha scelto l’uso del linguaggio parabolico, che è anche il suo modo più comune di insegnare, per offuscare la mente e il cuore del suo uditorio e impedirgli la conversione («così che non si convertano») e il relativo perdono dei peccati («e non venga loro perdonato»)? La frase, in verità, si basa su una citazione del profeta Isaia che, nel giorno della sua vocazione, aveva ricevuto questo monito: «Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendilo duro d’orecchi e acceca i loro occhi, e non veda con gli occhi, né oda con gli orecchi, né comprenda col cuore, né si converta così da essere guarito!» (6,10).

Dobbiamo proprio partire da questa citazione per comprendere le dure parole di Cristo che sembrerebbero smentire la finalità salvifica della sua predicazione. È chiaro il contenuto dell’appello rivolto a Isaia: egli si scontrerà con il rigetto degli Israeliti, un fenomeno scontato e ben noto ai profeti. Ebbene, quegli imperativi sono in realtà equivalenti a indicativi: si adotta questa forma per mostrare quale sarà il risultato della predicazione profetica, che Dio certamente non vuole, ma che gli è già nota ed è inserita nel suo disegno di salvezza. Questo progetto salvifico, però, continuerà lo stesso e si attuerà giudicando il peccato e l’indurimento del cuore e salvando chi si convertirà e compirà il bene.

L’imperativo non è, quindi, un invito a operare in quella linea negativa, bensì è un modo per rappresentare in forma efficace che neanche il male sfugge al piano divino, che non esiste una divinità negativa che si oppone all’unico Signore, come insegnava il dualismo religioso (Dio del bene contro il dio del male), che la libertà umana con le sue scelte perverse non è ignota al Creatore e non frustra la sua volontà di salvezza. Nello stesso libro di Isaia si giunge al punto di porre anche il male sotto il comando divino: «Sono io che formo la luce e le tenebre, faccio il bene e provoco il male» (45,7). Con questa frase così aspra si vuole soltanto ricordare che nulla sfugge all’onnipotenza del Signore; anche il male e il peccato possono essere inquadrati nel suo grande disegno sull’essere e sull’esistere.

Gesù cita, dunque, questa tesi importante formulata nello scritto isaiano e quella “finalità” («affinché...») è di tipo “scritturistico”, cioè equivale alla tradizionale espressione «affinché si adempia la Scrittura che dice...». L’evangelista ne condivide con Gesù (che rimanda a Isaia) il contenuto: le parabole, che dovrebbero essere un luminoso esempio di rivelazione, diventano un elemento di ostinazione contro Cristo. Questo, però, non deve impressionare, perché Dio – che sa anche dal male trarre un bene – continuerà lo stesso a compiere l’insediamento del suo Regno. È interessante vedere come Matteo abbia riletto questa frase di Isaia e di Gesù sostituendo alla finale («affinché...») una causale più immediata e chiara («perché...»). Il messaggio in parabole di Gesù non è accolto «perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri d’orecchi, hanno chiuso gli occhi...» (Matteo 13,15).

Pubblicato il 17 settembre 2012 - Commenti (4)
10
set

Cristo liberatore e lo "spirito impuro"

Liberazione di un indemoniato, ex voto. Cesena, Madonna del Monte.
Liberazione di un indemoniato, ex voto. Cesena, Madonna del Monte.

"Nella sinagoga
vi era un uomo
posseduto da uno
spirito impuro.
Cominciò
a gridare:
«Che vuoi da noi,
Gesù Nazareno?
Io so chi tu sei:
il Santo di Dio!»"


(Marco 1,23-24)

Siamo nella cosiddetta “giornata di Cafarnao”: nell’arco di un giorno e nello spazio di questa cittadina che s’affaccia sul lago di Tiberiade, Gesù compie una serie di atti miracolosi. Uno di questi eventi si svolge nella sinagoga locale (quella che Giovanni inserì come fondale per il celebre discorso di Gesù sul “pane di vita”): all’improvviso una persona si alza nell’assemblea, mentre Gesù sta insegnando con grande autorità, e gli si scaglia contro interpellandolo e apostrofandolo (Marco 1,21-26). Chi travolge quest’uomo apparentemente normale, facendone un avversario di Cristo?

In lui agisce un’inattesa presenza specifica, sollecitata dalla parallela presenza di Gesù. È una presenza vitale e personale che interloquisce con Cristo, paradossalmente riconoscendolo come «Santo di Dio», rivelandosi quindi come dotata di una trascendenza e di un’origine divina. Si ha, perciò, un’epifania di Satana il quale sa di avere come avversario Dio stesso, presente e operante in Gesù Cristo. Non possiamo qui ridurre l’evento a una guarigione da una malattia grave, come la demenza (Marco 5,1-20) o l’epilessia (9,14-29), casi che in seguito considereremo e rubricati dagli evangelisti come possessioni diaboliche.

Sappiamo, infatti, che nell’antico Vicino Oriente si era inclini a porre sotto l’insegna del demoniaco tutto il negativo della storia: le malattie fisiche, le devianze psichiche, gli influssi sociali nefasti, il peccato personale, il male in generale. Qui, invece, si ha una presenza personale specifica; è l’incontro con un essere misterioso che si erge contro Cristo dichiarandosi suo avversario; con lui Gesù ingaggia un duello che si risolve con un comando efficace e salvatore: «Esci da quest’uomo!». E, in finale, l’urlo che si ode rappresenta il grido di sconfitta di Satana. La salvezza non viene da formule e gesti esoterici, da filtri o pozioni magiche, ma solo da un ordine autorevole e operativo di Cristo.

Al centro di questo racconto non c’è, quindi, lo “spirito impuro”, il diavolo, ma Cristo liberatore dal male. Il cristianesimo rigetta ogni forma di dualismo che veda come arbitri della storia e dell’essere due divinità antitetiche: il demonio non è il principio del male che combatte il principio divino del bene. Satana (in ebraico “avversario”) è inferiore a Dio ed è da lui controllato e dominato. Anche se, dunque, la sua presenza dev’essere ridimensionata, il diavolo (in greco, “colui che divide”) è un essere personale che agisce con forza. Certo, l’uso del termine “persona” è per lui un po’ improprio, perché si tratta di un concetto positivo, usato anche per Dio (ad esempio, le tre “persone” della Trinità).

Satana è, invece, l’antitesi di Dio, nel quale l’essere persona è pienezza assoluta; è l’antitesi anche dell’uomo, la cui persona dovrebbe essere segno di intimità, di donazione, di amore. Lo scrittore francese agnostico André Gide scriveva: «Se il diavolo potesse, direbbe: Io sono colui che non sono». E curiosamente lo stesso autore concludeva: «Non credo nel diavolo; ma è proprio quello che il diavolo spera: che non si creda in lui». A lui farà eco Giovanni Papini quando diceva che «l’ultima astuzia del diavolo fu quella di spargere la voce della sua morte».

Pubblicato il 10 settembre 2012 - Commenti (2)
24
nov

Non addormentatevi!

Riposo dei cavatori di Baccio Maria Bacci (1888-1974). Firenze, Galleria d'arte moderna.
Riposo dei cavatori di Baccio Maria Bacci (1888-1974). Firenze, Galleria d'arte moderna.

" Vegliate!
Non sapete
quando il padrone
di casa ritornerà:
se a sera
o a mezzanotte.
Giungendo
all'improvviso,
non vi trovi
addormentati! 
"
(Marco 13,35-36)

Lunga più del giorno sembra la notte, con le sue tenebre. Lo sa bene il sofferente insonne, come confessa Giobbe: «Notti di ansia mi sono ormai riservate. Se mi corico, dico: Quando è ora di alzarsi? La notte è sempre più lunga e io sono stanco di rigirarmi fino all’alba» (7,3-4). Isaia, come è noto, ha “sceneggiato” dal vivo questa estensione soffocante attraverso il dialogo di due sentinelle: «Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte? L’altra sentinella risponde: Viene il mattino, ma poi ancora la notte... » (21,11-12). Per questo era invalso l’uso di dividere l’arco della notte in “veglie”, in pratica in turni di guardia.

Gli Ebrei ne contavano tre di quattro ore ciascuna. Marco, invece, nel frammento dall’atmosfera molto tesa che abbiamo proposto, adotta il sistema di computo in vigore presso i Romani. Essi suddividevano la notte in quattro “veglie” di tre ore: si iniziava con la «sera», in greco opsé, a cui subentrava la «mezzanotte» (mesonýktion); si sentiva poi il «canto del gallo» (alektorofonía) ed ecco, infine, l’alba, il proí. Gesù, però, introduce su questa sequenza temporale un bozzetto narrativo. Siamo in un palazzo, il padrone è andato lontano, ma ormai è sulla via del ritorno. Ignota e imprevedibile è la durata della “veglia” notturna al termine della quale il signore si presenterà al portone. I servi devono, quindi, “vegliare”.

Questo verbo ricorre in apertura alla scenetta: «Vegliate», in greco gregoréite! E ritorna anche nell’appello-applicazione finale che Gesù fa al quadretto delineato: «Quello che dico a voi, lo dico a tutti: gregoréite, vegliate! » (13,37). Appare, così, una dimensione significativa della predicazione di Gesù, quella dell’urgenza per una scelta da compiere: «Tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (Matteo 24,44). Spesso nella predicazione attorno a questo passo evangelico si fa riferimento alla morte, che è un ospite che non s’annuncia. In realtà, Gesù rimanda al suo passaggio che avviene nella storia e nel presente e che esige una decisione netta. Potremmo evocare un’altra mirabile scenetta, quella dipinta dall’Apocalisse: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20).

In questa luce si intuisce come il sonno sia il segno dell’indifferenza, anzi, del rifiuto di un impegno serio e operoso. Se è vero che la tenebra è simbolo del male e del peccato, è evidente che chi si adagia nel suo grembo facendosi accogliere e cullare diventa «figlio delle tenebre», cioè succube dell’empietà e dell’immoralità. Continuerà san Paolo, commentando idealmente le parole di Cristo: «Voi, però, non siete nelle tenebre... perché siete figli della luce e del giorno. Noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo, allora, come gli altri, ma vegliamo e siamo sobri!» (1Tessalonicesi 5,4-6).

Ma l’Apostolo è convinto di una necessità che vale anche per i cristiani che si lasciano lambire dal torpore: «È ormai tempo di svegliarsi dal sonno, perché adesso la salvezza è vicina... La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce!» (Romani 13,11-12).

Pubblicato il 24 novembre 2011 - Commenti (1)

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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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