15
ott

Vedo come alberi che camminano

Gesù guarisce un cieco, affresco, scuola cassinese. Sant'Angelo in Formis, Capua.
Gesù guarisce un cieco, affresco, scuola cassinese. Sant'Angelo in Formis, Capua.

"Quegli, alzando gli occhi, diceva:
«Vedo la gente, perché vedo
come degli alberi che camminano
»".


(Marco 8,24)

Ambientato a Betsaida (in aramaico “casa dei pescatori”), la patria degli apostoli Pietro, Andrea e Filippo, villaggio situato sul lago di Tiberiade, questo miracolo piuttosto sorprendente mette in scena un Gesù che non riesce a guarire un cieco se non attraverso due interventi successivi.
È solo Marco a narrarci questo episodio dal carattere storico e simbolico al tempo stesso. Storico, perché non si sarebbe mai inventato un atto miracoloso che mostra un Gesù incapace di guarire di primo acchito, ma costretto a ripetere l’operazione sul malato. Simbolico, per la tipologia del paziente e il contesto che assegna all’evento un probabile significato ulteriore.

Iniziamo con la vicenda concreta. Secondo la tradizionale convinzione per la quale si assegnava alla saliva un potere terapeutico, Gesù spalma la sua saliva sugli occhi di un cieco, come farà a Gerusalemme con un caso congenito analogo (Giovanni 9,6).
Impone poi le mani sul malato e attende l’esito che è, però, piuttosto imprevisto: il cieco comincia, sì, a vedere ma confessa di intuire le figure umane in maniera confusa, come se fossero alberi in movimento. Cristo, allora, ripete l’imposizione delle mani «ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa» (Marco 8,25).
Segue il monito, frequente nel Vangelo di Marco, di evitare ogni pubblicità al gesto: «Non entrare nemmeno nel villaggio», impone Gesù all’ex cieco (8,26).

Espressione dell’umanità di Cristo che si lega alle tradizioni mediche popolari e che rivela persino una difficoltà operativa, questo racconto ha, però, su di sé un velo simbolico suggestivo. Innanzitutto per la sindrome in questione, la cecità.
Certo, il fenomeno era in sé fisico, derivante anche dalle infezioni oftalmiche purulente, provocate o aggravate dal sole incandescente, dal sudiciume, dal vento che sollevava polvere. Per questo sono molteplici le guarigioni evangeliche di ciechi (Matteo 9,27-32; 20,29-34; Marco 10,46-52; Luca 18,35-43; Giovanni 9,1-7).

Ma è facile intuire che, essendo la luce un simbolo di Dio (1Giovanni 1,5) e di Cristo (Giovanni 8,12), la liberazione dalla cecità acquista un senso più profondo, messianico, tant’è vero che lo stesso Gesù, nel suo discorso programmatico nella sinagoga di Nazaret, non esita ad attribuire a sé il passo isaiano secondo il quale la sua missione comprendeva anche il ridare «la vista ai ciechi» (Luca 4,18), impegno che ribadirà come proprio e specifico ai discepoli del Battista venuti a interrogarlo come Messia (Matteo 11,5).

L’episodio del cieco di Betsaida – a causa del contesto che contiene subito dopo la confessione di Pietro, il quale proclama Gesù come il Cristo, ma che registra anche le incertezze della folla per la quale Gesù è il Battista o Elia o uno dei profeti redivivi – potrebbe anche comprendere un’allusione alla difficoltà nel “vedere” della fede. Essa può attraversare una fase preparatoria, quella appunto che intuisce confusamente in Gesù un profeta che ritorna sulla scena di Israele. Ma alla fine raggiunge la piena luce, come accade a Pietro che, secondo Marco (8,29), vede in lui “il Cristo”, ossia il Messia, e secondo Matteo (16,16) ancora di più: «il Cristo, il Figlio del Dio vivente».

Pubblicato il 15 ottobre 2012 - Commenti (1)
01
ott

Cinquemila uomini

La moltiplicazione dei pani, miniatura di Daniele di Uranc, 1433. Manoscritto 4963 foglio 2v. Yerevan (Armenia).
La moltiplicazione dei pani, miniatura di Daniele di Uranc, 1433. Manoscritto 4963 foglio 2v. Yerevan (Armenia).

"Tutti mangiarono a sazietà…
Quelli che avevano mangiato
i pani erano cinquemila uomini.
"


(Marco 6,44)

Questa volta affrontiamo una questione che potrà sembrare secondaria. Ci interessiamo dei numeri nei cui confronti il mondo semitico (ma non solo) non si comporta con criteri solo quantitativi, come accade ora a noi, ma soprattutto qualitativi. Anche chi non ha una grande assuefazione con la Bibbia sa che numeri come 3 o 7 o 12 o 40 hanno spesso valore simbolico e sono segni di pienezza o perfezione. L’Apocalisse, al riguardo, è emblematica: tra cardinali, ordinali e frazionali ci offre ben 283 cifre! E tutti citano quel passo in cui si afferma che «il numero della Bestia è 666» (13,18), che è multiplo del 6 e somma di multipli del 6 (600 + 60 + 6): esso equivale al 7 “decapitato” (–1) o il 12 “dimezzato”. Per non dire poi che – secondo l’antica scienza della “ghematria” per la quale le lettere alfabetiche hanno un valore numerico – quel 666 può essere la trascrizione “cifrata” del nome “Nerone Cesare” in ebraico, NRWN QSR: N 50 + R 200 +W6 + N 50 + Q100 + S 60 + R 200 = 666.

Ma stiamo ora all’esempio da noi proposto con l’indicazione dei fruitori della prima moltiplicazione dei pani secondo Marco: 5.000 uomini e Matteo, nel passo parallelo, aggiunge: «senza contare le donne e i bambini» (14,21). Marco per la seconda moltiplicazione dei pani riduce il pubblico a 4.000 uomini (8,9), dato confermato da Matteo (15,38), sempre con la precisazione riguardante donne e bambini che nell’antico Vicino Oriente non erano un soggetto giuridico in senso stretto e, quindi, non entravano nel computo. Qualche perplessità nasce su questa folla enorme, tenendo conto che la Galilea era una regione limitata e Gesù si fermava a parlare in piccole rade del lago di Tiberiade o su prati molto ristretti con gruppi locali abbastanza ridotti. Tra l’altro, l’evangelista parla di una suddivisione «in gruppi di 100 e 50» persone (6,40).

Effettivamente bisogna notare che il numero 1.000 era spesso adottato per designare semplicemente una grande quantità difficile da contare, oppure acquistava il valore simbolico dell’immensità e persino dell’infinito: Dio, ad esempio perdona e ama per «mille generazioni» (Esodo 34,7). Si tratterebbe, allora, solo della segnalazione di 4 o 5 moltitudini di persone. Tra l’altro, è curioso notare che il 1.000 in ebraico è ’elef, vocabolo che indica anche il “bue” che potrebbe essere l’unità di misura alimentare per un gruppo clanico o familiare esteso, come lo era allora la famiglia patriarcale.

Certo, in alcuni casi siamo in presenza di numeri reali o almeno legati a dati documentari, come accade nei censimenti di Israele nel deserto che aprono il libro dei Numeri (capp. 1-4): essi, in realtà, riflettono cifre del periodo in cui il popolo ebraico era stanziato nella terra promessa, con probabili ritocchi simbolici, soprattutto quando si parla delle «migliaia di Israele» (1,16; vedi 1Samuele 10,19-21), designazione riservata ai vari clan. Reali sono, in buona parte, i dati numerici allegati dal libro di Esdra nel capitolo 2 (ripresi in Neemia 7,6-72) riguardo ai rimpatriati da Babilonia. È, però, indubbio che la trasmissione stessa di simili dati nei vari codici biblici a noi giunti ha subìto spesso variazioni e incertezze.
Rimane, comunque, fermo il primato simbolico di alcune cifre: è, ad esempio, il caso – nel racconto della moltiplicazione dei pani – delle ceste avanzate, 12 nel primo caso, come i dodici apostoli o le tribù ebraiche; 7 nel secondo caso, come le nazioni della terra di Canaan (Atti 13,19) o i sette “diaconi” della solidarietà gerosolimitana (Atti 6,5). D’altronde, la sazietà e l’abbondanza sono tipiche del banchetto messianico.

Pubblicato il 01 ottobre 2012 - Commenti (1)
17
set

«Così che non si convertano»

San Matteo evangelista, mosaico. Ravenna, basilica di Sant’Apollinare in Classe.
San Matteo evangelista, mosaico. Ravenna, basilica di Sant’Apollinare in Classe.

"Per quelli che
sono fuori tutto
avvienein parabole
affinchéguardino, sì,
ma non vedano,
ascoltino, sì, ma non
comprendano..."


(Marco 4,11-12)

«Così che non si convertano e venga loro perdonato!»: finisce con questa fosca clausola la frase che Gesù pronunzia nel Vangelo di Marco riguardo alla funzione delle parabole che egli sta raccontando. Paradossale è proprio questa definizione della finalità delle parabole, espressa con quell’“affinché” che indica appunto uno scopo da raggiungere. Forse che Gesù ha scelto l’uso del linguaggio parabolico, che è anche il suo modo più comune di insegnare, per offuscare la mente e il cuore del suo uditorio e impedirgli la conversione («così che non si convertano») e il relativo perdono dei peccati («e non venga loro perdonato»)? La frase, in verità, si basa su una citazione del profeta Isaia che, nel giorno della sua vocazione, aveva ricevuto questo monito: «Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendilo duro d’orecchi e acceca i loro occhi, e non veda con gli occhi, né oda con gli orecchi, né comprenda col cuore, né si converta così da essere guarito!» (6,10).

Dobbiamo proprio partire da questa citazione per comprendere le dure parole di Cristo che sembrerebbero smentire la finalità salvifica della sua predicazione. È chiaro il contenuto dell’appello rivolto a Isaia: egli si scontrerà con il rigetto degli Israeliti, un fenomeno scontato e ben noto ai profeti. Ebbene, quegli imperativi sono in realtà equivalenti a indicativi: si adotta questa forma per mostrare quale sarà il risultato della predicazione profetica, che Dio certamente non vuole, ma che gli è già nota ed è inserita nel suo disegno di salvezza. Questo progetto salvifico, però, continuerà lo stesso e si attuerà giudicando il peccato e l’indurimento del cuore e salvando chi si convertirà e compirà il bene.

L’imperativo non è, quindi, un invito a operare in quella linea negativa, bensì è un modo per rappresentare in forma efficace che neanche il male sfugge al piano divino, che non esiste una divinità negativa che si oppone all’unico Signore, come insegnava il dualismo religioso (Dio del bene contro il dio del male), che la libertà umana con le sue scelte perverse non è ignota al Creatore e non frustra la sua volontà di salvezza. Nello stesso libro di Isaia si giunge al punto di porre anche il male sotto il comando divino: «Sono io che formo la luce e le tenebre, faccio il bene e provoco il male» (45,7). Con questa frase così aspra si vuole soltanto ricordare che nulla sfugge all’onnipotenza del Signore; anche il male e il peccato possono essere inquadrati nel suo grande disegno sull’essere e sull’esistere.

Gesù cita, dunque, questa tesi importante formulata nello scritto isaiano e quella “finalità” («affinché...») è di tipo “scritturistico”, cioè equivale alla tradizionale espressione «affinché si adempia la Scrittura che dice...». L’evangelista ne condivide con Gesù (che rimanda a Isaia) il contenuto: le parabole, che dovrebbero essere un luminoso esempio di rivelazione, diventano un elemento di ostinazione contro Cristo. Questo, però, non deve impressionare, perché Dio – che sa anche dal male trarre un bene – continuerà lo stesso a compiere l’insediamento del suo Regno. È interessante vedere come Matteo abbia riletto questa frase di Isaia e di Gesù sostituendo alla finale («affinché...») una causale più immediata e chiara («perché...»). Il messaggio in parabole di Gesù non è accolto «perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri d’orecchi, hanno chiuso gli occhi...» (Matteo 13,15).

Pubblicato il 17 settembre 2012 - Commenti (4)
02
ago

Il Messia di chi è figlio?

Sacra parentela, dipinto originario della Germania, circa 1500. Philadelphia, Museum of Art.
Sacra parentela, dipinto originario della Germania, circa 1500. Philadelphia, Museum of Art.

"Gesù chiese
ai farisei: «Che
cosa pensate
del Cristo?
Di chi è figlio?».
Gli risposero:
«Di Davide»".


(Matteo 22,41-42)

Questa volta non sono i suoi avversari a punzecchiare Gesù, come accade ripetutamente nella pagina del capitolo 22 di Matteo, una pagina costellata di “controversie”, ossia di polemiche con farisei e sadducei. Ora è lui stesso che provoca i farisei riuniti in un’assemblea, rivolgendo loro il quesito che abbiamo citato, apparentemente banale. Non era, infatti, noto a tutti i lettori della Bibbia che il Messia sarebbe disceso dal filo genealogico davidico? Ricordiamo che la parola “Cristo” è la versione greca dell’ebraico “Messia” (Mashiah) che significa “consacrato”, e che “figlio” è usato spesso in senso lato per indicare un discendente. Dov’è, dunque, la difficoltà?


Essa è da cercare nel prosieguo della discussione. Gesù, infatti, mette sul tappeto del dibattito un celebre Salmo messianico, il 110, ritenuto opera di Davide come si evince dal titolo che gli era stato apposto: «Di Davide. Salmo». L’inno, composto dal famoso sovrano considerato appunto dalla tradizione come l’antenato del Messia, «mosso dallo Spirito » (22,43), inizia con un oracolo divino che è così introdotto: «Disse il Signore [Yhwh Dio] al mio Signore [il re Messia] ». Segue l’oracolo: «Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici sotto i tuoi piedi». Davide, quindi, chiama il Messia «mio signore». Facile è l’obiezione di Cristo: «Se dunque lo chiama “Signore” come può essere suo figlio?» (22,44-45). Se il Messia-Cristo è “figlio di Davide”, come può Davide definirlo suo “Signore” e quindi a lui superiore?


I farisei si trovano impastoiati in una disputa di taglio rabbinico, un genere nel quale peraltro eccellevano. Gesù li avviluppa nella stessa rete che essi più di una volta avevano teso contro di lui con i loro quesiti. A questo punto, però, ci si attenderebbe di vedere come Gesù – qui raffigurato nella veste di un rabbí giudaico – riesca a risolvere la contraddizione tra un Messia contemporaneamente figlio e Signore di Davide, secondo l’analisi appena fatta del Salmo 110. La conclusione di Matteo è spiazzante: «Nessuno era in grado di rispondergli e, da quel giorno, nessuno osò più interrogarlo» (22,46). Marco, che ambienta questa scena nell’area del tempio di Gerusalemme, senza introdurre i farisei come interlocutori, conclude semplicemente: «la folla numerosa lo ascoltava volentieri» (12,37).


La risposta a quell’apparente contraddizione è ovviamente possibile solo in sede cristiana. Per il giudaismo, infatti, il Messia rimane creatura umana e come tale non potrà essere definito “Signore”. Nel cristianesimo il Cristo ha certamente una reale dimensione storica e, quindi, è ancorato nella sua umanità a una discendenza, quella davidica, attestata dalla genealogia che lo stesso Matteo pone in apertura al suo Vangelo: «Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo » (1,1). Egli è, dunque, realmente «figlio [discendente] di Davide», legato alla linea della promessa messianica (2Samuele 7; Salmo 89). Ma contemporaneamente è figlio di Dio e, in questa luce, è “Signore” di Davide. Il mistero centrale del cristiano, l’Incarnazione, risolve dunque anche l’enigma del Salmo 110, posto da Gesù all’attenzione dei farisei.

Pubblicato il 02 agosto 2012 - Commenti (2)
19
mag

Via, verità, vita

Vaso, colombe e uva, mosaico in San Vitale a Ravenna
Vaso, colombe e uva, mosaico in San Vitale a Ravenna

"Io sono la via, la verità, la vita.
Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me."
(Giovanni 14,6)


«Preso il boccone, Giuda subito uscì. Ed era notte...». Su Gerusalemme, dunque, si stende il velo delle tenebre e Giuda, il traditore – dopo aver partecipato a quell’ultima cena durante la quale Gesù gli aveva espresso un estremo gesto di attenzione offrendogli il “boccone dell’ospite”, segno di cordialità –, s’avvia di corsa per le strade deserte della città santa a consumare il suo tradimento. In quella «grande sala, arredata e già apparecchiata, al piano superiore » di una casa gerosolimitana (Marco 14,15), era salito Gesù con i suoi discepoli. Là aveva celebrato la cena pasquale e poi, uscito Giuda, aveva iniziato a parlare.

Quella sarebbe stata l’ultima sera della sua vita terrena. Le sue parole, perciò, acquistavano il sapore di un testamento. Giovanni, l’evangelista, ha rielaborato quei discorsi secondo uno stile che è stato chiamato “a ondate” perché, come accade ai flutti della risacca sul litorale che ricoprono lo stesso spazio in forme sempre diverse, così i temi dominanti, la fede e l’amore, ritornano ripetutamente su sé stessi, ma costantemente con tonalità e sfumature differenti. Facciamo solo due citazioni. L’una è per la fede, che è comunione con Cristo: «Io sono la vera vite, voi i tralci. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da sé stesso, se non rimane nella vite, così anche voi, se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci» (Giovanni 15,1.4-5).

L’altra citazione è sull’amore: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così anche voi amatevi gli uni gli altri... Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (13,34; 15,12).

Ora, però, la nostra analisi si concentra sulla frase che abbiamo scelto e proposto. Gesù ha fatto balenare ai suoi amici ciò che lo attende, la morte e il successivo ingresso nell’orizzonte divino, promettendo che là avrebbe preparato un posto anche per loro. Tommaso, il “dubbioso”, gli obietta: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». E la risposta di Cristo è in quella potente affermazione che abbiamo citato. Essa si apre con quell’«Io sono» che vale molto di più di una semplice copula verbale perché, come spesso avviene nel quarto Vangelo (si legga, ad esempio, Giovanni 8,58), si rimanda alla solenne autopresentazione di Dio nel roveto ardente al Sinai: «Io sono colui che sono» (Esodo 3,14).

A quella premessa gloriosa si collegano tre titoli che s’inanellano tra loro. Infatti, Cristo è «la via» per raggiungere il Padre proprio perché è «la verità», ossia la rivelazione perfetta del mistero di Dio. Attraverso lui, perciò, «conoscerete la verità che vi farà liberi » (8,32). I nostri passi avanzeranno verso quell’orizzonte di luce, guidati dalla parola di Gesù che è «verità».

Ma egli è anche «la vita» che non perisce, l’essenza stessa di Dio, ed è per questo che, stando uniti a lui in pienezza – appunto come i tralci al tronco della vite – noi saremo ammessi all’intimità vitale con Dio, il Padre, Signore della vita. Mettiamoci, allora, sulla strada che egli ci rivela e, stretti a lui, raggiungeremo la luce eterna e divina: «Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (8,12).

Pubblicato il 19 maggio 2011 - Commenti (0)
23
gen

Nessuno capace di consigliare

Maestro di scuola del Nuovo Mondo, opera di Diego Rivera, murales, 1928, Città del Messico
Maestro di scuola del Nuovo Mondo, opera di Diego Rivera, murales, 1928, Città del Messico

"Mi guardai attorno: ed ecco non c’era nessuno, nessuno che fosse capace di consigliare, nessuno da interrogare per
avere risposta."
(Isaia 41,28)

Avrà pure un significato il fatto che uno dei doni dello Spirito Santo sia proprio il “consiglio”, ossia la guida offerta alla ricerca, alla domanda, all’attesa umana. Non per nulla il crescere del bambino avviene attraverso una batteria di domande che egli scatena nei confronti dell’adulto perché lo aiuti a decifrare il senso della realtà.
Similmente la scienza si regge e si sviluppa proprio sulla base di interrogativi ai quali si cerca di dare risposta. Ed è sempre nella stessa linea che si spiegano quei “Perché?” angosciati che i sofferenti lanciano verso il cielo, in attesa di un’indicazione di significato che giustifichi tanta amarezza e l’apparente assurdità del dolore.
La missione dell’educatore è, pertanto, indispensabile, come lo è quella del padre, del maestro, del sapiente, del sacerdote, del consigliere, del direttore spirituale e così via. Egli, certo, non deve sostituirsi al discepolo o al figlio, ma aiutarlo a inoltrarsi sui sentieri della vita, del pensiero e dell’azione.
Giustamente un famoso pensatore politico francese, Montesquieu (1689-1755), ammoniva lo scrittore che «non bisogna mai esaurire un argomento al punto tale che al lettore non resti nulla da fare. Non si tratta di far leggere ma di far pensare», vale a dire ricercare e proseguire in proprio, per cui il motto del vero “consigliere” dovrebbe essere quello del Battista: «Bisogna che lui, Cristo [nel nostro caso, il discepolo o il figlio], cresca e che io diminuisca» (Giovanni 3,30).
Questa lunga premessa ci introduce nel frammento suggestivo che abbiamo proposto, estraendolo da una delle prime pagine di quel profeta anonimo del VI secolo a.C., il cui scritto è entrato nei capitoli 40-55 del libro del grande Isaia e per questo è stato denominato il Secondo Isaia.
Egli sta puntando l’indice contro una piaga costante di Israele, quella dell’idolatria. Il fascino di una religiosità più accomodante non può cancellare il vuoto che essa lascia nell’anima. Agli idoli il profeta indirizza questa accusa implacabile: «Voi siete un nulla, la vostra opera non vale niente... Vento e vuoto sono gli idoli» (41,24.29). In particolare essi non sono in grado di indicare un percorso, non sanno certo annunziare il futuro, aprendo prospettive verso le quali orientare l’impegno presente. Essi appunto non possono né consigliare né guidare, non sanno proporre scelte giuste né esortare al bene, incitare, incoraggiare gli infelici.
Per questo, il Secondo Isaia fa balenare un vuoto che è segno dell’abbandono da parte del vero Dio nei riguardi dell’umanità: l’assenza dei profeti autentici, che sono le guide, quasi le fiaccole che conducono nelle tenebre verso una meta di salvezza, evitando i precipizi. È un po’ il ritratto dei nostri giorni, privi di padri e di maestri, tempi nei quali ci si lascia catturare dalla propaganda e dalla pubblicità, dai luoghi comuni e dalla deriva della massa. Scriveva san Paolo al suo discepolo Timoteo: «Verrà giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dar ascolto alla verità per volgersi alle favole» (2Timoteo 4,3-4).

Pubblicato il 23 gennaio 2011 - Commenti (0)
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Non griderà nè urlerà

Ecce Homo, Antonello da Messina (1430 ca.-1479), Novara, Broletto.
Ecce Homo, Antonello da Messina (1430 ca.-1479), Novara, Broletto.

"Il mio Servo non griderà né urlerà, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà la canna incrinata, né spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta. "
(Isaia 42,2-3)

Entra in scena presentato da Dio stesso. Non ha un nome, né una genealogia,ma soltanto un titolo, Servo, in ebraico’ebed, che non è indizio di inferiorità, ma espressione di una dignità, diremmo noi, quasi di ministro. Egli appare all’improvviso in un capitolo, il 42, del libro di Isaia: siamo in quelle pagine – che vanno dal capitolo 40 al 55 – assegnate dagli studiosi a un autore diverso rispetto al grande profeta dell’VIII secolo a.C. e che è stato denominato convenzionalmente “il Secondo Isaia”.
Costui era vissuto nel momento arduo ed esaltante del VI secolo a.C., quando il re di Persia, Ciro, spazzato via l’impero babilonese, aveva concesso a Israele di ritornare dall’esilio alla terra dei padri.
La domanda è ora spontanea: chi è questo personaggio che sale alla ribalta in quattro
canti incastonati nei capitoli 42; 49; 50 e 53 del rotolo profetico di Isaia? Tante sono le
identificazioni tentate, sia individuali (un profeta? Geremia? Mosè? Un maestro di sapienza?), sia collettive (Israele stesso, oppure gli Ebrei fedeli che ora stanno per rimpatriare?). Proprio perché soprattutto nell’ultimo dei quattro canti il volto del Servo è segnato dai tratti della sofferenza e la sua è una missione sacrificale, la tradizione cristiana non ha avuto esitazione nell’intravedere in quella figura i tratti del Messia, naturalmente applicati al Cristo della passione, morte e risurrezione.
Noi ora fissiamo lo sguardo su uno dei primi lineamenti di quel Servo che potremmo
riassumere in una parola: la mitezza. Sembra, infatti, di sentire già echeggiare l’appello
di Gesù: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete
il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore. Il mio giogo
è, infatti, dolce e il mio carico leggero» (Matteo 11,28-30). Tre sono le immagini che descrivono la mitezza del Servo.
Innanzitutto la sua non è la voce potente e inquietante degli antichi profeti: il suo è, in
verità, un annunzio di liberazione e di salvezza, non di giudizio e di condanna. Egli non
punta l’indice nella piazza contro le ingiustizie, ma con pazienza passa quasi di casa in casa per convincere e convertire.
Ecco, allora, gli altri due simboli suggestivi e trasparenti: la canna incrinata non è da lui
gettata via, ma riaggiustata e riutilizzata; lo stoppino che sta sfrigolando e crepitando
perché senza olio non viene brutalmente spento, ma di nuovo alimentato perché ritorni
a sfavillare. È un atto d’amore nei confronti di ciò che sembra destinato alla rovina. È
quell’andare in cerca della pecora perduta
, è quell’abbracciare il figlio smarrito e ritornato a casa, è quell’atteggiamento che Gesù costantemente testimonierà con le sue parole e le sue azioni.

Pubblicato il 09 gennaio 2011 - Commenti (0)
19
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Spade e aratri, lance e falci

"Spezzerannole loro spade per farne aratri, trasformeranno le loro lance in falci. Una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. "
(Isaia 2,4)

L’orizzonte planetario è attraversato da un movimento: da ogni angolo della terra si mettono in moto processioni di popoli che convergono verso un monte. Non è il più alto né il più famoso, eppure esso è come un faro di luce che irradia i suoi bagliori sulla distesa delle regioni e dei continenti. Quei flussi umani giungono ai piedi della montagna, ed ecco che dalla sua vetta, ove si leva un tempio, esce personificata la parola di Dio che va incontro all’umanità in ricerca.
Di fronte a questa presenza le genti che sono accorse lasciano cadere a terra spade e lance che hanno recato con sé per difendersi dagli altri popoli a loro estranei. Gli artigiani prendono quelle armi e le forgiano in aratri e falci, ossia in strumenti di sviluppo pacifico. Ormai si chiudono le scuole di guerra e si aprono centri di studio e di ricerca per il bene dell’umanità; le pianure non sono più campi di battaglia, ma terreni coltivati, agli armamenti sono subentrati gli armenti.
Abbiamo voluto “sceneggiare” una delle grandi pagine di quel Dante della poesia ebraica e vertice dei profeti d’Israele che è Isaia. È facile sciogliere il significato della parabola. Il suo è, infatti, un inno dedicato a Sion, la sede del tempio di Gerusalemme e della casa di Davide, quindi della presenza divina nello spazio, nella storia e nella Parola (la Tôrah, la Legge e la rivelazione del Signore).
La speranza di questa convergenza planetaria verso il vero Dio per l’edificazione di un
mondo di pace è collocata dal profeta «alla fine dei giorni» (2,2).
È, perciò, una meta sperata come fine ultimo della vicenda umana, ma già ora si deve cominciare a costruire questo ordine di serenità, di collaborazione, di sviluppo. E in prima fila dovrebbero essere proprio i fedeli. Esclama, infatti, Isaia nella conclusione del suo cantico-visione (1,1): «Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore» (2,5). Naturalmente questo affresco grandioso ha due connotati che meritano una sottolineatura particolare.
Da un lato, la pace-shalôm, che non è solo cessazione delle ostilità tra i popoli, ma anche
inaugurazione di una nuova era di armonia e di benessere, apre il sipario sul regno del Messia, un regno di giustizia e di pace, di difesa dei poveri e di fraternità. È ciò che Isaia dipingerà nelle due pagine stupende di 9,1-6 e 11,1-9, due testi da meditare, cari alla tradizione natalizia cristiana che li applica a Cristo e alla sua opera. Un forte messaggio di speranza nel futuro e di attesa fiduciosa.
D’altro lato, affiora qui quella linea universalista che serpeggerà in vari passi della letteratura profetica e sapienziale d’Israele e che avrà una sua celebrazione ultima nella visione neotestamentaria. A questo proposito vorremmo evocare solo un annuncio presente proprio nel libro di Isaia, ma appartenente a un autore posteriore che si è voluto mettere sotto il patronato del grande profeta di Giuda. Anche questo oracolo è collocato «in quel giorno», equivalente, in pratica, alla formula isaiana «alla fine dei giorni»: «In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria [le due superpotenze d’allora], una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti così: Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità» (19,24-25).

Pubblicato il 19 dicembre 2010 - Commenti (0)

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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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