Gesù guarisce un cieco, affresco, scuola cassinese. Sant'Angelo in Formis, Capua.
"Quegli, alzando gli occhi, diceva:
«Vedo la gente, perché vedo
come degli alberi che camminano»".
(Marco 8,24)
Ambientato a Betsaida (in aramaico “casa
dei pescatori”), la patria degli apostoli
Pietro, Andrea e Filippo, villaggio situato
sul lago di Tiberiade, questo miracolo
piuttosto sorprendente mette in scena un Gesù
che non riesce a guarire un cieco se non attraverso
due interventi successivi.
È solo Marco a
narrarci questo episodio dal carattere storico
e simbolico al tempo stesso. Storico, perché
non si sarebbe mai inventato un atto miracoloso
che mostra un Gesù incapace di guarire
di primo acchito, ma costretto a ripetere l’operazione
sul malato. Simbolico, per la tipologia
del paziente e il contesto che assegna all’evento
un probabile significato ulteriore.
Iniziamo con la vicenda concreta. Secondo
la tradizionale convinzione per la quale si assegnava
alla saliva un potere terapeutico, Gesù
spalma la sua saliva sugli occhi di un cieco, come
farà a Gerusalemme con un caso congenito
analogo (Giovanni 9,6).
Impone poi le mani sul
malato e attende l’esito che è, però, piuttosto
imprevisto: il cieco comincia, sì, a vedere ma
confessa di intuire le figure umane in maniera
confusa, come se fossero alberi in movimento.
Cristo, allora, ripete l’imposizione delle mani
«ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano
vedeva distintamente ogni cosa» (Marco
8,25).
Segue il monito, frequente nel Vangelo
di Marco, di evitare ogni pubblicità al gesto:
«Non entrare nemmeno nel villaggio», impone
Gesù all’ex cieco (8,26).
Espressione dell’umanità di Cristo che si
lega alle tradizioni mediche popolari e che
rivela persino una difficoltà operativa, questo
racconto ha, però, su di sé un velo simbolico
suggestivo. Innanzitutto per la sindrome
in questione, la cecità.
Certo, il fenomeno era
in sé fisico, derivante anche dalle infezioni
oftalmiche purulente, provocate o aggravate
dal sole incandescente, dal sudiciume, dal
vento che sollevava polvere. Per questo sono
molteplici le guarigioni evangeliche di ciechi
(Matteo 9,27-32; 20,29-34; Marco 10,46-52;
Luca 18,35-43; Giovanni 9,1-7).
Ma è facile intuire che, essendo la luce
un simbolo di Dio (1Giovanni 1,5) e di Cristo
(Giovanni 8,12), la liberazione dalla cecità
acquista un senso più profondo, messianico,
tant’è vero che lo stesso Gesù, nel
suo discorso programmatico nella sinagoga
di Nazaret, non esita ad attribuire a sé
il passo isaiano secondo il quale la sua
missione comprendeva anche il ridare «la
vista ai ciechi» (Luca 4,18), impegno che ribadirà
come proprio e specifico ai discepoli
del Battista venuti a interrogarlo come
Messia (Matteo 11,5).
L’episodio del cieco di Betsaida – a causa
del contesto che contiene subito dopo la
confessione di Pietro, il quale proclama Gesù
come il Cristo, ma che registra anche le
incertezze della folla per la quale Gesù è il
Battista o Elia o uno dei profeti redivivi – potrebbe
anche comprendere un’allusione alla
difficoltà nel “vedere” della fede. Essa
può attraversare una fase preparatoria,
quella appunto che intuisce confusamente
in Gesù un profeta che ritorna sulla scena
di Israele. Ma alla fine raggiunge la piena luce,
come accade a Pietro che, secondo Marco
(8,29), vede in lui “il Cristo”, ossia il Messia,
e secondo Matteo (16,16) ancora di più:
«il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
Pubblicato il 15 ottobre 2012 - Commenti (1)