23 giu
San Paolo, mosaico della volta, Ravenna, Arcivescovado.
"Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno."
(Filippesi 1,21)
Potrebbe essere assunto quasi come il
motto di san Paolo. Sono poche parole
che nell’originale greco suonano così:
emoì gàr tò zèn Christòs kaì tò apothaneìn kérdos.
Il contrasto “vita e morte”, classico in tutte
le culture, viene dissolto perché il morire
non s’affaccia sul baratro del nulla: chi vi approda,
infatti, porta nella sua persona e nella
sua esistenza Cristo che è Figlio di Dio e,
quindi, vivente per sempre nell’eternità divina.
Anzi, avviene qualcosa di paradossale:
proprio perché, varcata la soglia del tempo,
non si hanno più le turbolenze della storia,
le fragilità della creatura, le debolezze della
persona che possono incrinare quell’intimità
con Cristo già ora vissuta, il morire diventa
un “guadagno”.
Certo, qualche tensione permane, come l’Apostolo fa notare nelle righe che seguono: «Sono stretto fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo (il che sarebbe meglio); ma per voi [ossia per i cristiani di Filippi e per quelli delle altre Chiese] è più necessario che io rimanga nel corpo» (1,23-24). Detto con altre parole, Paolo anela alla vita piena, totale e assoluta col suo Signore oltre la morte, ma sa di avere una missione da compiere anche nella fase temporale della sua vicenda umana, cioè quella ecclesiale che Cristo stesso gli ha affidato. Infatti, l’Apostolo definisce il «vivere nel corpo» come un «lavorare con frutto» (1,22).
Nella frase che abbiamo scelto scopriamo un aspetto particolare di questo grande evangelizzatore, la sua dimensione mistica, il suo legame intimo e profondo con Cristo, la sua comunione stretta e radicata col mistero divino che diventa una sorgente di energia e di gioia per la sua missione apostolica. Ai Galati aveva già ribadito di essere «crocifisso con Cristo»; per questo «non vivo più io, ma Cristo vive in me» (2,19-20). Ritorna un tema caro a Paolo: il cristiano attraverso il Battesimo e la fede rivive in sé il mistero pasquale di Cristo, nel suo morire e risorgere. Leggiamo con attenzione queste righe scritte ai cristiani della città di Colossi, nell’attuale Turchia centrale: «Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Ma quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria» (3,3-4).
Una nota a margine. Sopra dicevamo che Paolo comprende la necessità che egli continui a vivere e a operare nel tempo per svolgere ulteriormente la sua missione apostolica nei confronti dei Filippesi. Ebbene, se è vero che l’intimità più alta e risolutiva è quella che unisce l’Apostolo a Cristo, è altrettanto vero che egli sente con questi cristiani – più che con gli altri – un’altra intimità, quella dell’amicizia. Questi fedeli, di un’importante città della Macedonia, lo coprono di regali, mentre egli è in custodia presso il «pretorio» (1,13) e la «casa di Cesare» (4,22), in pratica la prefettura romana di Efeso. La durezza del carcere, la solitudine e la lontananza sono lenite da un affetto che unisce, sia pure a distanza, i cuori.
Sebbene molti studiosi tendano a vedere in questa Lettera la fusione redazionale posteriore di tre missive diverse inviate da Paolo ai Filippesi, alla fine la tonalità dominante è unica. La comunione di fede e di carità che unisce mittente e destinatari è il filo segreto unitario, anche quando l’Apostolo deve mettere in guardia severamente contro le devianze dottrinali che stanno allignando a Filippi (3,2-4,1). «Sono ricolmo dei vostri doni che sono un profumo piacevole, un sacrificio gradito, caro a Dio» (4,18).
Pubblicato il 23 giugno 2011 - Commenti (1)
16 giu
Mary Parker (1799-1864), Monte Sinai, acquerello, Londra, Victoria & Albert Museum.
"Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di amore e di fedeltà.”
(Esodo 34,6)
Quelle che noi abbiamo citato sono solo
le prime parole di un passo biblico che
è stato definito da un esegeta francese,
André Gelin, «la carta d’identità di Dio». Prima
di scorrere queste righe, ricostruiamo la scena
che funge da fondale. È l’alba. Mosè si è arrampicato
lungo le pendici erte e pietrose del monte
Sinai, reggendo tra le mani le due tavole
marmoree che dovranno accogliere il nuovo
Decalogo, dopo che le precedenti erano state
spezzate di fronte all’idolo del vitello d’oro eretto
dal popolo (Esodo 32,19-20). La vetta della
montagna sacra è immersa nelle nubi.
Mosè le varca e si trova nell’oscurità che
all’improvviso è squarciata da una voce possente.
È Dio stesso che si autopresenta con le
parole che abbiamo evocato. È un autoritratto
sorprendentemente dolce che si modella
sulla promessa che il Signore stesso aveva fatto
a Mosè quando costui gli aveva chiesto di
poter vedere il suo volto. «No, tu non potrai
vedere il mio volto, perché nessun uomo
può vedermi e restare vivo». Tuttavia, uno
svelamento ci sarà: «Farò passare davanti a te
tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome,
Signore, davanti a te... Ti porrò poi nella cavità
di una rupe e ti coprirò con la mano, finché
non sarò passato. Poi toglierò la mano e
vedrai solo le mie spalle, ma il mio volto non
lo si può vedere!» (Esodo 33,18-23).
Ora Mosè sa che il Dio invisibile è là, davanti
a lui, perché sta proprio proclamando il suo
nome “Signore”, in ebraico il nome sacro e impronunciabile
Jhwh. Ma subito dopo Dio aggiunge
quattro attributi che completano la sua
“carta d’identità”. Il primo è in ebraico rahûm,
che la versione “misericordioso” rende solo in
modo pallido perché il termine originale allude
alle viscere materne, a una sorta di affetto
“viscerale” appunto, totale e assoluto come
è quello di una madre o di un padre. Il secondo
aggettivo è hanûn e anche qui la traduzione
“pietoso” è esangue e debole, perché l’originale
rimanda alla “grazia”, al dono, alla gratuità
di un rapporto d’amore.
La terza qualità divina è la sua paziente attesa
che l’umanità si converta, prima che egli
debba intervenire con la sua “ira”, che in
ebraico è curiosamente (e antropomorficamente)
raffigurata con le “narici” sbuffanti
(’appîm). L’ultimo tratto è affidato a un binomio
di parole che sono quelle tipiche per definire
l’alleanza tra il Signore e Israele. In
ebraico sono hesed e ’emet, “amore” e “fedeltà”,
coppia di termini destinati a esprimere
quella ricca trama di relazioni, di sentimenti,
di affetti che intercorrono tra due persone
che sono legate tra loro da un vincolo d’amore
e da un patto di fedeltà.
La terza qualità divina è la sua paziente attesa
che l’umanità si converta, prima che egli
debba intervenire con la sua “ira”, che in
ebraico è curiosamente (e antropomorficamente)
raffigurata con le “narici” sbuffanti
(’appîm). L’ultimo tratto è affidato a un binomio
di parole che sono quelle tipiche per definire
l’alleanza tra il Signore e Israele. In
ebraico sono hesed e ’emet, “amore” e “fedeltà”,
coppia di termini destinati a esprimere
quella ricca trama di relazioni, di sentimenti,
di affetti che intercorrono tra due persone
che sono legate tra loro da un vincolo d’amore
e da un patto di fedeltà.
A questo punto il nostro frammento si allarga in un canto dell’amore, hesed, di Dio. Esso è modulato su due simboli numerici,
il 1000 e il 3+4 (allusione al 7). La giustizia divina è, certo,
perfetta perché adotta il 7, che in Oriente è segno di pienezza;
l’amore, però, usa il 1000, che è invece indizio di infinito.
Ascoltiamo, allora, le ultime parole che in quell’alba nebbiosa, sulla
cima del Sinai, Dio proclamò a Mosè: «Il Signore conserva il suo amore
per mille generazioni, perdona la colpa, la trasgressione e il peccato;
ma non lascia senza punizione, castiga la colpa dei padri nei figli e
nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (34,7).
Pubblicato il 16 giugno 2011 - Commenti (0)
09 giu
Correggio (Allegri Antonio, 1489-1534), l'Incoronata, Parma, Galleria Nazionale.
"Il Signore è lo Spirito e dove c'è lo Spirito del Signore, c'è libertà. ”
(2Corinzi 3,17)
Questa volta scegliamo una frase incisiva,
quasi lapidaria, che san Paolo incastona
in una Lettera tormentata
com’è la Seconda ai Corinzi, destinata a una
comunità travagliata e un po’ ribelle che ha
fatto molto soffrire l’Apostolo. Una frase che
non è così semplice come appare a prima vista,
tant’è vero che non sono mancati discussioni e approfondimenti da parte degli esegeti biblici.
Infatti, a prima vista sembrerebbe
che si identifichino Cristo – che nell’epistolario
paolino è chiamato Kyrios, “Signore”
– e lo Spirito Santo, oppure lo stesso Dio Padre
con lo Spirito, se si accoglie l’uso delle Sacre
Scritture secondo l’antica versione greca
che rendeva il nome divino ebraico Jhwh con
Kyrios, “Signore”.
In realtà, se noi sfogliamo la Lettera, ci accorgiamo che san Paolo conosce e distingue la Trinità: «Dio stesso ci conferma in Cristo… e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori» (2Corinzi 1,21-22). E l’ultima riga della Lettera reca questo saluto, che ancor oggi noi usiamo nella liturgia: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» (13,13).
Qual è, allora, il senso della dichiarazione di san Paolo presente nel nostro frammento? Egli forse vuole solo esaltare il nesso profondo che intercorre tra Cristo e lo Spirito Santo: Cristo lo invia col Padre nella storia dell’umanità per svelare in pienezza la sua parola di salvezza. Oppure l’Apostolo assume il termine “Spirito” in senso più lato, indicando che in Cristo c’è l’epifania dello Spirito divino, cioè della presenza salvatrice di Dio.
Ed è per tale motivo che, dove irrompe questo Spirito del Signore, fiorisce la libertà. Questa parola è ormai sulle labbra di tutti ed è inflazionata e abusata. Come diceva il filosofo mistico indiano Sri Aurobindo (1872-1950), «tutto il mondo aspira alla libertà, e tuttavia ciascuna creatura è innamorata delle proprie catene».
Un altro autore, il poeta francese “rivoluzionario” Paul Eluard (1895-1952), confessava: «Sui miei quaderni di scolaro, / sul banco e sugli alberi, / sulla sabbia e sulla neve / scrivo il tuo nome, libertà; / su tutte le pagine lette, / su tutte le pagine bianche, / pietra sangue o cenere / scrivo il tuo nome». Certo, la libertà sociale e culturale è un cardine del vivere civile e i condizionamenti e le gabbie che la società ci impone sono un male che vìola l’opera del Creatore che ha voluto libera la creatura umana.
Ma il senso che la parola “libertà” in san Paolo o in san Giovanni («la verità vi farà liberi », ad esempio) è di impronta diversa, cioè religiosa e spirituale. Da un lato, è la liberazione dal peccato, dalle catene della colpa, dagli stessi legami della Legge che ci impone una cappa di piombo di precetti senza darci la forza di osservarli e, quindi, facendoci cadere nella trasgressione.
D’altro lato, in positivo, la libertà è invece l’adesione gioiosa alla parola di Dio che dà luce e gioia, è l’accoglienza della grazia divina la quale è come un abbraccio che ci solleva dal fango del peccato.
Il respiro dello Spirito del Signore ci apre, allora, orizzonti luminosi di libertà interiore. «Mandi il tuo Spirito, Signore, sono creati e rinnovi la faccia della terra», canta il Salmista (104,30). Ecco perché dobbiamo invocare lo Spirito Santo, principio di liberazione piena e di amore. Lasciamo ora la parola a una poetessa contemporanea, Elena Bono, e a pochi suoi versi: «Lo Spirito di Dio è una colomba bianca…/ Vieni su di noi, / prima che il vento disperda le polveri stanche / e i corvi ci abbiano divorati…».
Pubblicato il 09 giugno 2011 - Commenti (0)
02 giu
Giotto (Giotto di Bondone 1266-1336), Elia sul carro di fuoco, Padova, Cappella Scrovegni.
"Tu sei stato assunto in un turbine di fuoco su un carro di cavalli di fiamma.
Beati coloro che ti videro e si addormentarono nell’amore ”
(Siracide 48,9.11)
«Sorse Elia profeta, come un fuoco;
la sua parola ardeva come una
fiaccola» (48,1). Inizia così il ritratto
che il Siracide, sapiente biblico del II secolo
a.C., ha disegnato con intensa ammirazione
nella galleria di personaggi destinati a occupare
le ultime pagine del suo libro, giunto
a noi nella versione greca di suo nipote e in
ampie porzioni dell’originale ebraico attraverso
una serie di scoperte a partire dalla fine
dell’Ottocento.
Il simbolo che idealmente accompagna Elia è il fuoco e questo appare soprattutto nella celebre ordalia del monte Carmelo, quando egli sfidò i sacerdoti e i profeti del dio cananeo Baal – il cui culto era stato favorito dalla regina di allora, la fenicia Gezabele (IX sec.), moglie del re di Israele Acab – a invocare la loro divinità perché facesse piovere fuoco dal cielo per incendiare i sacrifici. Il fuoco scese, ma solo dopo la preghiera che Elia rivolse al Signore: la fiamma «consumò l’olocausto, la legna, le pietre e la cenere» (si legga la pagina emozionante di 1Re 18,20-40).
Nel frammento del Siracide, che abbiamo proposto, di scena è invece la gloriosa fine del profeta, segnata da un’ascensione al cielo su un cocchio fiammeggiante (il racconto è in 2Re 2,1-18, un’altra pagina mirabile che ha conquistato la storia dell’arte). Si celebra, così, la vita di Elia oltre la morte, nell’incontro pieno e definitivo con quel Signore che egli aveva servito con coraggio, spesso nella solitudine e persino nella persecuzione da parte del potere politico, che non tollerava una voce così libera, franca e verace.
Si fa strada, in tal modo, anche nell’Antico Testamento la concezione secondo la quale il fiume dell’esistenza del giusto non ha come estuario il baratro del nulla, ma la comunione con Dio, oltre il tempo nell’eterno. Come cantava il Salmista: «Tu, o Signore, non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa. Mi indicherai invece il sentiero della vita, gioia piena davanti al tuo volto, dolcezza senza fine alla tua destra» (Salmo 16,10-11). Già nelle prime pagine della Bibbia il giusto Enok, che «aveva camminato con Dio» durante la sua esistenza terrena, «poi scomparve perché Dio l’aveva preso», cioè assunto nella sua gloria (Genesi 5,24).
Ai piedi di Elia che ascende avvolto nel fuoco, segno divino (si ricordi il roveto ardente del Sinai), c’è il suo discepolo e successore Eliseo che lo contempla e lo invoca. In lui il Siracide colloca tutti coloro che seguirono il profeta e, quindi, i fedeli al vero Dio e ad essi riserva una bella epigrafe che potremmo augurare a noi stessi sulla nostra tomba: «Beati coloro che si addormentarono nell’amore!». Un amore donato da Dio e dai fratelli e ricambiato da noi al Signore e a loro.
C’è, però, una frase che segue e che noi non abbiamo citato perché nell’originale è un po’ oscura. Potremmo, tuttavia, renderla così: «È certo, infatti, che anche noi vivremo » (o «possederemo la vita»). Chi ama, allora, deve avere in sé la certezza di fede che condividerà la stessa sorte di Elia. Come scriveva un autore polacco, Jan Dobraczynski nelle sue Lettere di Nicodemo (1952), «il fuoco dello Spirito ci ha toccati con la sua carezza capace di trasformare un pugno d’argilla in un corpo vivente... Racchiudiamo in noi un fuoco capace di trasformare il mondo».
Pubblicato il 02 giugno 2011 - Commenti (0)
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