24 nov
Riposo dei cavatori di Baccio Maria Bacci (1888-1974). Firenze, Galleria d'arte moderna.
" Vegliate!
Non sapete
quando il padrone
di casa ritornerà:
se a sera
o a mezzanotte.
Giungendo
all'improvviso,
non vi trovi
addormentati! "
(Marco 13,35-36)
Lunga più del giorno sembra la notte, con le sue tenebre. Lo sa bene il sofferente insonne, come confessa Giobbe: «Notti di ansia mi sono ormai riservate. Se mi corico, dico: Quando è ora di alzarsi? La notte è sempre più lunga e io sono stanco di rigirarmi fino all’alba» (7,3-4). Isaia, come è noto, ha “sceneggiato” dal vivo questa estensione soffocante attraverso il dialogo di due sentinelle: «Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte? L’altra sentinella risponde: Viene il mattino, ma poi ancora la notte... » (21,11-12). Per questo era invalso l’uso di dividere l’arco della notte in “veglie”, in pratica in turni di guardia.
Gli Ebrei ne contavano tre di quattro ore ciascuna. Marco, invece, nel frammento dall’atmosfera molto tesa che abbiamo proposto, adotta il sistema di computo in vigore presso i Romani. Essi suddividevano la notte in quattro “veglie” di tre ore: si iniziava con la «sera», in greco opsé, a cui subentrava la «mezzanotte» (mesonýktion); si sentiva poi il «canto del gallo» (alektorofonía) ed ecco, infine, l’alba, il proí. Gesù, però, introduce su questa sequenza temporale un bozzetto narrativo. Siamo in un palazzo, il padrone è andato lontano, ma ormai è sulla via del ritorno. Ignota e imprevedibile è la durata della “veglia” notturna al termine della quale il signore si presenterà al portone. I servi devono, quindi, “vegliare”.
Questo verbo ricorre in apertura alla scenetta: «Vegliate», in greco gregoréite! E ritorna anche nell’appello-applicazione finale che Gesù fa al quadretto delineato: «Quello che dico a voi, lo dico a tutti: gregoréite, vegliate! » (13,37). Appare, così, una dimensione significativa della predicazione di Gesù, quella dell’urgenza per una scelta da compiere: «Tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (Matteo 24,44). Spesso nella predicazione attorno a questo passo evangelico si fa riferimento alla morte, che è un ospite che non s’annuncia. In realtà, Gesù rimanda al suo passaggio che avviene nella storia e nel presente e che esige una decisione netta. Potremmo evocare un’altra mirabile scenetta, quella dipinta dall’Apocalisse: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20).
In questa luce si intuisce come il sonno sia il segno dell’indifferenza, anzi, del rifiuto di un impegno serio e operoso. Se è vero che la tenebra è simbolo del male e del peccato, è evidente che chi si adagia nel suo grembo facendosi accogliere e cullare diventa «figlio delle tenebre», cioè succube dell’empietà e dell’immoralità. Continuerà san Paolo, commentando idealmente le parole di Cristo: «Voi, però, non siete nelle tenebre... perché siete figli della luce e del giorno. Noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo, allora, come gli altri, ma vegliamo e siamo sobri!» (1Tessalonicesi 5,4-6).
Ma l’Apostolo è convinto di una necessità che vale anche per i cristiani che si lasciano lambire dal torpore: «È ormai tempo di svegliarsi dal sonno, perché adesso la salvezza è vicina... La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce!» (Romani 13,11-12).
Pubblicato il 24 novembre 2011 - Commenti (1)
06 ott
Pianto di ragazza (1964), opera di Roy Lichtenstein.
“ Il Signore
Dio eliminerà
la morte
per sempre,
asciugherà
le lacrime
su ogni volto,
farà scomparire
da tutta la terra
l'ignominia
del suo popolo."
(Isaia 25,8)
È noto che il “rotolo” di Isaia è, per così dire,
scritto con più inchiostri e a più mani:
diversi, infatti, sono gli autori profetici
che vi prendono parte e differenti sono i
temi, le tonalità e le coordinate storiche. Ora
noi abbiamo ritagliato un versetto da una
sorta di fascicolo di oracoli, intrecciati a suppliche
e inni, che occupa i capitoli 24-27 del
libro del grande Isaia e che gli studiosi hanno
denominato “l’Apocalisse di Isaia”. Le immagini,
lo stile, i soggetti, infatti, hanno le
caratteristiche di quella particolare letteratura
chiamata “apocalittica” (dal greco apokálypsis,
“rivelazione”), che ha il suo avvio
con il profeta Ezechiele, il suo trionfo con Daniele
e con Zaccaria e che approda nel Nuovo
Testamento con l’Apocalisse di Giovanni.
È significativo che proprio quest’ultimo libro
citi esplicitamente il nostro passo isaiano
nel suo glorioso ritratto della Gerusalemme
nuova e perfetta e lo faccia ben due
volte: «L’Agnello, che sta in mezzo al trono,
sarà il pastore [degli eletti] e li guiderà alle
fonti dell’acqua della vita. E Dio asciugherà
ogni lacrima dai loro occhi... E asciugherà
ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più
la morte né lutto né lamento né affanno perché
le cose di prima sono passate» (Apocalisse
7,17; 21,4). Ritorniamo ora al testo originario,
quello presente nel libro di Isaia. Esso fa
parte di un canto più ampio (25,6-10a) che
ha al centro un simbolo divenuto celebre nella
tradizione giudaica e cristiana.
Lasciamo la parola al profeta: «Il Signore
degli eserciti preparerà per tutti i popoli su
questo monte un banchetto di grasse vivande,
un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti,
di vini raffinati» (25,6). Dio, quindi,
entra in scena come un re che imbandisce
un pranzo ufficiale dal menù prelibato. Sappiamo
che la mensa è un segno di amicizia e
di intimità in tutte le civiltà. Il Signore, perciò,
vuole unirsi idealmente all’intera umanità,
ma lo fa nella sua sede che è il monte
Sion a Gerusalemme.
Per rendere agevole questo afflusso universale
egli deve togliere il velo di nubi che separa
quella vetta, deve eliminare la coltre di tenebra
che come un sudario di morte si stende
sulla terra, così che possa brillare la luce e
tutti possano camminare al suo fulgore.
Quando tutti si sono accomodati ai loro posti
attorno alla mensa, il Signore passa in mezzo
a loro per tergere i segni della sofferenza e
della fatica che contaminano i volti. È un atto
di ospitalità suprema che sfocia in una promessa
assolutamente unica che solo Dio può
fare: «Eliminerà la morte per sempre!».
A questo punto sboccia dalle labbra di tutti
un canto festoso: «Ecco il nostro Dio! In lui abbiamo
sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore
in cui abbiamo sperato; rallegriamoci,
esultiamo per la sua salvezza!» (25,9). È facile
comprendere come questa scena luminosa
e gioiosa sia divenuta il quadro ideale per
raffigurare l’ingresso glorioso del Messia
nella storia. Ma sia anche la rappresentazione
della meta ultima della vicenda umana così
come l’attende la fede biblica, un approdo
nella vita piena e perfetta. È ciò che aveva già
annunziato un altro profeta, Osea, e le sue parole
erano state riprese da san Paolo: «Li strapperò
dalla mano degli inferi, li riscatterò dalla
morte? Dov’è, o morte, la tua peste? Dov’è,
o inferi, il vostro sterminio?» (13,14). Ma il
profeta era ancora scettico; l’Apostolo, invece,
non avrà esitazioni perché commenterà quel
passo così: «Questo corpo corruttibile si rivestirà
di incorruttibilità e questo corpo mortale
di immortalità» (1Corinzi 15,54-57).
Pubblicato il 06 ottobre 2011 - Commenti (2)
29 set
Gesù precipita Satana di Mattia Preti (1613-1699). Napoli, Museo di Capodimonte.
“ La superbia
del tuo cuore
ti ha sedotto...
Anche se,
come aquila,
riesci a porre in
alto il tuo nido,
anche se lo
collocassi tra
le stelle,
di lassù io ti farò
precipitare."
(Abdia 3-4)
«Dovunque egli arrivi, il superbo si
mette a sedere e tira fuori dalla
valigia la sua superiorità». Con
ironia lo scrittore ebreo bulgaro-tedesco Elias
Canetti, Nobel 1981, nel suo libro Un regno di
matite, dipingeva questo che è il primo e fondamentale
vizio capitale che già alligna nel
giardino dell’Eden: «Sarete come Dio» è, infatti,
la promessa che il tentatore fa all’orgoglio
di Adamo. Questa attrazione perversa che
fa dell’Io un dio idolatrico è raffigurata in
modo folgorante anche dall’autore del più
breve di tutti i libri profetici, Abdia, il cui
nome è un emblema, “Servo del Signore”. Di
lui non sappiamo nulla e l’unica pagina di 21
versetti di cui si compone la sua opera echeggia
eventi di difficile decifrazione e collocazione
cronologica.
Si pensi, poi, che quasi la metà di questa pagina
(versetti 2-9) si ritrova anche nel più lungo libro
dell’Antico Testamento, quello del profeta
Geremia (49,7-22), sia pure con variazioni. Ma
lasciamo agli esegeti di esercitarsi sull’enigma
Abdia e puntiamo sul frammento che abbiamo
scelto, ritagliandolo all’interno del suo canto
polemico – dominante nel suo scritto – contro
Edom, uno dei tradizionali nemici di Israele,
un popolo discendente da Esaù, il fratello maggiore
di Giacobbe-Israele, da quest’ultimo ingannato
e quindi divenuto vittima del suo odio
(Genesi 25,19-34 e 27,1-46).
Un odio che era dilagato anche nei loro discendenti
e che è suggellato qui da Abdia con
la sua accusa nei confronti di Edom, «ingannato
dalla superbia del suo cuore». Questa
nazione bellicosa del deserto che, come dice
Abdia, «abita nelle caverne della roccia»,
un’allusione alla sua capitale, Ha-Sela’ (2Re
14,7), forse Petra in Giordania, «dice in cuor
suo: Chi potrà scagliarmi a terra?». Ecco, allora,
il severo giudizio divino che umilia i superbi.
La scena è molto vivida: l’aquila riesce
a collocare il suo nido in alture irraggiungibili
da piede umano e col suo volo maestoso
sembra mirare alle stelle.
È questo il simbolo più efficace per illustrare
l’arroganza del superbo che vorrebbe sfidare
Dio, ascendendo verso il cielo, in un atto
blasfemo e dissacratorio. È quello che Isaia
rappresenta in una delle sue pagine più potenti
nella quale il profeta mette in scena il grande
“imperatore” di allora, il re di Babilonia, la
superpotenza orientale. Il suo è un sogno – che
potremmo chiamare “apoteosi”, usando una
parola di origine greca che designa la “divinizzazione”
– un sogno tratteggiato appunto come
un’ascensione celeste: «Salirò in cielo, sulle
stelle di Dio innalzerò il mio trono, risiederò
sul monte dell’assemblea divina... Salirò sulle
regioni che sovrastano le nubi, mi farò uguale
all’Altissimo» (Isaia 14,13-14).
Ma subito dopo, proprio come nella breve e
icastica finale del passo di Abdia, anche Isaia introduce
una svolta radicale: «E invece, sei stato
precipitato negli inferi, scaraventato nelle profondità
degli abissi» (14-15). La meta del folle
volo orgoglioso del re di Babel e di quello di
Edom non è lo zenit divino ma il nadir infernale:
l’ascensione si trasforma in una discesa
precipite e catastrofica. È, questa, la lezione
che il testo del misterioso profeta che conosciamo
come Abdia ci lascia nel frammento della
sua brevissima profezia, siglata in finale da
una frase netta e definitiva: «Il regno sarà del Signore
» (versetto 21). Il pensiero corre, allora, alle
parole di Cristo: «Vedevo Satana cadere dal
cielo come folgore» (Luca 10,18).
Pubblicato il 29 settembre 2011 - Commenti (2)
21 apr
Mattoni d'argilla al sole, fragile casa dell'uomo che ritorna polvere e sabbia
"Quando verrà dissolta la nostra casa terrena, cioè la tenda del nostro corpo, avremo da Dio una dimora, sarà una casa eterna, non edificata da mani d’uomo, celeste."
(2Corinzi 5,1)
Siamo «abitatori di case d’argilla, cementate
nella polvere, e che si sfasciano
come carie... Le corde della tenda
sono strappate e moriamo senza capire». Le
parole amare e realistiche del libro di Giobbe
(4,19.21) dipingono la radicale fragilità
della creatura umana che un altro sapiente
biblico, l’autore del libro della Sapienza, tratteggerà
con un linguaggio desunto dalla cultura
classica greca che marcava la tensione
tra anima spirituale e corpo materiale: «Un
corpo corruttibile appesantisce l’anima e la
tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri
» (9,15).
È, questa, un’esperienza che tutti proviamo
quando, attraverso una malattia, sentiamo
ramificarsi in noi la mano gelida della
morte che crea un disfacimento della «tenda
del nostro corpo» in cui sembra accampata la
nostra anima. Questa immagine nomadica
della tenda è cara naturalmente alla Bibbia
che si rivolge a un popolo di pastori.
Ecco come il re di Giuda, Ezechia, contemporaneo
di Isaia (VIII secolo a.C.), descriveva
la sua situazione dimalato grave: «La mia tenda
sta per essere divelta e scagliata lontano
da me, come una tenda di pastori. Come un
tessitore tu, o Dio, hai arrotolato la mia vita e
stai per recidermi dall’ordito» (Isaia 38,12).
Anche san Paolo ricorre a queste immagini
per descrivere la nostra morte: parla, infatti,
di “tenda”, ma rimanda pure all’emblema
del sedentario, l’oikía in greco, ossia la “casa”.
Tuttavia, il suo sguardo va oltre questa
dissoluzione che per molti è il tragico approdo
ultimo e unico della nostra esistenza. E lo
fa sulla base della fede nella risurrezione di
Cristo. Nello sfacelo della morte è, infatti,
passato lo stesso Figlio di Dio, che di sua natura
è eterno: in quell’ammasso di argilla
sfatta che è il cadavere ha deposto un germe
di eternità, vi ha immesso il principio della
nostra riedificazione gloriosa.
Ecco, allora, la nostra nuova dimora che,
come il corpo risorto di Cristo, non è «edificata
da mani d’uomo». Gesù stesso l’aveva indirettamente
affermato per sé e annunciato davanti
ai giudici del Sinedrio quando non aveva
smentito l’accusa dei testimoni che affermavano:
«Lo abbiamo udito dire: Io distruggerò
questo tempio eretto da mani d’uomo e
in tre giorni ne edificherò un altro non eretto
da mani d’uomo» (Marco 14,58). Infatti,
un giorno, dopo aver cacciato i mercanti dal
tempio, aveva dichiarato: «Distruggete questo
tempio e in tre giorni lo farò risorgere». E
l’evangelista Giovanni aveva commentato:
«Egli parlava del tempio del suo corpo»
(2,19.21). L’apostolo Paolo agli stessi cristiani
di Corinto aveva descritto così la risurrezione
che ci attende: «Si semina un corpo corruttibile
e risorge incorruttibile; si semina un
corpo animato, risorge un corpo spirituale»
(1Corinzi 15,42-44).
Significativa è l’ultima frase nell’originale
greco: ciò che ora noi siamo è un «corpo animato
», ossia congiunto e reso vivo e operante
dalla psyché, l’“anima”; ma l’attesa è per
un corpo animato dallo pneuma, cioè posseduto
e trasformato dallo Spirito di Dio, «un
corpo spirituale», pervaso dalla stessa vita divina,
la «casa eterna, non edificata da mani
d’uomo e celeste», di cui parla san Paolo nel
nostro frammento. Come cantava la poetessa
Margherita Guidacci (1921-1992), «quanto di
te sopravvive / è in altro luogo, misterioso, /
ed ormai reca un nome nuovo / che solo Dio
conosce».
Pubblicato il 21 aprile 2011 - Commenti (0)
24 feb
Gioie materne, opera di Stefano Ussi (1822-1901), Firenze, Galleria d’Arte Moderna
"Si dimentica forse una donna del suo bimbo, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece mai ti dimenticherò!"
(Isaia 49,25)
«Il cuore di una madre è un abisso in
fondo al quale si trova sempre un perdono
». Così scriveva il romanziere
francese ottocentesco, Honoré de Balzac, nella
sua opera La donna di trent’anni, illuminando
un segreto profondo del cuore materno.
È su questa base che si sviluppa anche la
stupenda dichiarazione che il profeta Isaia
raccoglie da Dio nei confronti del suo «figlio
primogenito», come è chiamato nella Bibbia
Israele (Esodo 4,22). È interessante notare
che una studiosa tedesca, Hanna-Barbara
Gerl, anni fa ha elencato, accanto a ottanta
immagini maschili applicate dalle Sacre
Scritture al Signore, una ventina di tratti
femminili e questo versetto isaiano ne è una
straordinaria attestazione.
Nello stesso libro profetico più avanti si leggerà quest’altra affermazione divina: «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (66,13). Curiosamente a Dio viene a più riprese assegnato un termine ebraico che in prevalenza è applicato alla donna, rahamîm, un vocabolo che designa le “viscere”, il “grembo”. Esso si trasforma in un aggettivo che esprime affetto, clemenza, tenerezza, misericordia. Tra l’altro, la stessa radice che sta alla genesi della parola rahamîm è ripresa dai due attributi «clemente e misericordioso » che il Corano dedica a Dio in apertura a tutte le “sure” o capitoli.
Il Signore fa questa confessione di amore materno proprio quando sta scoprendo le infedeltà di Israele che rincorre altri padri e madri, ossia gli idoli. Per riprendere l’idea di Balzac, il cuore divino perdona sempre, non può “dimenticare” suo figlio (il verbo è ripetuto tre volte), non può non fremere di commozione quando ha ancora tra le braccia la sua creatura amata. E a questo proposito vorremmo di nuovo evocare una scenetta che abbiamo tempo fa presentato nella nostra antologia di frammenti biblici luminosi.
Intendiamo riferirci al Salmo 131 in cui il fedele stesso si rappresenta «come un bimbo svezzato in braccio a sua madre». Ora, il bambino svezzato non è più il neonato che quasi inconsciamente si attacca per istinto al seno della madre: nell’antico Vicino Oriente lo svezzamento ufficiale avveniva attorno ai tre anni con un rito tribale. Si suppone, quindi, un legame di intimità più consapevole e non un mero rapporto di dipendenza biologica.
È per questo, allora, che la relazione materno- filiale (come la parallela paterno-filiale che pure la Bibbia applica a Dio e al suo popolo) si trasfigura in un simbolo mistico. Basti solo pensare all’“infanzia spirituale” esaltata da santa Teresa di Lisieux che introduce una concezione della fede fortemente personale, in cui l’amore, l’intimità e la donazione trionfano. Rimane, comunque, il primato dell’amore divino che non si «dimentica» mai, che non spegnemai la fiamma del suo ricordo appassionato, che non si lascia stravolgere dall’infedeltà o dalla cattiveria del figlio.
Per usare una colorita espressione di Tertulliano, il primo scrittore cristiano di lingua latina a noi noto, «qualunque ingiuria, quando si scontra contro l’amore, si spunta come la freccia contro un macigno».
Pubblicato il 24 febbraio 2011 - Commenti (0)
23 gen
Maestro di scuola del Nuovo Mondo, opera di Diego Rivera, murales, 1928, Città del Messico
"Mi guardai attorno: ed ecco non c’era nessuno, nessuno che fosse capace di consigliare, nessuno da interrogare per
avere risposta." (Isaia 41,28)
Avrà pure un significato il fatto che uno dei doni dello Spirito Santo sia proprio il “consiglio”, ossia la guida offerta alla ricerca, alla domanda, all’attesa umana. Non per nulla il crescere del bambino avviene attraverso una batteria di domande che egli scatena nei confronti dell’adulto perché lo aiuti a decifrare il senso della realtà.
Similmente la scienza si regge e si sviluppa proprio sulla base di interrogativi ai quali si cerca di dare risposta. Ed è sempre nella stessa linea che si spiegano quei “Perché?” angosciati che i sofferenti lanciano verso il cielo, in attesa di un’indicazione di significato che giustifichi tanta amarezza e l’apparente assurdità del dolore.
La missione dell’educatore è, pertanto, indispensabile, come lo è quella del padre, del maestro, del sapiente, del sacerdote, del consigliere, del direttore spirituale e così via. Egli, certo, non deve sostituirsi al discepolo o al figlio, ma aiutarlo a inoltrarsi sui sentieri della vita, del pensiero e dell’azione.
Giustamente un famoso pensatore politico francese, Montesquieu (1689-1755), ammoniva lo scrittore che «non bisogna mai esaurire un argomento al punto tale che al lettore non resti nulla da fare. Non si tratta di far leggere ma di far pensare», vale a dire ricercare e proseguire in proprio, per cui il motto del vero “consigliere” dovrebbe essere quello del Battista: «Bisogna che lui, Cristo [nel nostro caso, il discepolo o il figlio], cresca e che io diminuisca» (Giovanni 3,30).
Questa lunga premessa ci introduce nel frammento suggestivo che abbiamo proposto, estraendolo da una delle prime pagine di quel profeta anonimo del VI secolo a.C., il cui scritto è entrato nei capitoli 40-55 del libro del grande Isaia e per questo è stato denominato il Secondo Isaia.
Egli sta puntando l’indice contro una piaga costante di Israele, quella dell’idolatria. Il fascino di una religiosità più accomodante non può cancellare il vuoto che essa lascia nell’anima. Agli idoli il profeta indirizza questa accusa implacabile: «Voi siete un nulla, la vostra opera non vale niente... Vento e vuoto sono gli idoli» (41,24.29). In particolare essi non sono in grado di indicare un percorso, non sanno certo annunziare il futuro, aprendo prospettive verso le quali orientare l’impegno presente. Essi appunto non possono né consigliare né guidare, non sanno proporre scelte giuste né esortare al bene, incitare, incoraggiare gli infelici.
Per questo, il Secondo Isaia fa balenare un vuoto che è segno dell’abbandono da parte del vero Dio nei riguardi dell’umanità: l’assenza dei profeti autentici, che sono le guide, quasi le fiaccole che conducono nelle tenebre verso una meta di salvezza, evitando i precipizi. È un po’ il ritratto dei nostri giorni, privi di padri e di maestri, tempi nei quali ci si lascia catturare dalla propaganda e dalla pubblicità, dai luoghi comuni e dalla deriva della massa. Scriveva san Paolo al suo discepolo Timoteo: «Verrà giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dar ascolto alla verità per volgersi alle favole» (2Timoteo 4,3-4).
Pubblicato il 23 gennaio 2011 - Commenti (0)
09 gen
Ecce Homo, Antonello da Messina (1430 ca.-1479), Novara, Broletto.
"Il mio Servo non griderà né urlerà, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà la canna incrinata, né spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta. "
(Isaia 42,2-3)
Entra in scena presentato da Dio stesso. Non ha un nome, né una genealogia,ma soltanto un titolo, Servo, in ebraico’ebed, che non è indizio di inferiorità, ma espressione di una dignità, diremmo noi, quasi di ministro. Egli appare all’improvviso in un capitolo, il 42, del libro di Isaia: siamo in quelle pagine – che vanno dal capitolo 40 al 55 – assegnate dagli studiosi a un autore diverso rispetto al grande profeta dell’VIII secolo a.C. e che è stato denominato convenzionalmente “il Secondo Isaia”.
Costui era vissuto nel momento arduo ed esaltante del VI secolo a.C., quando il re di Persia, Ciro, spazzato via l’impero babilonese, aveva concesso a Israele di ritornare dall’esilio alla terra dei padri.
La domanda è ora spontanea: chi è questo personaggio che sale alla ribalta in quattro
canti incastonati nei capitoli 42; 49; 50 e 53 del rotolo profetico di Isaia? Tante sono le
identificazioni tentate, sia individuali (un profeta? Geremia? Mosè? Un maestro di sapienza?), sia collettive (Israele stesso, oppure gli Ebrei fedeli che ora stanno per rimpatriare?). Proprio perché soprattutto nell’ultimo dei quattro canti il volto del Servo è segnato dai tratti della sofferenza e la sua è una missione sacrificale, la tradizione cristiana non ha avuto esitazione nell’intravedere in quella figura i tratti del Messia, naturalmente applicati al Cristo della passione, morte e risurrezione.
Noi ora fissiamo lo sguardo su uno dei primi lineamenti di quel Servo che potremmo
riassumere in una parola: la mitezza. Sembra, infatti, di sentire già echeggiare l’appello
di Gesù: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete
il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore. Il mio giogo
è, infatti, dolce e il mio carico leggero» (Matteo 11,28-30). Tre sono le immagini che descrivono la mitezza del Servo.
Innanzitutto la sua non è la voce potente e inquietante degli antichi profeti: il suo è, in
verità, un annunzio di liberazione e di salvezza, non di giudizio e di condanna. Egli non
punta l’indice nella piazza contro le ingiustizie, ma con pazienza passa quasi di casa in casa per convincere e convertire.
Ecco, allora, gli altri due simboli suggestivi e trasparenti: la canna incrinata non è da lui
gettata via, ma riaggiustata e riutilizzata; lo stoppino che sta sfrigolando e crepitando
perché senza olio non viene brutalmente spento, ma di nuovo alimentato perché ritorni
a sfavillare. È un atto d’amore nei confronti di ciò che sembra destinato alla rovina. È
quell’andare in cerca della pecora perduta, è quell’abbracciare il figlio smarrito e ritornato a casa, è quell’atteggiamento che Gesù costantemente testimonierà con le sue parole e le sue azioni.
Pubblicato il 09 gennaio 2011 - Commenti (0)
19 dic
"Spezzerannole loro spade per farne aratri, trasformeranno le loro lance in falci. Una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. "
(Isaia 2,4)
L’orizzonte planetario è attraversato da un movimento: da ogni angolo della terra si mettono in moto processioni di popoli che convergono verso un monte. Non è il più alto né il più famoso, eppure esso è come un faro di luce che irradia i suoi bagliori sulla distesa delle regioni e dei continenti. Quei flussi umani giungono ai piedi della montagna, ed ecco che dalla sua vetta, ove si leva un tempio, esce personificata la parola di Dio che va incontro all’umanità in ricerca.
Di fronte a questa presenza le genti che sono accorse lasciano cadere a terra spade e lance che hanno recato con sé per difendersi dagli altri popoli a loro estranei. Gli artigiani prendono quelle armi e le forgiano in aratri e falci, ossia in strumenti di sviluppo pacifico. Ormai si chiudono le scuole di guerra e si aprono centri di studio e di ricerca per il bene dell’umanità; le pianure non sono più campi di battaglia, ma terreni coltivati, agli armamenti sono subentrati gli armenti.
Abbiamo voluto “sceneggiare” una delle grandi pagine di quel Dante della poesia ebraica e vertice dei profeti d’Israele che è Isaia. È facile sciogliere il significato della parabola. Il suo è, infatti, un inno dedicato a Sion, la sede del tempio di Gerusalemme e della casa di Davide, quindi della presenza divina nello spazio, nella storia e nella Parola (la Tôrah, la Legge e la rivelazione del Signore).
La speranza di questa convergenza planetaria verso il vero Dio per l’edificazione di un
mondo di pace è collocata dal profeta «alla fine dei giorni» (2,2).
È, perciò, una meta sperata come fine ultimo della vicenda umana, ma già ora si deve cominciare a costruire questo ordine di serenità, di collaborazione, di sviluppo. E in prima fila dovrebbero essere proprio i fedeli. Esclama, infatti, Isaia nella conclusione del suo cantico-visione (1,1): «Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore» (2,5). Naturalmente questo affresco grandioso ha due connotati che meritano una sottolineatura particolare.
Da un lato, la pace-shalôm, che non è solo cessazione delle ostilità tra i popoli, ma anche
inaugurazione di una nuova era di armonia e di benessere, apre il sipario sul regno del Messia, un regno di giustizia e di pace, di difesa dei poveri e di fraternità. È ciò che Isaia dipingerà nelle due pagine stupende di 9,1-6 e 11,1-9, due testi da meditare, cari alla tradizione natalizia cristiana che li applica a Cristo e alla sua opera. Un forte messaggio di speranza nel futuro e di attesa fiduciosa.
D’altro lato, affiora qui quella linea universalista che serpeggerà in vari passi della letteratura profetica e sapienziale d’Israele e che avrà una sua celebrazione ultima nella visione neotestamentaria. A questo proposito vorremmo evocare solo un annuncio presente proprio nel libro di Isaia, ma appartenente a un autore posteriore che si è voluto mettere sotto il patronato del grande profeta di Giuda. Anche questo oracolo è collocato «in quel giorno», equivalente, in pratica, alla formula isaiana «alla fine dei giorni»: «In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria [le due superpotenze d’allora], una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti così: Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità» (19,24-25).
Pubblicato il 19 dicembre 2010 - Commenti (0)
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