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La carta d'identità di Dio

Mary Parker (1799-1864), Monte Sinai, acquerello, Londra, Victoria & Albert Museum.
Mary Parker (1799-1864), Monte Sinai, acquerello, Londra, Victoria & Albert Museum.

"Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di amore e di fedeltà. 
(Esodo 34,6)

Quelle che noi abbiamo citato sono solo le prime parole di un passo biblico che è stato definito da un esegeta francese, André Gelin, «la carta d’identità di Dio». Prima di scorrere queste righe, ricostruiamo la scena che funge da fondale. È l’alba. Mosè si è arrampicato lungo le pendici erte e pietrose del monte Sinai, reggendo tra le mani le due tavole marmoree che dovranno accogliere il nuovo Decalogo, dopo che le precedenti erano state spezzate di fronte all’idolo del vitello d’oro eretto dal popolo (Esodo 32,19-20). La vetta della montagna sacra è immersa nelle nubi.

Mosè le varca e si trova nell’oscurità che all’improvviso è squarciata da una voce possente. È Dio stesso che si autopresenta con le parole che abbiamo evocato. È un autoritratto sorprendentemente dolce che si modella sulla promessa che il Signore stesso aveva fatto a Mosè quando costui gli aveva chiesto di poter vedere il suo volto. «No, tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». Tuttavia, uno svelamento ci sarà: «Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te... Ti porrò poi nella cavità di una rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai solo le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere!» (Esodo 33,18-23).

Ora Mosè sa che il Dio invisibile è là, davanti a lui, perché sta proprio proclamando il suo nome “Signore”, in ebraico il nome sacro e impronunciabile Jhwh. Ma subito dopo Dio aggiunge quattro attributi che completano la sua “carta d’identità”. Il primo è in ebraico rahûm, che la versione “misericordioso” rende solo in modo pallido perché il termine originale allude alle viscere materne, a una sorta di affetto “viscerale” appunto, totale e assoluto come è quello di una madre o di un padre. Il secondo aggettivo è hanûn e anche qui la traduzione “pietoso” è esangue e debole, perché l’originale rimanda alla “grazia”, al dono, alla gratuità di un rapporto d’amore.

La terza qualità divina è la sua paziente attesa che l’umanità si converta, prima che egli debba intervenire con la sua “ira”, che in ebraico è curiosamente (e antropomorficamente) raffigurata con le “narici” sbuffanti (’appîm). L’ultimo tratto è affidato a un binomio di parole che sono quelle tipiche per definire l’alleanza tra il Signore e Israele. In ebraico sono hesed e ’emet, “amore” e “fedeltà”, coppia di termini destinati a esprimere quella ricca trama di relazioni, di sentimenti, di affetti che intercorrono tra due persone che sono legate tra loro da un vincolo d’amore e da un patto di fedeltà.

La terza qualità divina è la sua paziente attesa che l’umanità si converta, prima che egli debba intervenire con la sua “ira”, che in ebraico è curiosamente (e antropomorficamente) raffigurata con le “narici” sbuffanti (’appîm). L’ultimo tratto è affidato a un binomio di parole che sono quelle tipiche per definire l’alleanza tra il Signore e Israele. In ebraico sono hesed e ’emet, “amore” e “fedeltà”, coppia di termini destinati a esprimere quella ricca trama di relazioni, di sentimenti, di affetti che intercorrono tra due persone che sono legate tra loro da un vincolo d’amore e da un patto di fedeltà.

A questo punto il nostro frammento si allarga in un canto dell’amore, hesed, di Dio. Esso è modulato su due simboli numerici, il 1000 e il 3+4 (allusione al 7). La giustizia divina è, certo, perfetta perché adotta il 7, che in Oriente è segno di pienezza; l’amore, però, usa il 1000, che è invece indizio di infinito. Ascoltiamo, allora, le ultime parole che in quell’alba nebbiosa, sulla cima del Sinai, Dio proclamò a Mosè: «Il Signore conserva il suo amore per mille generazioni, perdona la colpa, la trasgressione e il peccato; ma non lascia senza punizione, castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (34,7).

Pubblicato il 16 giugno 2011 - Commenti (0)
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Come in uno specchio

L'Eterno appare a Mosè di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto (1518 - 1594). Venezia, Scuola Grande San Rocco.
L'Eterno appare a Mosè di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto (1518 - 1594). Venezia, Scuola Grande San Rocco.

"Noi tutti, a viso scoperto, riflettiamo come in uno specchio la gloria del Signore e così siamo trasformati in quella stessa immagine, di gloria in gloria."
(2Corinzi 3,18)

«Quando Mosè scese dal monte Sinai non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con Dio. Aronne e tutti gli Israeliti, vedendo raggiante la pelle del suo viso, ebbero paura di accostarsi a lui... Mosè, allora, si pose un velo sul volto» (Esodo 34,29-30.33). L’uomo non esce indenne dall’incontro con Dio, viene quasi trasfigurato, tanto da irradiare luce attorno a sé. San Paolo sta meditando appunto su questo passo biblico e lo applica al cristiano con una variante radicale. Prima, però, diamo uno sguardo generale all’intero testo che l’Apostolo sta dettando.

La Seconda Lettera ai Corinzi – ha scritto un suo commentatore, il tedesco Otto Kuss – «riflette il temperamento, la ricchezza caratteriale, l’eccitabilità persino, la ruvidezza di Paolo e anche la confusione della situazione» che si era creata nella tormentata comunità greca di Corinto.

Lo scritto è anch’esso molto travagliato, con salti tematici, a tal punto che non pochi esegeti hanno ipotizzato che esso sia una specie di collage di diverse lettere dell’Apostolo qui unificate. A questo proposito c’è un’immagine di grande intensità che vorremmo riproporre: «La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori... Siete come una lettera di Cristo, composta da noi, scritta non con l’inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei cuori» (3,2-3).

A questa immagine si accosta quella del volto radioso del cristiano. Chi vive a contatto con Dio si trasforma e non deve nascondere questa luminosità, perché essa può rischiararei fratelli. Ecco, allora, la variante che l’Apostolo introduce rispetto al passo biblico da cui è partito. A Mosè era stato suggerito di celare una luce troppo forte; Paolo, invece, ricalca le parole che Cristo aveva rivolto ai suoi discepoli: «Voi siete la luce del mondo... non si accende una lucerna per nasconderla sotto un moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono in casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Matteo 5,14-16).

Non possiamo, però, ignorare un aspetto nella comparazione che Paolo instaura tra Mosè e il cristiano e, quindi, tra l’antica e la nuova alleanza. Egli vuole, infatti, sottolineare una discontinuità, una differenza che non deve però condurre a negare il legame pur profondo che ci unisce alla prima alleanza. Sappiamo quanto l’Apostolo sia orgoglioso di definirsi «circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo secondo la Legge» (Filippesi 3,8). Qual è, allora, la diversità che viene ora marcata?

La risposta è semplice. Per l’Antico Testamento il volto divino, cioè l’intima essenza personale del Signore, è invisibile a occhio umano perché è come un oceano di luce che acceca, e già il riflesso di essa stampato sul viso di Mosè si rivela insopportabile allo sguardo degli Israeliti. Lo stesso Mosè aveva implorato di contemplare pienamente quel volto, ma la risposta era stata negativa: a lui era apparso solo il dorso del Signore che si allontanava (Esodo 33,18-23). Con l’Incarnazione, invece, nel volto di Cristo c’è la possibilità di vedere il Padre, cioè Dio («Chi ha visto me ha visto il Padre», Giovanni 14,9). Per questo san Giovanni, in apertura alla sua Prima Lettera, dichiarerà di aver potuto «vedere con gli occhi, contemplare e toccare con le mani il Verbo della vita, perché la vita [divina] si è fatta visibile» in Gesù Cristo (1,1-2).

Pubblicato il 16 marzo 2011 - Commenti (1)

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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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