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Il seme più piccolo

James Sowerby (1740-1803): Brassica arvensis, pianta di senape selvatica.
James Sowerby (1740-1803): Brassica arvensis, pianta di senape selvatica.

"Il Regno dei cieli è simile a un grano di senape. E' il più piccolo di tutti i semi; eppure cresciuto, è più grande delle altre piante dell'orto, tanto che gli uccelli nidificano tra i suoi rami
(Matteo 13, 31-32)"
 

Senza ricorrere ai grossi manuali di botanica, basta cercare su un qualsiasi modesto dizionario la voce senapa e si leggerà più o meno questa definizione: «Pianta brassicacea, il cui seme minutissimo, di sapore acuto, si macina per farne una mostarda (la “senape”) e, in medicina, revulsivi (“senapismi”) ». Gesù tiene, quindi, nel palmo della mano alcuni di questi grani neri minuti e davanti a sé e ai suoi discepoli vede ergersi l’arbusto alto e svettante di una senapa orientale, molto più vigorosa della nostra, capace persino di reggere un nido d’uccelli.

È una scena molto quotidiana e familiare che si può immaginare ambientata in un viottolo lungo il quale si allineano gli orti con le loro modeste coltivazioni. Come sempre, Gesù non veleggia – come fanno certi predicatori – sopra le teste dei suoi ascoltatori, ma parte dai loro piedi, ossia da quella terra sulla quale sono piantati per condurre una vita spesso disagiata e stentata, e da lì sa poi condurli verso un orizzonte più elevato, di natura religiosa e spirituale. Cerchiamo, dunque, di cogliere questo movimento rivolto verso l’infinito di Dio ma che parte da un vegetale domestico.

Ci riferiremo, allora, all’interpretazione del simbolismo sotteso a questa che è una delle 35 parabole narrate dai Vangeli (c’è chi ne conta fino a 72, allargando però il concetto di “parabola” anche a paragoni ampi, a frammenti narrativi, a metafore espanse). Gli studiosi propongono un’oscillazione tra due possibilità interpretative che, a nostro avviso, riescono a coesistere. Da un lato, il racconto esalta un contrasto forte e fin provocatorio tra un «più piccolo» e un «più grande»: tra le nostre mani c’è questo seme minuto e davanti ai nostri occhi un albero. Non si può ignorare la discontinuità, la sorprendente differenza. Eppure alla base sono la stessa realtà.

La lezione, ossia lo sguardo dell’anima che sale verso il divino, cioè il Regno dei cieli, è limpida e semplice. Il progetto di salvezza, di pace, di amore, di verità e giustizia che Dio vuole attuare nel mondo con Cristo e con chi lo segue – tale è il senso della locuzione “Regno dei cieli” – è apparentemente piccolo, fin minuscolo, presente in un uomo umile come Gesù di Nazaret e in un «piccolo gregge» di discepoli, votati alla sconfitta in un confronto con le potenze trionfali del male. Eppure la logica del seme che diventa un albero vale anche per il Regno e la parabola si trasforma in un vero e proprio canto di fiducia e speranza che spazza via gli scoraggiamenti, gli sconforti, le frustrazioni e le delusioni.

D’altro lato, molti esegeti definiscono questo racconto una “parabola di crescita”. L’elemento fondamentale sarebbe proprio l’evoluzione tra il seme e l’albero, il dinamismo efficace che necessariamente fa esplodere l’energia vitale del chicco di senapa e lo fa espandere in modo sorprendente e inatteso. Si ha, così, un altro sguardo verso l’alto, partendo da quel semplice vegetale: è la celebrazione della grazia divina che opera potentemente, superando i limiti, gli ostacoli, le crisi. Come è evidente, anche con questa interpretazione ritroviamo la stessa lezione di fiducia e di serenità, ma da un altro angolo di visuale.

Pubblicato il 14 luglio 2011 - Commenti (1)
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mag

L'albero e il ruscello

Abbeveratoio, Antonio Fontanesi (1818-1882), Bologna, Pinacoteca Nazionale.
Abbeveratoio, Antonio Fontanesi (1818-1882), Bologna, Pinacoteca Nazionale.

Benedetto l’uomo che confida nel Signore:
è come un albero piantato lungo un ruscello,
verso la corrente stende le sue radici...,
le sue foglie rimangono verdi...,
non cessa di produrre frutti.
(Geremia 17,7-8)


In un panorama desertico e assolato si leva un albero verdeggiante e carico di frutti. Come è possibile in un terreno ove al massimo sopravvivono i cespugli e i rovi? Ci avviciniamo, ed ecco che scopriamo in un piccolo avvallamento laterale un corso d’acqua sottile ma perenne: le radici si sono tese fino a raggiungere quella sorgente di vita ed è per questo che la pianta si erge orgogliosa con la sua chioma. L’immagine è semplice, ma agli occhi del profeta Geremia, il drammatico testimone nel VI secolo a.C. del crollo del regno di Giuda e della rovina di Gerusalemme, si trasforma in un simbolo. Infatti, l’applicazione è subito esplicitata in apertura: «Benedetto l’uomo che confida nel Signore, è lui la sua fiducia!».

Non sappiamo quanti anni dopo, un altro ebreo, un salmista, leggerà queste righe del profeta e le riprenderà per comporre il suo canto, quel Salmo che diverrà quasi l’atrio d’ingresso o il portale dell’intero Salterio: il giusto «è come albero piantato presso un canale, dà frutto nella sua stagione, le sue fronde non appassiscono mai, tutte le sue opere hanno successo» (Salmo 1,3). Egli, poi, continuerà e, per contrasto, dipingerà a dittico il ritratto del malvagio, «simile a pula che il vento disperde» (1,4), cioè a una realtà secca, leggera, inconsistente, da far volare col ventilabro o da ardere nel mucchio della paglia.

La fedeltà a Dio e alla sua legge è principio di vita, di fecondità, di freschezza interiore. Quando un altro profeta, Ezechiele, vorrà rappresentare il futuro ultimo della storia – quello che i teologi chiamano “l’escatologia” – ricorderà che il verdeggiare della vita dipende da un fiume che scaturisce dal tempio, ossia dalle acque sante della grazia divina: «Lungo quel fiume, su entrambe le rive, crescerà ogni sorta di alberi da frutto, le cui foglie non appassiranno, i loro frutti non cesseranno, matureranno ogni mese, perché le acque sgorgano dal tempio» (Ezechiele 47,12).

Limpido è, perciò, l’appello dei profeti: volete vivere un’esistenza vera e feconda? Attingete all’acqua della fede, della fiducia, della fedeltà operosa a Dio e alla sua parola. È ancora Geremia a usare un’immagine analoga, ma al negativo, in un frammento che abbiamo avuto occasione di considerare in passato: «Il mio popolo ha abbandonato me, sorgente d’acqua viva, e si è scavato cisterne piene di crepe che non riescono a trattenere l’acqua» (2,13). È interessante segnalare una curiosità. Questo profeta è uno degli autori biblici più sensibili alla natura, alla sua bellezza e alla sua possibilità di parlare a noi umani attraverso i suoi segni.

Così, in contrasto al quadretto rigoglioso e fresco che ha ora dipinto, egli oppone, in un’altra pagina poetica intensa ed emozionante, la tragedia di una siccità terribile e prolungata, sotto la morsa di una calura implacabile, con la vegetazione avvizzita, le fonti inaridite e la disperazione sia degli abitanti sia degli animali che «aspirano l’aria come sciacalli, con gli occhi languidi, perché non ci sono più pascoli» (si legga il capitolo 14). E anche là Geremia scopre un segno divino: il Signore colpisce un popolo che è arido e senza frutti ed egli si è fatto ormai assente, «come un forestiero sulla terra, come un viandante che si è fermato una sola notte».

Pubblicato il 26 maggio 2011 - Commenti (0)

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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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