14 lug
James Sowerby (1740-1803): Brassica arvensis, pianta di senape selvatica.
"Il Regno dei cieli è simile a un grano di senape. E' il più piccolo di tutti i semi; eppure cresciuto, è più grande delle altre piante dell'orto, tanto che gli uccelli nidificano tra i suoi rami
(Matteo 13, 31-32)"
Senza ricorrere ai grossi manuali di botanica,
basta cercare su un qualsiasi
modesto dizionario la voce senapa e si
leggerà più o meno questa definizione: «Pianta
brassicacea, il cui seme minutissimo, di sapore
acuto, si macina per farne una mostarda
(la “senape”) e, in medicina, revulsivi (“senapismi”)
». Gesù tiene, quindi, nel palmo della
mano alcuni di questi grani neri minuti e davanti
a sé e ai suoi discepoli vede ergersi l’arbusto
alto e svettante di una senapa orientale,
molto più vigorosa della nostra, capace persino
di reggere un nido d’uccelli.
È una scena molto quotidiana e familiare
che si può immaginare ambientata in un viottolo
lungo il quale si allineano gli orti con le
loro modeste coltivazioni. Come sempre, Gesù
non veleggia – come fanno certi predicatori
– sopra le teste dei suoi ascoltatori, ma
parte dai loro piedi, ossia da quella terra sulla
quale sono piantati per condurre una vita
spesso disagiata e stentata, e da lì sa poi condurli
verso un orizzonte più elevato, di natura
religiosa e spirituale. Cerchiamo, dunque,
di cogliere questo movimento rivolto verso
l’infinito di Dio ma che parte da un vegetale
domestico.
Ci riferiremo, allora, all’interpretazione del
simbolismo sotteso a questa che è una delle
35 parabole narrate dai Vangeli (c’è chi ne conta
fino a 72, allargando però il concetto di “parabola”
anche a paragoni ampi, a frammenti
narrativi, a metafore espanse). Gli studiosi propongono
un’oscillazione tra due possibilità interpretative
che, a nostro avviso, riescono a
coesistere. Da un lato, il racconto esalta un
contrasto forte e fin provocatorio tra un
«più piccolo» e un «più grande»: tra le nostre
mani c’è questo seme minuto e davanti ai nostri
occhi un albero. Non si può ignorare la discontinuità,
la sorprendente differenza. Eppure
alla base sono la stessa realtà.
La lezione, ossia lo sguardo dell’anima che
sale verso il divino, cioè il Regno dei cieli, è
limpida e semplice. Il progetto di salvezza, di
pace, di amore, di verità e giustizia che Dio
vuole attuare nel mondo con Cristo e con chi
lo segue – tale è il senso della locuzione “Regno
dei cieli” – è apparentemente piccolo, fin
minuscolo, presente in un uomo umile come
Gesù di Nazaret e in un «piccolo gregge» di discepoli,
votati alla sconfitta in un confronto
con le potenze trionfali del male. Eppure la logica
del seme che diventa un albero vale anche
per il Regno e la parabola si trasforma in
un vero e proprio canto di fiducia e speranza
che spazza via gli scoraggiamenti, gli sconforti,
le frustrazioni e le delusioni.
D’altro lato, molti esegeti definiscono questo
racconto una “parabola di crescita”. L’elemento
fondamentale sarebbe proprio l’evoluzione
tra il seme e l’albero, il dinamismo efficace
che necessariamente fa esplodere l’energia
vitale del chicco di senapa e lo fa espandere
in modo sorprendente e inatteso. Si ha, così,
un altro sguardo verso l’alto, partendo da
quel semplice vegetale: è la celebrazione della
grazia divina che opera potentemente, superando
i limiti, gli ostacoli, le crisi. Come è evidente,
anche con questa interpretazione ritroviamo
la stessa lezione di fiducia e di serenità,
ma da un altro angolo di visuale.
Pubblicato il 14 luglio 2011 - Commenti (1)
26 mag
Abbeveratoio, Antonio Fontanesi (1818-1882), Bologna, Pinacoteca Nazionale.
Benedetto l’uomo che confida nel Signore:
è come un albero piantato lungo un ruscello,
verso la corrente stende le sue radici...,
le sue foglie rimangono verdi...,
non cessa di produrre frutti.
(Geremia 17,7-8)
In un panorama desertico e assolato si leva
un albero verdeggiante e carico di frutti. Come
è possibile in un terreno ove al massimo
sopravvivono i cespugli e i rovi? Ci avviciniamo,
ed ecco che scopriamo in un piccolo
avvallamento laterale un corso d’acqua sottile
ma perenne: le radici si sono tese fino a
raggiungere quella sorgente di vita ed è per
questo che la pianta si erge orgogliosa con la
sua chioma. L’immagine è semplice, ma agli
occhi del profeta Geremia, il drammatico testimone
nel VI secolo a.C. del crollo del regno
di Giuda e della rovina di Gerusalemme,
si trasforma in un simbolo. Infatti, l’applicazione
è subito esplicitata in apertura: «Benedetto
l’uomo che confida nel Signore, è lui la
sua fiducia!».
Non sappiamo quanti anni dopo, un altro
ebreo, un salmista, leggerà queste righe del
profeta e le riprenderà per comporre il suo
canto, quel Salmo che diverrà quasi l’atrio
d’ingresso o il portale dell’intero Salterio: il
giusto «è come albero piantato presso un canale,
dà frutto nella sua stagione, le sue fronde
non appassiscono mai, tutte le sue opere
hanno successo» (Salmo 1,3). Egli, poi, continuerà
e, per contrasto, dipingerà a dittico il
ritratto del malvagio, «simile a pula che il
vento disperde» (1,4), cioè a una realtà secca,
leggera, inconsistente, da far volare col ventilabro
o da ardere nel mucchio della paglia.
La fedeltà a Dio e alla sua legge è principio
di vita, di fecondità, di freschezza interiore.
Quando un altro profeta, Ezechiele, vorrà
rappresentare il futuro ultimo della storia
– quello che i teologi chiamano “l’escatologia”
– ricorderà che il verdeggiare della vita dipende
da un fiume che scaturisce dal tempio,
ossia dalle acque sante della grazia divina:
«Lungo quel fiume, su entrambe le rive, crescerà
ogni sorta di alberi da frutto, le cui foglie
non appassiranno, i loro frutti non cesseranno,
matureranno ogni mese, perché le acque
sgorgano dal tempio» (Ezechiele 47,12).
Limpido è, perciò, l’appello dei profeti: volete
vivere un’esistenza vera e feconda? Attingete
all’acqua della fede, della fiducia,
della fedeltà operosa a Dio e alla sua parola.
È ancora Geremia a usare un’immagine analoga,
ma al negativo, in un frammento che
abbiamo avuto occasione di considerare in
passato: «Il mio popolo ha abbandonato me,
sorgente d’acqua viva, e si è scavato cisterne
piene di crepe che non riescono a trattenere
l’acqua» (2,13). È interessante segnalare una
curiosità. Questo profeta è uno degli autori
biblici più sensibili alla natura, alla sua bellezza
e alla sua possibilità di parlare a noi
umani attraverso i suoi segni.
Così, in contrasto al quadretto rigoglioso e
fresco che ha ora dipinto, egli oppone, in
un’altra pagina poetica intensa ed emozionante,
la tragedia di una siccità terribile e
prolungata, sotto la morsa di una calura implacabile,
con la vegetazione avvizzita, le fonti
inaridite e la disperazione sia degli abitanti
sia degli animali che «aspirano l’aria come
sciacalli, con gli occhi languidi, perché non ci
sono più pascoli» (si legga il capitolo 14). E
anche là Geremia scopre un segno divino: il
Signore colpisce un popolo che è arido e senza
frutti ed egli si è fatto ormai assente, «come
un forestiero sulla terra, come un viandante
che si è fermato una sola notte».
Pubblicato il 26 maggio 2011 - Commenti (0)
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