20 ott
Innamorati sotto un albero in fiore (1859) di John Callcott Horsley, Philadelphia Museum of Art, Filadelfia
" Mi ricordo di te,
dell'affetto della
tua giovinezza,
dell'amore
al tempo del tuo
fidanzamento,
quando mi seguivi
nel deserto,
in una terra
non seminata."
(Geremia 2,2)
«Enlil, le tue molte perfezioni fanno
restare attoniti, la loro natura segreta
è come una matassa arruffata
che nessuno sa dipanare, è un arruffio di
fili di cui non si trova il bandolo». È, questa,
una strofa di un antichissimo inno sumerico
dedicato al dio Enlil, il capo del pantheon
di quella civiltà. Essa ben esprime
una concezione della divinità per certi versi
affine alla visione greca del Fato, un gorgo
oscuro e misterioso che impera sugli stessi
dèi, piegandoli a una logica indecifrabile.
Anche uno dei “bellissimi nomi” di Allah è
“l’inaccessibile” e – sia pure con una prospettiva
teologica ben più alta – l’islam considera
la divinità come invalicabile a ogni
conoscenza intima, che non sia quella negativa
(«Dio non è come...»).
Su tutt’altra traiettoria si muove, invece, la
Bibbia che non solo presenta il Signore come
una persona che può dire: «Io sono», ma anche
ne descrive i sentimenti, le passioni,
l’amore. È il caso di questo stupendo soliloquio
di Dio che ci ha lasciato Geremia: in esso
brillano sia la tenerezza di una relazione tra
due fidanzati, sia l’«affetto» profondo che li
unisce. Il termine ebraico usato, hesed, rimanda
infatti alla fedeltà amorosa che intercorre
tra due innamorati, vincolati tra loro non da
un obbligo legale, bensì da un patto d’amore.
Nello stesso libro profetico si legge questa appassionata
professione d’amore di Dio: «Ti ho
amato di amore eterno, per questo ti conservo
il mio affetto» (31,3).
C’è, però, una nota stonata da registrare. Il
frammento geremiano da noi proposto è incastonato
in un brano che in ebraico è detto rîb,
ossia un “dibattimento processuale”, una “lite
giudiziaria”. Sì, perché in realtà questa
sposa, Israele, così amata, si è rivelata una
donna infedele. Anzi, il profeta usa un’immagine
durissima, “bestiale”: «Come una giovane
cammella leggera e vagabonda, come asina
selvatica, abituata al deserto, ansima
nell’ardore della sua voglia: chi può frenare
la sua brama?» (2,23-24). La metafora è esplicitata
nella sua dimensione religiosa, quando
questa sposa dichiara la sua scelta: «Io amo
gli stranieri, voglio andare con loro!» (2,25).
Gli amanti «stranieri» sono gli idoli. Come è
evidente, la simbologia d’amore viene usata
in tutte le sue iridescenze per descrivere l’esaltante
e travagliato rapporto nuziale tra il Signore
e il suo popolo.
Israele è «una donna infedele a chi la ama»
(3,20), «è sfrontata come una prostituta che
non arrossisce» (3,3), sta in attesa dei suoi
clienti ai crocicchi delle strade «come fa l’arabo
nel deserto» (3,2). Eppure, come dice il nostro
frammento, Dio è pieno di nostalgia
per il passato d’amore vissuto insieme nel
deserto del Sinai. In verità, anche là Israele
aveva tradito, ma il Signore sembra quasi scordare
ogni infedeltà e alonare di luce quella fase
antica, nella speranza di un futuro diverso,
anche perché «egli non mantiene rancore per
sempre né conserva in eterno la sua ira» (3,5).
Ecco, allora, il ripetersi nel capitolo 3 – che fa
parte sempre dello rîb o contesa tra Dio e
Israele – per sette volte del verbo shûb, il “ritornare-
convertirsi” (3,1.7.10.12.14.19.22). È il
desiderio segreto anche del popolo peccatore,
ma è soprattutto l’attesa insonne di Dio: «Ritorna,
Israele ribelle, non ti mostrerò la faccia
sdegnata perché io sono affettuoso e non conserverò
per sempre l’ira» (3,12).
Pubblicato il 20 ottobre 2011 - Commenti (1)
26 mag
Abbeveratoio, Antonio Fontanesi (1818-1882), Bologna, Pinacoteca Nazionale.
Benedetto l’uomo che confida nel Signore:
è come un albero piantato lungo un ruscello,
verso la corrente stende le sue radici...,
le sue foglie rimangono verdi...,
non cessa di produrre frutti.
(Geremia 17,7-8)
In un panorama desertico e assolato si leva
un albero verdeggiante e carico di frutti. Come
è possibile in un terreno ove al massimo
sopravvivono i cespugli e i rovi? Ci avviciniamo,
ed ecco che scopriamo in un piccolo
avvallamento laterale un corso d’acqua sottile
ma perenne: le radici si sono tese fino a
raggiungere quella sorgente di vita ed è per
questo che la pianta si erge orgogliosa con la
sua chioma. L’immagine è semplice, ma agli
occhi del profeta Geremia, il drammatico testimone
nel VI secolo a.C. del crollo del regno
di Giuda e della rovina di Gerusalemme,
si trasforma in un simbolo. Infatti, l’applicazione
è subito esplicitata in apertura: «Benedetto
l’uomo che confida nel Signore, è lui la
sua fiducia!».
Non sappiamo quanti anni dopo, un altro
ebreo, un salmista, leggerà queste righe del
profeta e le riprenderà per comporre il suo
canto, quel Salmo che diverrà quasi l’atrio
d’ingresso o il portale dell’intero Salterio: il
giusto «è come albero piantato presso un canale,
dà frutto nella sua stagione, le sue fronde
non appassiscono mai, tutte le sue opere
hanno successo» (Salmo 1,3). Egli, poi, continuerà
e, per contrasto, dipingerà a dittico il
ritratto del malvagio, «simile a pula che il
vento disperde» (1,4), cioè a una realtà secca,
leggera, inconsistente, da far volare col ventilabro
o da ardere nel mucchio della paglia.
La fedeltà a Dio e alla sua legge è principio
di vita, di fecondità, di freschezza interiore.
Quando un altro profeta, Ezechiele, vorrà
rappresentare il futuro ultimo della storia
– quello che i teologi chiamano “l’escatologia”
– ricorderà che il verdeggiare della vita dipende
da un fiume che scaturisce dal tempio,
ossia dalle acque sante della grazia divina:
«Lungo quel fiume, su entrambe le rive, crescerà
ogni sorta di alberi da frutto, le cui foglie
non appassiranno, i loro frutti non cesseranno,
matureranno ogni mese, perché le acque
sgorgano dal tempio» (Ezechiele 47,12).
Limpido è, perciò, l’appello dei profeti: volete
vivere un’esistenza vera e feconda? Attingete
all’acqua della fede, della fiducia,
della fedeltà operosa a Dio e alla sua parola.
È ancora Geremia a usare un’immagine analoga,
ma al negativo, in un frammento che
abbiamo avuto occasione di considerare in
passato: «Il mio popolo ha abbandonato me,
sorgente d’acqua viva, e si è scavato cisterne
piene di crepe che non riescono a trattenere
l’acqua» (2,13). È interessante segnalare una
curiosità. Questo profeta è uno degli autori
biblici più sensibili alla natura, alla sua bellezza
e alla sua possibilità di parlare a noi
umani attraverso i suoi segni.
Così, in contrasto al quadretto rigoglioso e
fresco che ha ora dipinto, egli oppone, in
un’altra pagina poetica intensa ed emozionante,
la tragedia di una siccità terribile e
prolungata, sotto la morsa di una calura implacabile,
con la vegetazione avvizzita, le fonti
inaridite e la disperazione sia degli abitanti
sia degli animali che «aspirano l’aria come
sciacalli, con gli occhi languidi, perché non ci
sono più pascoli» (si legga il capitolo 14). E
anche là Geremia scopre un segno divino: il
Signore colpisce un popolo che è arido e senza
frutti ed egli si è fatto ormai assente, «come
un forestiero sulla terra, come un viandante
che si è fermato una sola notte».
Pubblicato il 26 maggio 2011 - Commenti (0)
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