"I farisei" di Karl Schmidt-Rottluff, olio su tela, 1912. New York, Museum of Modern Art (MoMA).
"Se uno dichiara
al padre
o alla madre:
«È korbàn!»,
cioè offerta
a Dio, non
gli consentite
di fare più nulla
per il padre
o la madre."
(Marco 7,11-12)
Questa frase enigmatica è inserita all’interno
di una polemica che Gesù sta intessendo
con alcuni farisei e scribi, venuti
da Gerusalemme in Galilea per verificare
e censurare l’insegnamento e il comportamento
del rabbi di Nazaret. Le critiche non mancano:
ad esempio, i discepoli di Gesù non osservano
le norme della purità rituale sancita dalla
tradizione giudaica. Cristo reagisce accusando
di ipocrisia i suoi contestatori attraverso
un caso concreto, quello appunto del korbàn,
termine aramaico che indica l’“offerta”
sacra destinata da un fedele al tempio.
Il procedimento era semplice: quando un
ebreo dichiarava formalmente che una somma
di denaro o un altro bene era korbàn, cioè
consacrato per il tempio, quella cifra o quella
realtà non era più disponibile per altre finalità,
secondo quanto affermava una prescrizione
della tradizione giudaica presente nella
Mishnah. Essa era una raccolta di norme e indicazioni
che regolavano la prassi dei fedeli
ebrei, prima trasmesse oralmente e poi codificate
in un testo dal rabbi Jehuda ha-Nasî che
aveva organizzato nel III secolo d.C. il materiale
in 6 “ordini” (seder) e 63 trattati.
Gesù presenta una scandalosa applicazione
di questa norma specifica. Se un ebreo
vuole sottrarsi all’obbligo del mantenimento
dei genitori anziani, può decidere di assumere
una certa somma o un bene prezioso e dichiararlo
korbàn per il tempio, così che non
ne potrà più disporre per i suoi genitori e sarà
libero dall’obbligo filiale. Ovviamente
l’impegno a cui si sottraeva era maggiore, perciò
ne risultava un vantaggio. Anzi, non di rado
questo voto restava solo formale e, quindi,
fittizio e non comportava una reale donazione,
ma era soltanto un mezzo estrinseco
per evadere quell’obbligo morale.
I maestri, scribi e dottori della Legge, erano
consapevoli dell’immoralità di un simile
comportamento, ma consideravano lo stesso
valida la prassi. Gesù, invece, ne denuncia la
perversione religiosa ed etica. Egli, infatti, risale
al cuore della Bibbia, lacerando il velo
ipocrita della casistica e proclama il primato
del Comandamento del Decalogo: «Onora
tuo padre e tua madre» (Esodo 20,12), laddove
quell’“onorare” comportava un impegno
operoso di rispetto, di tutela e di sostegno
della vita familiare (si legga sul tema l’intenso
paragrafo di Siracide 3,1-16).
La conclusione che Cristo appone alla sua
polemica è di indole generale e rivela un atteggiamento
fondamentale della vera religiosità:
«Voi in questo modo annullate la parola di
Dio con la tradizione che avete tramandato
voi» (7,13). Sulla parola divina viene imposta
una norma umana, a un comandamento morale
si sostituisce un precetto legale, alla limpidità
della spiritualità biblica subentra la meschinità
dell’interesse privato, anche se ammantato
di autorizzazioni ufficiali.
Ritorna anche in questo evento della vita di
Gesù l’afflato della fede profetica che impediva
al legalismo e al ritualismo di soffocare
l’anima profonda della religione biblica.
L’interiorità della coscienza e l’impegno di giustizia
e carità debbono sempre avere il primato
sui regolamenti e sui codici sacrali e sociali.
Pubblicato il
08 ottobre 2012 - Commenti
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