10 nov
Giona nella bocca della balena di Petrus Gilberti, inizio del XV secolo. Londra, British Library.
" Le acque mi
hanno sommerso
fino alla gola,
l'abisso mi ha
avvolto,
l'alga si è avvinta
al mio capo...
Ma tu fai risalire
dalla fossa
la mia vita,
Signore, mio Dio!"
(Giona 2,6-7)
«Salvami o Dio, l’acqua mi giunge alla
gola! Affondo in un abisso di
fango, non trovo un appiglio, sto
scivolando in acque profonde, travolto dalla
corrente!». Così urla il Salmista (69,2-3), anticipando
il grido di Giona che nel ventre del
grosso pesce che l’aveva inghiottito, simile a
una tomba, lanciava una supplica estrema a
Dio, modulata appunto sui testi salmici e incastonata
nel capitolo 2 di quel delizioso libretto.
Esso è, come si intuisce dal ricorso al
meraviglioso, una sorta di parabola che ha
per protagonista un profeta, Giona, il cui nome
in ebraico significa “colomba”, anche se
in realtà egli è più simile a un falco a causa
della sua chiusura mentale, ostile com’è
all’apertura verso i nemici.
La colomba, tra l’altro, era l’animale sacro alla
dea Ishtar, il cui santuario più acclamato era
situato proprio a Ninive, la capitale dell’Assiria,
alla quale il profeta era stato inviato in missione
dal Signore. Il segno cuneiforme che indica
questa città, tradizionale nemica di Israele, era
quello della casa e del pesce. E il pesce, come è
noto, è al centro del racconto, trasformato dalla
tradizione popolare in una balena, accolta anche
dal Pinocchio di Collodi. In realtà, il pesce
mostruoso – si pensi al Leviatan del libro di
Giobbe (40,25-41,26) – è simbolo del mare,
del caos acquatico che attenta alla vita, e
quindi è segno anche del giudizio divino.
Il profeta, renitente alla chiamata divina
che lo vorrebbe inviare a predicare proprio a
Ninive, si imbarca su una nave diretta all’antipodo,
cioè a Tarsis, forse l’attuale Gibilterra
o la Sardegna. Non manca neppure un pizzico
d’ironia quando si descrive Giona, ignaro
della tempesta che si è scatenata, mentre russa
pacificamente; al contrario, i marinai pagani
«pieni di timore verso il Signore, offrono
sacrifici e voti» (1,16) perché egli plachi il fortunale
marino. La storia dell’arte si è impossessata
di questa narrazione affascinante, rielaborandola
in mille forme, spesso sulla scia
dell’applicazione fatta da Gesù che, dalla permanenza
di tre giorni del profeta nel ventre
del pesce, aveva tratto «il segno di Giona»,
simbolo del sepolcro pasquale e della sua risurrezione
(Matteo 12,39-40).
Ma il libretto biblico vuole illustrare un’altra
tesi: è l’invito a spezzare il guscio dell’integralismo
e a condividere l’universalismo
della misericordia divina che abbraccia anche
il tradizionale nemico di Israele, l’Assiria
idolatra e persecutrice. Giona controvoglia è costretto
a predicare la conversione ai Niniviti e
con irritazione ne scopre l’esito positivo perché
quei pagani si pentono e cambiano vita, mentre
il profeta sperava in un’ostinazione che
avrebbe scatenato il giudizio divino. Con amarezza
giunge al punto di criticare un Dio troppo
«misericordioso e clemente, longanime e di
grande amore, che si lascia impietosire dopo
aver minacciato il giudizio» (4,2).
Alla fine, attraverso una parabola, quella
del ricino e del verme – che invitiamo a leggere
nel capitolo 4 del libro –, il Signore interpella
e ammonisce questo profeta ottuso e
chiuso nelle sue idee (e tutti coloro che sono
simili a lui) con un interrogativo che suggella
il racconto: «Giona, tu ti dai pena per questa
pianta di ricino [seccata e che non ti ripara
più dal caldo]... E io non dovrei aver pietà
di Ninive, la grande città, nella quale vi sono
più di centoventimila abitanti... e una grande
quantità di animali?» (4,10-11).
Pubblicato il 10 novembre 2011 - Commenti (2)
03 nov
Un fariseo, miniatura. Londra, British Library
" Perchè guardi
la pagliuzza
che è nell'occhio
del tuo fratello
e non ti accorgi
della trave che è
nel tuo occhio?"
(Luca 6,41)
«Un discepolo si era macchiato di
una grave colpa. Tutti gli altri reagirono
con durezza condannandolo.
Il maestro, invece, taceva e non reagiva.
Uno dei discepoli non seppe trattenersi e
sbottò: “Non si può far finta di niente dopo
quello che è accaduto! Dio ci ha dato gli occhi!”
Il maestro, allora, replicò: “Sì, è vero,
ma ci ha dato anche le palpebre!”». Siamo
partiti da lontano, con questo apologo indiano,
per commentare una delle frasi più celebri
del Vangelo, dedicata alla falsa correzione
fraterna.
Sappiamo, infatti, che lo stesso Gesù suggerisce
di «ammonire il fratello se commette
una colpa contro di te» (si legga il paragrafo
di Matteo 18,15-18). Ma è inesorabile contro
gli ipocriti che correggono il prossimo per
esaltare sé stessi e, anche in questo caso, è difficile
trovare una più incisiva lezione rispetto
a quella che ci è offerta dalla parabola del fariseo
e del pubblicano (Luca 18,9-14). In tutti
gli ambienti, anche in quelli ecclesiali, ci imbattiamo
in questi occhiuti e farisaici censori
del prossimo, ai quali non sfugge la benché
minima pagliuzza altrui, sdegnati forse
perché la Chiesa è troppo misericordiosa e, a
loro modo di vedere, troppo corriva.
Si ergono altezzosi, convinti di essere investiti
da Dio di una missione, consacrati al servizio
della verità e della giustizia. In realtà, essi
si crogiolano nel gusto sottilmente perverso
di sparlare degli altri e si guardano bene
dall’esaminare con lo stesso rigore la loro
coscienza, inebriati come sono del loro compito
di giudici. Ecco, allora, l’accusa netta di
Gesù: guarda piuttosto alla trave che ti acceca!
«Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci
vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio
di tuo fratello» (6,42). E poche righe prima,
in questo che gli studiosi hanno denominato
il “Discorso della pianura” (parallelo al
“Discorso della montagna” di Matteo), egli
aveva ammonito: «Non giudicate e non sarete
giudicati; non condannate e non sarete condannati;
perdonate e sarete perdonati!» (6,37).
Purtroppo, dobbiamo tutti confessare che
questo piacere perverso di spalancare gli occhi
sulle colpe del prossimo è una tentazione
insuperabile che ci lambisce spesso. Quel racconto
indiano che abbiamo citato in apertura
è accompagnato da un paio di versi di un celebre
e sterminato poema epico indiano, il
Mahabharata, che affermano: «L’uomo giusto
si addolora nel biasimare gli errori altrui,
il malvagio invece ne gode». Bisogna riconoscere
– come ribadiva l’umanista mantovano
Baldesar Castiglione (1478-1529) nel
suo trattato Il Cortegiano – che «tutti di natura
siamo pronti più a biasimare gli errori che a
laudar le cose bene fatte». Ritorniamo, comunque,
a quel discorso di Gesù proposto dal
Vangelo di Luca e riprendiamo un’altra frase
che sia da suggello a questa nostra riflessione
sull’ipocrisia: «Siate misericordiosi come il Padre
vostro è misericordioso» (6,36).
Pubblicato il 03 novembre 2011 - Commenti (3)
11 ago
El Greco (1541-1614): Il Salvatore, Toledo, Cattedrale.
"Dio nostro salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità.
(1 Timoteo 2,3-4)."
L’epistolario paolino si chiude con un fascicolo
di tre scritti omogenei che dal
Settecento si usa chiamare “Lettere pastorali”,
a causa del loro tema dominante e
dei loro destinatari, Timoteo e Tito collaboratori
dell’Apostolo. La loro originalità ha fatto
ipotizzare a molti esegeti biblici una mano diversa
rispetto a quella di Paolo, forse quella di
un discepolo: ad esempio, su un vocabolario
di 848 parole greche diverse che qui vengono
usate, ben 305 non si ritrovano mai nelle lettere
paoline classiche. Tuttavia, è anche possibile
che queste pagine testimonino un’evoluzione
nel pensiero e nello stile dell’Apostolo,
ormai giunto nell’ultima fase della sua esistenza
(si legga il suo bellissimo “testamento”
in 2Timoteo 4,6-8, che a suo tempo abbiamo
proposto in questa nostra rubrica).
Ora, dalla Prima Lettera indirizzata al discepolo
Timoteo – di sangue misto (padre greco e
madre ebrea) e fatto circoncidere da Paolo per
quieto vivere nei confronti della comunità
giudeo-cristiana – abbiamo estratto un passo
molto citato ed effettivamente di grande forza
tematica. A prima vista sembra essere la proclamazione
di una sorta di salvezza universale,
a prescindere dalle religioni, dalle scelte
personali, dalle situazioni contingenti, così da
riportare in vigore l’idea di un inferno vuoto.
In realtà, come è esplicitato nel testo e nel contesto,
l’Apostolo introduce due nodi capitali.
Innanzitutto egli sta parlando della “volontà”
di Dio, cioè del suo progetto che ha rivelato
a profeti e apostoli attraverso Cristo, un
piano che vorrebbe la salvezza di tutte le creature.
Come si legge nel libro del profeta Ezechiele:
«Forse che io ho piacere della morte
del malvagio – oracolo del Signore – o non
piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?
» (18,23). Per questo egli offre con insistenza
la sua grazia, che è come una mano sicura
che strappa dalla palude del peccato l’uomo,
suo capolavoro (Geremia nel capitolo 18
della sua profezia e Paolo in Romani 9,21 usano
l’immagine del vasaio).
C’è, quindi,
un’azione divina che interviene efficacemente
sulla sua creatura e sulla sua storia.
Tuttavia, il Creatore non smentisce sé stesso,
cancellando con la sua potenza la libertà
che egli ha concesso all’umanità. Ecco perché
il progetto divino sa già che l’uomo può ribellarsi
e scegliere di procedere su un’altra via rispetto
a quella tracciata dal disegno di Dio. È
un po’ questa l’amarezza o, se si vuole, la delusione
di Dio che potremmo rappresentare
con le parole addolorate che Gesù rivolge a
Gerusalemme: «Quante volte ho voluto raccogliere
i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini
sotto le ali, ma voi non avete voluto!» (Luca
13,34). Affermava Benedetto XVI nell’enciclica
Spe salvi: «Possono esserci persone che
hanno distrutto totalmente in sé stesse il desiderio
della verità e la disponibilità dell’amore...
È questo che si indica con la parola inferno
». Grazia divina e libertà umana devono,
quindi, incrociarsi per la salvezza.
Una seconda nota è da cercare nel contesto
ove si delinea la via sulla quale si compie
la salvezza. È quella «verità» che Dio vorrebbe
fosse conosciuta: «Uno solo è Dio e uno solo
è il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo
Cristo Gesù, che ha dato sé stesso in riscatto
per tutti» (2,5-6). La via della salvezza è stata,
dunque, aperta da Cristo col suo sacrificio
liberatore e tutti – esplicitamente o su percorsi
del loro spirito e della loro vita che solo
Dio conosce – devono incamminarsi su questo
itinerario di salvezza e redenzione che ha
la meta luminosa della gloria, allorché «Dio
sarà tutto in tutti» (1Corinzi 15,28).
Pubblicato il 11 agosto 2011 - Commenti (2)
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