22 mar
Cristo giudice, affresco. Cattedrale di Santa Maria, Anagni (Frosinone).
"Non crediate
che io sia venuto
a portare
pace sulla terra:
sono venuto
a portare non pace,
ma spada!"
(Matteo 10,34)
Con una simile frase, come fa san Paolo a definire Cristo «nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro della separazione che li divideva» (Efesini 2,14)? Subito dopo quelle parole, Gesù continuava con la stessa durezza affermando di «essere venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera» (Matteo 10,35). Ma non è lo stesso Gesù che, al discepolo pronto a colpire con una spada un servo del sommo sacerdote nel Getsemani, dirà senza esitazione: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada periranno» (26,51-52)?
È, perciò, evidente che la dichiarazione posta all’interno del cosiddetto “Discorso missionario” di Gesù, il secondo dei cinque grandi discorsi incastonati nel Vangelo di Matteo, sia da interpretare in chiave metaforica e non letterale. Quest’ultima, tra l’altro, risulterebbe in palese contrasto con il messaggio costante di Cristo che invitava il suo discepolo persino a porgere l’altra guancia a chi lo schiaffeggiava (5,39). Nella stessa linea sarà da interpretare l’episodio riferito da Luca durante l’ultima cena quando, a sorpresa, Gesù inviterà i suoi discepoli a vendere il mantello per comperare una spada. Egli intendeva in questo modo metterli in tensione: l’impero delle tenebre stava per celebrare il suo trionfo, non si poteva rimanere inerti, era necessario ingaggiare una lotta con il Male. Che l’equivoco fosse, però, in agguato appariva già in quella sera. Subito si erano fatti avanti dei discepoli a dirgli: «Signore, ecco qui due spade!». Infatti, come è attestato dallo storico giudaico filoromano Giuseppe Flavio, contemporaneo di san Paolo, era concesso di girare armati per difesa personale in alcuni territori della Palestina e anche in occasione della festa di Pasqua a causa della folla che si accalcava a Gerusalemme (così nella sua opera Antichità Giudaiche XIV,4,2; XVIII,9,2). Gesù, però, di fronte a quella risposta aveva reagito con un amaro e sconsolato: «Basta!» (Luca 22,35-38).
Qual è, allora, il significato vero dell’evocazione della spada sulle labbra di Cristo? La risposta è semplice: la scelta per il Vangelo è costosa in termini di impegno nella vita. La definizione che il vecchio Simeone, stringendo tra le braccia il neonato Gesù, gli aveva assegnato era illuminante: «Egli sarà un segno di contraddizione» (Luca 2,34). La sua presenza nel mondo non sarà neutra e incolore, la sua parola sarà come «una spada a doppio taglio che penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito » (Ebrei 4,12), dall’incontro con lui non si potrà uscire indenni, la sua proposta morale sarà molto esigente e scardinerà tanti interessi privati.
Sono molti i passi evangelici che ribadiscono il valore metaforico, ma non per questo inoffensivo, sotteso all’immagine della spada qui usata da Gesù. È, poi, suggestiva la raffigurazione del Cristo che l’Apocalisse dipinge in apertura al libro. In essa si legge che «dalla sua bocca usciva una spada affilata, a doppio taglio» (1,16), attuazione del detto isaiano secondo il quale «il soffio delle labbra (del re Messia) ucciderà l’empio» (11,4), cancellando il Male. Ed è per questo che nell’armatura simbolica del cristiano descritta da Paolo nella Lettera agli Efesini (6,11-17) c’è anche «la spada dello Spirito, che è la parola di Dio» (6,17).
Pubblicato il 22 marzo 2012 - Commenti (0)
10 feb
Offerta di Caino e Abele, maestro Bertram (1340-1415), altare maggiore, chiesa di San Pietro (Amburgo), Hamburger Kunsthalle
"Se stai per presentare la tua offerta all’altare, e là ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia là il tuo dono, davanti all’altare, e va’ prima a riconciliarti col tuo fratello.
Poi torna a offrire il tuo dono."
(Matteo 5,23-24)
La processione dei fedeli sta per accedere al tempio di Sion per offrire i sacrifici
rituali. Alla porta d’ingresso, ecco un
levita che proclama una serie di condizioni
prerequisite per poter essere ammessi al culto.
Quali erano queste clausole di ammissione?
Norme di purità esteriore con abluzioni,
come accadeva in molti templi dell’antichità
o come avviene con le fontane che precedono
le moschee? Prescrizioni sull’abbigliamento,
come leggiamo oggi sui cartelli posti davanti
alle nostre cattedrali o chiese storiche? Anche
l’antica raccolta delle tradizioni giudaiche, il
Talmud, ammoniva che «non si deve salire
sul monte del tempio con le scarpe, né con la
borsa, né con la polvere sui piedi e non si deve
sputare per terra».
Ecco, invece, l’elenco di coloro che sono ammessi
al tempio secondo quel levita: «Chi cammina
con moralità, chi pratica la giustizia,
chi dice la verità dal cuore, chi non ha calunnia
sulla lingua, chi non fa del male al suo
prossimo, chi non insulta il suo vicino, chi
considera spregevole il perverso e onora colui
che teme il Signore, chi non ha esitazioni, anche
se ha giurato a suo danno (nel mantenere
la parola data), chi non presta denaro a usura,
chi non si lascia corrompere contro l’innocente!
». A questo punto ecco la conclusione: «Chi
agisce così, sarà stabile per sempre» e quindi
starà sulla rupe solida del tempio, simbolo
della potenza salvatrice di Dio.
Abbiamo sceneggiato il testo del Salmo
15, perché esso è in qualche modo l’antefatto
del frammento che abbiamo proposto ritagliandolo
da quel fondamentale “Discorso
della Montagna”, considerato – forse un po’
eccessivamente – la “Magna Charta” del cristianesimo
(in verità, nel cuore del messaggio
cristiano si devono porre anche e soprattutto
l’Incarnazione e la Pasqua di Cristo).
Gli studiosi della Bibbia hanno classificato
il Salmo 15 e altri passi analoghi come una
“liturgia d’ingresso” ed è facile capirne il
motivo. L’ingresso al culto è aperto solo se si
ha la coscienza pura e onesta. Anche noi iniziamo
la Messa con l’atto penitenziale in cui
ci riconosciamo peccatori davanti a Dio e ai
nostri fratelli.
I fratelli sono, appunto, al centro del passo
matteano che stiamo considerando. Immaginiamo
allora due fratelli. Uno sta per entrare
nel tempio a pregare e a fare la sua offerta
sacrificale o a partecipare all’Eucaristia. L’altro
fratello è in città: tra i due c’è stata una lite
violenta e non si parlano più, anzi, si detestano.
Il primo sa di questa tensione e vorrebbe
quasi ignorarla. Ecco, però, la voce di Gesù:
lascia lì dono e offerta, rientra in città e
bussa alla porta di tuo fratello e cerca di riconciliarti
con lui. Tutto questo è emblematicamente
rappresentato oggi in un gesto liturgico
divenuto ormai abitudinario e scontato,
quello dello scambio di pace prima di ricevere
l’Eucaristia.
Più significativo al riguardo è il rito ambrosiano
della Chiesa di Milano che pone tale gesto
prima dell’offertorio con questa esortazione:
«Secondo l’ammonimento del Signore,
prima di presentare i nostri doni all’altare,
scambiamoci un segno di pace». Come insegnavano
i profeti, la liturgia senza la vita giusta,
il rito senza la giustizia, la preghiera senza
l’amore sono sgraditi a Dio e rischiano di
essere una farsa. Era ancora Gesù che ripeteva:
«Quando vi mettete a pregare, se avete
qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché
anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a
voi i vostri peccati» (Marco 11,25).
Pubblicato il 10 febbraio 2011 - Commenti (0)
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