L'Eterno appare a Mosè di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto (1518 - 1594). Venezia, Scuola Grande San Rocco.
"Noi tutti, a viso scoperto, riflettiamo come in uno specchio la gloria del Signore e così siamo trasformati in quella stessa immagine, di gloria in gloria."
(2Corinzi 3,18)
«Quando Mosè scese dal monte Sinai non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con Dio. Aronne e tutti gli Israeliti, vedendo raggiante la pelle del suo viso, ebbero paura di accostarsi a lui... Mosè, allora, si pose un velo sul volto» (Esodo 34,29-30.33). L’uomo non esce indenne dall’incontro con Dio, viene quasi trasfigurato, tanto da irradiare luce attorno a sé. San Paolo sta meditando appunto su questo passo biblico e lo applica al cristiano con una variante radicale. Prima, però, diamo uno sguardo generale all’intero testo che l’Apostolo sta dettando.
La Seconda Lettera ai Corinzi – ha scritto un suo commentatore, il
tedesco Otto Kuss – «riflette il temperamento, la ricchezza
caratteriale, l’eccitabilità persino, la ruvidezza di Paolo e anche la
confusione della situazione» che si era creata nella tormentata comunità
greca di Corinto.
Lo scritto è anch’esso molto travagliato, con salti
tematici, a tal punto che non pochi esegeti hanno ipotizzato che esso
sia una specie di collage di diverse lettere dell’Apostolo qui
unificate. A questo proposito c’è un’immagine di grande intensità che
vorremmo riproporre: «La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei
nostri cuori... Siete come una lettera di Cristo, composta da noi,
scritta non con l’inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su
tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei cuori» (3,2-3).
A questa
immagine si accosta quella del volto radioso del cristiano. Chi vive a
contatto con Dio si trasforma e non deve nascondere questa luminosità,
perché essa può rischiararei fratelli. Ecco, allora, la variante che
l’Apostolo introduce rispetto al passo biblico da cui è partito. A Mosè
era stato suggerito di celare una luce troppo forte; Paolo, invece,
ricalca le parole che Cristo aveva rivolto ai suoi discepoli: «Voi siete
la luce del mondo... non si accende una lucerna per nasconderla sotto
un moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che
sono in casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché
vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei
cieli» (Matteo 5,14-16).
Non possiamo, però, ignorare un aspetto nella
comparazione che Paolo instaura tra Mosè e il cristiano e, quindi, tra
l’antica e la nuova alleanza. Egli vuole, infatti, sottolineare una
discontinuità, una differenza che non deve però condurre a negare il
legame pur profondo che ci unisce alla prima alleanza. Sappiamo quanto
l’Apostolo sia orgoglioso di definirsi «circonciso l’ottavo giorno,
della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei,
fariseo secondo la Legge» (Filippesi 3,8). Qual è, allora, la diversità
che viene ora marcata?
La risposta è semplice. Per l’Antico Testamento
il volto divino, cioè l’intima essenza personale del Signore, è
invisibile a occhio umano perché è come un oceano di luce che acceca, e
già il riflesso di essa stampato sul viso di Mosè si rivela
insopportabile allo sguardo degli Israeliti. Lo stesso Mosè aveva
implorato di contemplare pienamente quel volto, ma la risposta era stata
negativa: a lui era apparso solo il dorso del Signore che si
allontanava (Esodo 33,18-23). Con l’Incarnazione, invece, nel volto di
Cristo c’è la possibilità di vedere il Padre, cioè Dio («Chi ha visto me
ha visto il Padre», Giovanni 14,9). Per questo san Giovanni, in
apertura alla sua Prima Lettera, dichiarerà di aver potuto «vedere con
gli occhi, contemplare e toccare con le mani il Verbo della vita, perché
la vita [divina] si è fatta visibile» in Gesù Cristo (1,1-2).
Pubblicato il
16 marzo 2011 - Commenti
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