01
mar

Non indurci in tentazione

Tentazione di sant’Antonio di Domenico Morelli (1826-1901). Roma, Galleria d’arte moderna.
Tentazione di sant’Antonio di Domenico Morelli (1826-1901). Roma, Galleria d’arte moderna.

"Non indurci
in tentazione,
ma liberaci
dal male".
(Matteo 6,13)

Se nella liturgia eucaristica recitiamo la preghiera del Padre nostro, la conclusione è quella che abbiamo sopra citato e che da sempre sappiamo a memoria. Se, invece, prendiamo in mano la nuova versione ufficiale della Bibbia della Conferenza episcopale italiana, troviamo quest’altra traduzione: «Non abbandonarci alla tentazione », una frase certamente meno dura della prima più comune. Questa, però, ricalca sostanzialmente il testo greco originario, il quale ha letteralmente «non farci entrare, non portarci dentro la tentazione». La frase, nell’originale aramaico usato da Gesù, supponeva forse un senso solo “permissivo”: «Non lasciarci entrare nella tentazione» e, così, si avrebbe in pratica la nuova resa del «non abbandonarci », che sarebbe perciò legittima a livello di significato.

Tuttavia, vorremmo cercare ora di giustificare anche la versione tradizionale tanto aspra nella sua “induzione” da parte di Dio alla tentazione. Innanzitutto distinguiamo tra “tentazione-prova”, vissuta da Abramo, Israele nel deserto, Giobbe e che è comprensibile come un’educazione alla fedeltà, all’amore puro, alla fede genuina, e la “tentazione- insidia” che mira, invece, alla ribellione dell’uomo contro Dio e la sua Legge e che ha come provocatore Satana o il mondo peccatore, come accade per esempio a Eva e Adamo. Eppure, nella Bibbia si ha, talora a sorpresa, come soggetto anche di questa “tentazione- insidia” Dio stesso.

Tanto per fare un esempio, un atto di superbia del re Davide è posto dal Secondo Libro di Samuele sotto l’insegna divina: «Dio incitò Davide a fare il male attraverso il censimento di Israele» (24,1), mentre il posteriore e parallelo Primo Libro delle Cronache ha un più naturale «Satana incitò Davide a censire Israele» (21,1). Come spiegare questa “induzione” di Dio al male che aleggia anche nella frase in questione del Padre nostro? La risposta è da cercare nella mentalità semitica antica. Essa per evitare di introdurre un dualismo, ossia l’esistenza di due divinità, l’una buona e l’altra satanica, cerca di porre tutto l’orizzonte del bene e del male sotto il controllo dell’unico Dio.

Nel libro di Isaia il Signore non esita a dire: «Sono io che formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e causo il male: io, il Signore, compio tutto questo!» (45,7). In realtà, è proprio la Bibbia a insegnarci che la scelta per il male dev’essere ricondotta alla libertà umana, stimolata dal tentatore diabolico. Ma per salvare il primato assoluto di Dio, si usano queste e altre formule che ai nostri orecchi risultano imbarazzanti e che non contraddicono l’altra dottrina sulla responsabilità umana, ben espressa dal sapiente biblico detto Siracide: «Da principio Dio creò l’uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere. Se tu vuoi, puoi osservare i comandamenti; l’essere fedele dipende dalla tua buona volontà... Davanti agli uomini stanno la vita e la morte, a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (15,14-15.17).

Pregando il Padre di «non indurci in tentazione», in ultima analisi si riconosce la sua signoria suprema, ma gli si chiede anche di non permettere che entriamo nel cerchio attraente del peccato, di non abbandonarci alle reti della “tentazione-insidia”, di “liberarci dal male” come spiega poi la successiva invocazione. Certo è che in questa domanda del Padre nostro sono coinvolti temi teologici capitali come la libertà e la grazia, la fedeltà e il peccato, il bene e il male.

Pubblicato il 01 marzo 2012 - Commenti (3)
02
feb

La prima tentazione di Gesù

Gesù precipita Satana di Mattia Preti (1613-1699). Napoli, Museo di Capodimonte.
Gesù precipita Satana di Mattia Preti (1613-1699). Napoli, Museo di Capodimonte.

"Gesù fu condotto nel deserto dallo
Spirito per essere tentato dal diavolo".
(Matteo 4,1)

L’ultima tentazione di Cristo è il titolo di un romanzo che lo scrittore greco Nikos Kazantzakis pubblicò nel 1955 e che è divenuto famoso per la libera e provocatoria resa cinematografica eseguita nel 1988 dal regista americano Martin Scorsese. In realtà, la vera prima tentazione di Cristo è narrata dai Vangeli Sinottici agli esordi della sua missione pubblica: Marco (1,12-13) si affida a sole quattro frasi essenziali, mentre Matteo (4,1-11) e Luca (4,1-13) “sceneggiano” l’evento in un trittico di quadri che hanno come fondali il deserto, il punto più alto del tempio di Gerusalemme e un monte molto elevato. Ciò che imbarazza il lettore è proprio l’avvenimento in sé con questa strana sorta di trasferimento “aereo” che vede Gesù in balìa di Satana.

È indubbio che la tentazione sia stata un’esperienza storica reale narrata da Cristo stesso, perché difficilmente la comunità cristiana delle origini avrebbe inventato un simile episodio che vedeva il suo Signore alla mercé del diavolo che lo provocava. Gesù stesso probabilmente ha raccontato questa vicenda traumatica forse evocando tre luoghi diversi in cui egli la visse. In essa la tentazione si configurava come la proposta di imboccare vie alternative per la sua missione messianica rispetto a quella che il Padre gli aveva assegnato: la strada di un messianismo puramente sociale (i pani) o taumaturgico (il prodigio della caduta dal pinnacolo del tempio rimanendo illeso) o politico (i regni della terra).

Certo è che la narrazione crea sorpresa, perché Satana sembra esercitare un certo potere su Gesù, ma questo elemento sorprende di meno, se si riconduce la tentazione al suo significato primario. Essa è come una messa in opera della libertà umana, della sua capacità di decisione, di scelta, di volontà. Ora, si deve ribadire con forza che l’umanità di Gesù non è una vaga somiglianza a noi ma è una realtà genuina, e quindi deve comprendere il rischio della libertà che è specifico della creatura umana. Come Adamo è sotto l’albero della conoscenza del bene e del male, cioè sotto l’albero della scelta morale libera, sottoposto allo stimolo tentatore del serpente diabolico, così anche Gesù, vero uomo, è davanti a una libera opzione che riguarda la sua missione.

Egli, però, a differenza di Adamo, fondandosi sulla parola di Dio – che cita nelle sue risposte al demonio in una specie di dibattito teologico (anche il diavolo usa riferimenti a testi biblici) – sceglie di aderire al progetto divino in maniera totale, rigettando le alternative sataniche. Emerge, in tal modo, la figura non solo del nuovo e perfetto uomo-Adamo, ma anche quella del nuovo Israele che, diversamente dal popolo ebraico in marcia nel deserto, non cade nella rete diabolica della tentazione e diviene, così, un esempio per noi, uomini e donne, spesso coinvolti e travolti dalle prove morali. La persona di Cristo, infatti, si erge alla fine come colui che ha resistito al demonio con vigore e serenità, rimanendo fedele alla volontà del Padre celeste, «ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano» (Matteo 4,11).

Pubblicato il 02 febbraio 2012 - Commenti (2)
03
ago

I calici scintillanti

La Cantina, Trophime Bigot (1579-1650), Firenze, Galleria Uffizi.
La Cantina, Trophime Bigot (1579-1650), Firenze, Galleria Uffizi.

"Non ti affascini il vino che rosseggia scintillando nella coppa, morbidamente fluendo! Alla fine ti morderà come un serpente e ti pungerà come una vipera.
(Proverbi 23,31-32)."

«Il vino mi spinge, / il vino folle che fa cantare anche l’uomo più saggio / e lo fa ridere sguaiatamente, lo costringe a danzare / e gli tira fuori parole che sarebbe meglio tacere». Così Omero in un ritratto efficace della persona ubriaca (Odissea XIV, 463-466). Oh, sì, il calice di vino scintillante è una tentazione a cui, una volta ceduto, si procede lungo una china dolce e impercettibile che ha come tappe solo un appello reiterato che un altro poeta greco, Alceo (VII-VI sec. a.C.), così formulava: «Presto, riempite di nuovo il cratere di vino soave!». E alla fine, ecco la caduta nell’avvilimento che non risparmia nessuno, stupido e saggio. Lasciamo la parola ancora a un autore dell’antichità, il latino Seneca che all’amico Lucilio scriveva: «L’ubriachezza accende e porta alla luce tutti i vizi, togliendo quel senso del pudore che è un freno agli istinti perversi»

Neanche la Bibbia manca all’appello in questa ideale antologia di ammonimenti sapienziali sulla degenerazione che l’alcol può produrre. È ciò che tratteggia in modo vivacissimo il libro dei Proverbi in una sua sezione che ricalca vari elementi della saggezza egizia, in particolare delle “massime” di Amen-em-ope (X sec. a.C.). Il quadretto, dopo il frammento da noi proposto, continua così: «Allora i tuoi occhi vedranno cose strane, la tua mente ti farà biascicare frasi sconnesse. Ti sembrerà di giacere in alto mare oppure di essere sospeso in cima a un albero maestro. Dirai: “Mi hanno picchiato, eppure non sento dolore! Mi hanno bastonato, ma non mi sono accorto. E quando mi sveglierò? Chiederò ancora vino!”» (23,33-35).

La finale, che ripete ciò che diceva sopra Alceo, traccia il cerchio vizioso che ormai s’è creato e che conduce alla dipendenza. È un discorso che ai nostri giorni si potrebbe aggiornare introducendo l’analoga devastazione fisica, mentale e spirituale indotta dalla droga. L’esortazione a essere in guardia contro il vizio della gola, che non per nulla è uno dei sette peccati capitali, è un’indicazione morale sempre necessaria. Perciò, davanti alla coppa rosseggiante che scintilla, sarebbe meglio ascoltare solo musicalmente e non obbedire materialmente all’invito di Violetta, Alfredo e del coro della Traviata di Giuseppe Verdi: «Libiam, libiam ne’ lieti calici, che la bellezza infiora...»

Un altro sapiente biblico, il Siracide, ribadisce la stessa lezione: «Non esagerare col vino perché ha mandato molti in rovina». Ma aggiunge un’altra nota che apre un diverso profilo di questo che è pur sempre un frutto della natura e che «allieta il cuore dell’uomo » (Salmo 104,5): «Il vino è come la vita degli uomini, purché tu lo beva con misura. Che vita è mai quella di chi non ha vino? Esso, infatti, fu creato per la gioia degli uomini. Allegria del cuore e gioia dell’anima è il vino bevuto a tempo e con misura» (Siracide 31,25-28). È su questa linea che il vino può essere assunto a simbolo messianico, illustrandone la gioia, la festosità, la bellezza

Il profeta Amos, infatti, annuncia: «Verranno giorni in cui dai monti stillerà il vino nuovo e colerà giù dalle colline» (9,14). E a lui farà eco Isaia: «Preparerà il Signore degli eserciti un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati» (25,6). Non è possibile, infine, ignorare che Cristo sceglierà proprio questo segno semplice, che è sulle tavole di tutti i giorni, per farlo diventare destinatario di parole e di una funzione sorprendenti: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi... Vi dico che d’ora in poi non berrò di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi, nel Regno del Padre mio» (Luca 22,20; Matteo 26,29).

Pubblicato il 03 agosto 2011 - Commenti (0)

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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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