Salimbeni Lorenzo (1374 ca. - 1420 ca): La Samaritana, Eremo di Lecceto.
"Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità"
(Giovanni 4,24)
Il pozzo è profondo 32 metri ed è circondato
dalle pareti di una chiesa ortodossa che
non fu mai completata. Su di esso si ergono
i due monti noti anche alla Bibbia che li ha
evocati in senso simbolico, il verdeggiante Garizim,
segno di benedizione, e il pietroso
Ebal, emblema di maledizione (Deuteronomio
27). Il primo era divenuto anche il monte
sacro dei Samaritani che su di esso celebrano
ancor oggi la loro Pasqua. A quel pozzo,
posto a valle e attribuito al patriarca biblico
Giacobbe, sosta in un caldo giorno estivo Gesù
e il celebre inno Dies irae alluderà proprio
a quella pausa che Cristo si concede, mentre i
suoi discepoli si sono diretti al vicino villaggio
di Sicar per trovare cibo, e la tramuta in
un simbolo: Quaerens me sedisti lassus, eri seduto
stanco là, col desiderio di cercarmi...
Ed effettivamente una persona s’avanza in
quel mezzogiorno assolato: è una donna di
quella comunità eterodossa che ancor oggi
sopravvive nella vicina città di Nablus, una
samaritana. Sappiamo tutti – sulla base dello
straordinario racconto del capitolo 4 di Giovanni
– la piega che prende quell’incontro
tra Gesù e la donna dalla vita sentimentale
piuttosto movimentata. L’acqua di quel pozzo
diviene un alto segno spirituale: «Chiunque
beve di quest’acqua, di nuovo avrà sete.
Ma chi beve dell’acqua che io gli darò non
avrà più sete. Anzi, l’acqua che gli darò diverrà
in lui sorgente di acqua che zampilla per
la vita eterna» (4,13-14).
Il dialogo, però, acquista un’ulteriore svolta.
Tende ora verso l’infinito mistero di Dio e
verso la relativa conoscenza e adesione da
parte dell’uomo. Le parole di Cristo si fanno
ancor più solenni: «È giunto il tempo in cui i
veri adoratori adoreranno il Padre in spirito
e verità» (4,23). Ed è a questo punto che viene
offerta quella definizione di Dio e del credente
che costituisce il frammento da noi proposto:
«Dio è spirito» e l’atteggiamento profondo
del fedele è quello dell’adorare in «spirito
e verità». Dobbiamo subito spazzar via un’interpretazione
“spiritualistica” e intimistica
che, come non di rado è avvenuto, ha dato
origine a una religiosità di stampo individuale,
interiore, misticheggiante, fin esoterico.
Secondo questa concezione, il vero credente
è colui che adora Dio stando in contemplazione
davanti all’architettura del tempio cosmico,
oppure nel più modesto spazio della
sua camera e incontra il suo Signore nella
sua coscienza che alla fine risulta il tempio
autentico in cui Dio risiede. Pur essendo suggestiva,
questa visione non spiega la genuina
concezione del Gesù giovanneo. «Spirito
e verità» sono intrecciati tra loro al punto di
essere quasi sinonimi. Lo «Spirito» è il comunicarsi
di Dio che ha in Cristo la sua espressione
perfetta, e la «verità» è la Parola divina che
lo stesso Cristo annunzia. In questa linea va
la dichiarazione che fa san Paolo: «Il Signore
[cioè Cristo] è lo Spirito e dove c’è lo Spirito
del Signore c’è libertà» (2Corinzi 3,17).
Senza negare lo Spirito Santo Paraclito, viene
presentato Cristo nella sua funzione di rivelatore
perfetto del Padre e della sua parola:
«Dio nessuno l’ha mai visto, ma il Figlio
unigenito che è nel seno del Padre, lui lo ha
rivelato» (Giovanni 1,18). La fede e il culto
cristiano sono, quindi, l’adesione viva e piena
alla persona di Cristo, al suo Vangelo, alla
sua offerta di comunione: «Se rimanete in
me e le mie parole rimangono in voi, chiedete
ciò che volete e vi sarà dato» (Giovanni
15,7). Ed essere in Cristo è essere in Dio: «Io
in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità
» (Giovanni 17,23).
Pubblicato il 24 marzo 2011 - Commenti (0)