Le tre Marie al sepolcro, particolare dalla Maestà di Duccio di Buoninsegna (1260 ca.-1318). Siena, Museo dell’Opera della Metropolitana.
"Le donne fuggirono via dal sepolcro,
piene di spavento e di stupore.
E non dissero niente a nessuno
perché erano impaurite".
(Marco 16,8)
Abbiamo intenzionalmente posto i
puntini di sospensione al termine
della nostra citazione, perché questa
volta vogliamo affrontare non tanto
un passo difficile del Vangelo di Marco,
quanto piuttosto un vuoto. Tutti gli studiosi,
su basi ben motivate che noi soltanto
evocheremo, ritengono, infatti, che qui
finisca lo scritto marciano. Se i lettori, però,
prenderanno in mano la loro Bibbia,
troveranno che il racconto procede ancora
dal v. 9 al 20 con una sintesi delle apparizioni
del Cristo risorto. Ebbene, quella
finale – che comunque fa parte delle
Scritture ispirate e riconosciute nel Canone
della Chiesa – in realtà è un’aggiunta
redazionale più tarda, come si
intuisce tenendo conto di due fattori.
Il primo è lo stile di questo brano finale,
profondamente mutato rispetto
all’asciuttezza e vivacità del dettato di
Marco: si ha l’impressione di essere di
fronte a un riassunto delle apparizioniincontri
del Risorto che l’evangelista
forse non aveva apposto nelle ultime
pagine del suo racconto. La seconda ragione
è da verificare nei più antichi e
importanti codici pergamenacei che ci
hanno trasmesso il testo dei Vangeli: ebbene,
in quei manoscritti l’attuale finale
manca, e così si attesta che allora essa
non era considerata come originaria.
Altri codici antichi dei Vangeli offrono
differenti conclusioni e anche i Padri
della Chiesa hanno al riguardo non poche
esitazioni e oscillazioni.
È indubbio che il Vangelo di Marco
non poteva finire col v. 8 sopra citato,
così incompiuto e sospeso (soprattutto
nel dettato greco originario). Ci è ignota
la causa per cui alla finale dell’evangelista
si sia sostituito l’attuale sommario
dei vv. 9-20, né si sa quando questo sia
avvenuto, anche se si deve riconoscere
che già nel II secolo alcuni autori cristiani,
come Taziano e sant’Ireneo, ne attestano
la conoscenza e molti codici posteriori
l’hanno accolto, seguiti dalle antiche
traduzioni dei Vangeli. È per questo
che esso si presenta anche nelle nostre
Bibbie e su questo testo la Chiesa ha posto
il sigillo della canonicità e, quindi,
dell’ispirazione divina, anche se la pagina
non è frutto dell’opera di Marco.
Sappiamo, infatti, che molti libri biblici
– pur avendo il patronato di un unico
autore – rivelano al loro interno diverse
mani di autori differenti. Il caso
più noto è quello di Isaia che vede, accanto
al celebre profeta dell’VIII secolo a.C.,
la presenza di altre voci distribuite nei secoli
successivi: le principali sono state
chiamate dagli esegeti il “Secondo” e il
“Terzo Isaia” (cc. 56-66), mentre anche altre
parti del libro isaiano sono da riferire
a questi stessi autori o a mani non identificabili.
Anche nel Vangelo di Giovanni,
la cui formazione fu molto complessa, si
notano due finali successive e distinte in
20,30-31 e 21,24-25, testimonianza di redazioni
diverse del testo giovanneo.
Il concetto di “ispirazione” divina
non è, infatti, rigido, quasi fosse un dettato
diretto tra Dio e un autore, ma è
una presenza molto ampia dello Spirito
divino che attraversa non solo guide,
profeti, sapienti, apostoli, ma anche autori
che hanno raccolto il loro messaggio
(è il caso di Marco, collegato probabilmente
a Pietro e un po’ anche a Paolo,
ma pure di Luca, discepolo di Paolo)
e redattori vari. Il suggello che la Chiesa,
illuminata dallo Spirito, impone al testo
finale della Bibbia, permette al fedele di
coordinare questa molteplicità nell’unità
di respiro della parola di Dio.
Pubblicato il 26 novembre 2012 - Commenti (2)