Vincent van Gogh, Primi passi, da Millet, 1890, New York, Metropolitan Museum of Art.
“ A Efraim io insegnavo a camminare,
tenendolo per mano...
Li attiravo a me con legami di bontà e vincoli d'amore. Ero come chi solleva un bimbo alla sua guancia, chinandomi su di lui per farlo mangiare."
(Osea 11,3-4)
Chi è genitore conosce bene la fatica e
tutti gli stratagemmi che bisogna escogitare
per convincere un bambino riottoso
a mangiare un cibo necessario ma a lui
sgradito, così come non ha certo dimenticato
la pazienza che si deve esercitare quando s’insegna
al proprio figlio a camminare. A ogni caduta
bisogna subito ricorrere a un bacio o a
una stretta per placare il piccolo che si abbandona
a un pianto omerico e inconsolabile. È curiosamente
questa la duplice scenetta che il
profeta Osea (VIII secolo a.C.) desume dalla
sua esperienza di padre e la applica al Signore
che è alle prese con un figlio così capriccioso
come Efraim, cioè Israele.
Non bisogna dimenticare che lo stesso profeta,
nelle prime pagine del suo libro, era partito
da un’altra sua esperienza familiare
tutt’altro che rara ai nostri giorni – quella di
un matrimonio in crisi – per rappresentare il
rapporto tra Dio e il suo popolo, in questo
caso incarnato dalla moglie infedele di
Osea che lo aveva abbandonato lasciandogli
da accudire tre figli. Suggeriamo, perciò,
ai nostri lettori di seguire anche il racconto
autobiografico che il profeta ci ha lasciato
nei primi tre capitoli della sua opera. Là ci si
imbatterà nel nome simbolico dei suoi tre figli,
due maschi e una femmina.
A essi, infatti, Osea, consapevole di essere lui
stesso nella sua vita un emblema per Israele,
aveva assegnato tre nomi impossibili: Izreel,
che era il toponimo di una città ove si erano
consumati delitti pubblici e privati narrati dalla
Bibbia (1Re 21; 2Re 20); Lo’-ruhamah, “Nonamata”,
per la bambina; Lo-’ammî, “Non-miopopolo”,
per il terzo maschietto. Nomi che incarnavano
sia il peccato del popolo, sia il rigetto
che il Signore aveva compiuto nei suoi riguardi.
Naturalmente, una volta che Dio e
Israele si fossero riconciliati, come il profeta sognava
nei confronti di sua moglie Gomer, i tre
nomi sarebbero stati trasformati: Izreel avrebbe
riacquistato il suo significato etimologico positivo
di “seme di Dio”, cioè fecondo, e gli altri
due figli sarebbero diventati Ruhamah, “Amata”,
e ’Ammî, “Popolo mio”.
Ciò che ci preme sottolineare è questa suggestiva
raffigurazione del Signore con sentimenti,
passioni e affetti umani. È quello
che si definisce col termine “antropomorfismo”:
un Dio così strettamente vicino alla
sua creatura da condividerne l’esperienza
personale e intima. È, questo, un primo passo
che prepara l’Incarnazione cristiana
quando il Verbo divino si fa “carne” umana,
come insegna san Giovanni (1,14).
C’è un altro aspetto che vorremmo rimarcare.
Esso riguarda una delle idee fondamentali
che la Bibbia rivela per indicare la relazione
tra il Signore e Israele e che è espressa col termine
“alleanza, patto” (in ebraico berît).
Ebbene, al Sinai questa alleanza era stata definita
ricorrendo al simbolo dei trattati tra un
sovrano e i principi vassalli. Era, quindi, un vincolo
di stampo giuridico-politico, piuttosto
estrinseco. Con Osea, invece, si passa dal patto
diplomatico all’alleanza nuziale, ove sono
ancora in gioco le violazioni (i tradimenti), ma
ben diverse sono sia la tonalità sia la qualità di
questo rapporto: per usare le parole di Osea, sono
«legami di bontà e vincoli d’amore».
Pubblicato il 08 settembre 2011 - Commenti (2)