Tintoretto (Jacopo Robusti, 1518-1594), anta d’organo con gli evangelisti Luca e Matteo. Venezia, Santa Maria del Giglio (Scala).
"Padre, sia
santificato
il tuo nome,
venga il
tuo regno..."
(Luca 11,2)
Tutti i cristiani conoscono a memoria la
preghiera che Gesù ha insegnato ai
suoi discepoli. Se, però, aprono il Vangelo
di Luca, anziché invocare il Padre celeste
con sette domande, si ritrovano a pregarlo
solo con cinque e non del tutto coincidenti
con le formule che essi ripetono nelle loro
orazioni o nella liturgia: «Padre, sia santificato
il tuo nome, / venga il tuo regno, / dacci
ogni giorno il nostro pane quotidiano, / e
perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti
perdoniamo a ogni nostro debitore, / e
non abbandonarci alla tentazione» (11,2-4).
Ebbene, noi conosciamo a memoria la
versione più ampia offerta dall’evangelista
Matteo (6,9-13): essa riflette probabilmente
un adattamento all’uso che già si faceva
della preghiera di Gesù nella comunità
cristiana delle origini e nella sua liturgia.
Questa variazione, che non intacca la
sostanza dell’orazione, è la conferma di
un elemento fondamentale per comprendere
i Vangeli. Essi, pur riferendo dati storici,
non sono manuali storiografici in senso
stretto, non sono biografie rigorose né
tanto meno verbali dei fatti o dei detti di
Cristo. Gli evangelisti assumono gli eventi
trasmessi dai testimoni (come accade per
Marco e Luca) o da loro stessi vissuti (come
nel caso di Matteo o Giovanni) e li ordinano
all’interno di una trama, riferiscono le
parole di Gesù adattandole al loro uditorio,
attualizzandole e incarnandole nei
nuovi contesti.
La loro è, dunque, una fedeltà duttile e la
loro finalità ultima non è tanto la ricostruzione
storica in senso accademico, ma l’annunzio
della storia della salvezza. Così, Matteo
incastona il Padre nostro nel Discorso della
Montagna, che raccoglie vari interventi
pronunziati da Gesù in momenti diversi e delinea
una sorta di minicatechismo sulla preghiera
(si legga il passo Matteo 6,5-9 che precede
il Padre nostro).
Luca, invece, fa fiorire il
“Padre” (egli ha solo l’invocazione nuda Páter
che sembra riflettere l’aramaico abba,
“babbo”, caro a Gesù) da una domanda di
uno dei discepoli, il quale chiede a Gesù una
preghiera distintiva per la sua comunità, così
come i discepoli del Battista o altri gruppi religiosi
del tempo si distinguevano proprio
per una loro preghiera-simbolo, simile a un
vessillo di riconoscimento.
Come si diceva, le cinque invocazioni di Luca
sono forse la forma originaria del Padre
nostro insegnata da Gesù, prima delle aggiunte
introdotte dall’uso comunitario e riferite
da Matteo. Luca, però, ha reso le invocazioni
più comprensibili nella loro formulazione
anche ai suoi interlocutori che erano cristiani
non di origine ebraica ma pagana.
È per
questo che leggiamo invece di «Rimetti a noi
i nostri debiti…», come si ha in Matteo, un
più chiaro «Perdona a noi i nostri peccati».
Nella lingua usata da Gesù, l’aramaico, i peccati
erano appunto chiamati hobáin, “debiti”
nostri nei confronti di Dio. La realtà profonda
della preghiera che Cristo ha voluto insegnarci
rimane, dunque, intatta anche nelle
” diversità redazionali degli evangelisti.
Pubblicato il 14 febbraio 2013 - Commenti (2)