Mosè riceve le tavole della Legge e le mostra al popolo ebraico, Bibbia Moutier- Grandval, secolo XI. Londra, British Library.
"Gesù ordinò
ai Dodici:
non andate
tra i pagani
e non entrate
nelle città
dei Samaritani.
Rivolgetevi alle
pecore perdute
della casa
d'Israele."
(Matteo 10,5-6)
Ordine paradossale questo che Cristo, nel
secondo dei cinque discorsi che costellano
il Vangelo di Matteo (discorso detto
“missionario”) rivolge ai Dodici durante la loro
prima missione, paradossale perché è smentito
dall’incarico finale dello stesso testo evangelico
quando il Risorto li esorterà così: «Andate e fate
discepoli tutti i popoli» (28,19). Paradossale anche
perché l’apostolo Paolo senza esitazione
infrangerà il cerchio chiuso della «casa
d’Israele» – una formula biblica per designare
il popolo ebraico – e si rivolgerà proprio
ai pagani e ripeterà che in Cristo «non c’è distinzione
tra Giudeo e Greco, essendo lui lo
stesso Signore di tutti» (Romani 10,12), «in lui
Giudeo e Greco… barbaro o Scita sono uno in
Cristo Gesù» (vedi Galati 3,28 e Colossesi 3,11).
Eppure, questa restrizione è applicata da
Gesù a sé stesso: «Non sono stato mandato se
non alle pecore perdute della casa d’Israele»
(Matteo 15,24), e alla donna samaritana al
pozzo di Giacobbe dichiara che «la salvezza
viene dai Giudei» (Giovanni 4,22). Anche san
Paolo sapeva che «Cristo è diventato servitore
dei circoncisi per mostrare la fedeltà di
Dio nel compiere le promesse dei padri» (Romani
15,8). Ecco, questa precisazione paolina
è rilevante per sciogliere il paradosso presente
nei testi che circoscrivono la missione
di Gesù e dei Dodici a Israele.
Alla base c’è, infatti, una categoria fondamentale
nella storia della salvezza, “l’elezione”.
Per entrare in dialogo con l’umanità
Dio sceglie un popolo come suo ambasciatore;
deve, quindi, dargli un’investitura ufficiale
che è appunto l’elezione. Essa passa inizialmente
attraverso la promessa fatta ai patriarchi,
a partire da Abramo; procede poi con
Mosè e l’evento dell’esodo e del Sinai: «Voi sarete
per me un regno di sacerdoti e una nazione
santa» (Esodo 19,6). Infine, sarà Davide e la
sua discendenza a condurre verso il futuro
messianico la storia salvifica. In sintesi: «Al Signore
tuo Dio appartengono i cieli, i cieli dei
cieli, la terra e quanto essa contiene. Ma il Signore
predilesse i tuoi padri, li amò e, dopo di loro, ha scelto fra tutti i popoli la loro discendenza,
cioè voi» (Deuteronomio 10,14-15).
Ora, l’elezione non è un privilegio o una carica
onorifica o l’attestazione di una superiorità
etnica o socio-culturale (sappiamo quanto pericolosa
sia l’etichetta di “popoli eletti”), tant’è
vero che Mosè dichiara: «Il Signore si è legato a
voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi
di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo
di tutti i popoli –, ma perché il Signore vi
ama» (Deuteronomio 7,7-8). L’elezione è, dunque,
un atto d’amore, è grazia ed è una missione.
Israele dev’essere un annunciatore
di Dio e della sua volontà di salvezza ai popoli
della terra, un sacerdote fra le tribù del
mondo, così come il sacerdote lo era all’interno
delle sue tribù (è il «regno di sacerdoti» che
sopra si è evocato).
In questa luce, Cristo è ancorato all’elezione
di Israele, e la sua missione parte proprio
da quel popolo, che è anche il suo, per allargare
poi l’orizzonte a tutte le nazioni della terra.
A questa traiettoria di apertura – che è quella
della storia della salvezza – già l’Antico Testamento
si era allineato con i vari passi universalistici
che contiene (si leggano, per esempio, i
libri di Giona e di Rut, Isaia 2,1-5; 19,24-25 e
56,6-7, Sofonia 3,9 e così via). Successivamente
si inserirà la Chiesa, a partire dagli stessi
apostoli, con la sua missione universale che
ha in Paolo un vessillo simbolico.
Pubblicato il 15 marzo 2012 - Commenti (2)