Entrata di Cristo in Gerusalemme, affresco, 1303-1304, di Giotto. Padova, cappella degli Scrovegni.
"Mentre stavano
compiendosi i giorni
in cui sarebbe stato
elevato in alto,
egli rese
duro il suo volto
incamminandosi verso
Gerusalemme."
(Luca 9,51)
Frase contorta e oscura, questa di
Luca, che noi abbiamo parzialmente
lasciata nel tenore greco originario.
Innanzitutto ricordiamo che qui
– stando alla struttura del terzo Vangelo
– inizia la lunga marcia che condurrà
Gesù alla città del suo destino terreno
finale e che occuperà quasi dieci capitoli
del racconto di Luca (da 9,51 a 19,28).
Viaggio, certo, geografico-spaziale, ma
anche simbolico-spirituale. L’evangelista
definisce fin dall’inizio la meta e la
esprime con una sola parola greca, análempsis,
da noi tradotta in modo esplicativo,
“essere elevato in alto”.
L’antica versione latina, la Vulgata di
san Girolamo, aveva semplicemente e
letteralmente dies assumptionis, cioè “i
giorni dell’assunzione/ascensione” del
Risorto, evento che Luca descrive sia in
finale al suo Vangelo (24,50-53), sia in
apertura alla sua seconda opera, gli Atti
degli Apostoli (1,6-11). Effettivamente
l’ascensione al cielo è un modo per rappresentare
la gloria della risurrezione;
l’umanità di Cristo ha avuto il suo svelamento
supremo nella morte e sepoltura;
la sua divinità si mostra nuovamente
nel suo splendore con l’“assunzione”
al cielo che è il segno dell’infinito
e dell’eterno di Dio.
L’evangelista Giovanni vede, però,
questa epifania divina del Figlio compiuta
già mentre egli è sulla croce: «Quando
sarò innalzato da terra, attirerò tutti a
me» (12,32; si leggano anche questi altri
passi giovannei: 3,16 e 8,28).
Perciò, possiamo
dire che la meta ultima dell’itinerario
di Gesù a Gerusalemme è sia il
Calvario, cioè la morte e risurrezione,
sia il monte degli Ulivi o dell’ascensione.
Per raggiungere questo punto terminale
decisivo nel quale si riveleranno in
pienezza l’umanità di Cristo e la sua divinità,
è necessaria da parte di Gesù una
scelta forte e radicale.
Essa è formulata nell’originale greco
di Luca con un’espressione curiosa: Gesù
«fece una faccia dura».
La locuzione, che è
un po’ simile alla nostra quando parliamo
di una “decisione ferrea”, riflette in
realtà il linguaggio profetico, in particolare
quello di Ezechiele che a più riprese
usa l’immagine del «fissare la faccia verso
Gerusalemme» (21,7), mentre il Signore
gli dichiara: «Ecco, io ti do una faccia indurita
quanto la loro faccia» (3,8).
Siamo, quindi, di fronte a una svolta
nella vita di Cristo: egli, sulla base della
profezia che è quasi la lampada che illumina
la sua missione, si avvia al compimento
della volontà del Padre con una
scelta determinata e cosciente.
Egli
non è vittima rassegnata di eventi esteriori
che lo superano e lo condizionano. Gesù
sa che, all’interno dei giochi di potere
che compongono la storia, si dipana un
progetto superiore del quale egli è protagonista.
Ed è Gerusalemme la città del
“compimento” di questo disegno di morte
e di vita, di sofferenza e di gloria, di male
e di redenzione, che egli accoglie e attua
con determinazione e fermezza.
Pubblicato il 04 febbraio 2013 - Commenti (0)