Refezione nel chiostro, opera di Ferdinand G. Waldmüller, 1858 (part.), olio su tavola.
"Se offrirai all'affamato il pane, se sazierai chi è digiuno, allora la tua luce brillerà tra le tenebre, la tua tenebra diverrà meriggio"
(Isaia 58,10)
«Questo è il digiuno che io voglio:
sciogliere le catene inique, togliere
i legami del giogo, rimandare
liberi gli oppressi, spezzare ogni giogo..., dividere
il pane con l’affamato, ospitare in casa i
miserabili che sono senza tetto, vestire chi vedi
nudo, non distogliere gli occhi da quelli
della tua carne». È, questo, il cuore di un ampio
brano del libro di Isaia (58,1-12) dedicato
appunto al vero digiuno. L’astinenza dal cibo
per finalità rituale e spirituale è un’antica
prassi comune a tante religioni, compresa
la cristiana e la musulmana. Anzi, come è
noto, per l’islam il digiuno durante il mese di
Ramadan è una delle cosiddette “cinque colonne”
fondanti la stessa fede.
L’anima profonda di questo gesto, che lo
rende molto diverso da una dieta salutista, è
ben illustrato dai versetti che abbiamo citato
in apertura (vv. 5-7) e dalmotto che abbiamo
assunto per questa nostra riflessione sempre
dal capitolo 58 di Isaia: si rinuncia al cibo per
offrirlo all’affamato. Detto in altri termini, la
privazione non è fine a sé stessa, ma diventa
un segno di carità fraterna. Per questo, il digiuno
materiale è un simbolo di una serie di
atti di donazione, anche spirituale e sociale,
da compiere: liberare dalle oppressioni, scegliere
di costruire una società più giusta fondata
non sull’interesse personale ma sull’amore,
non ignorare le mani dei miseri che
si tendono verso di noi, ricordandoci che anch’essi
sono nostra “carne”, cioè creature
umane come noi.
Ora, però, vorremmo suggerire un’analisi
più accurata del frammento che abbiamo
proposto secondo la traduzione solitamente
usata dalle varie Bibbie. In realtà, nell’originale
ebraico c’è un suggestivo gioco di parole
che è costruito attorno a un unico vocabolo,
nefesh, che contemporaneamente significa
“anima, vita”, e “gola, desiderio, appetito”.
Ecco come suona il testo originario: «Se
offrirai all’affamato il tuo nefesh, se sazierai
il nefesh della persona oppressa…». Come si
vede, s’incontrano tra loro due “anime”, due
“vite”, quella di chi dona e quella del povero.
È ciò che deve innanzitutto compiersi nella
vera solidarietà fraterna: è necessario instaurare
un legame personale, dobbiamo sentire
– come diceva prima il profeta – che siamo
della “stessa carne”.
La vera carità «non si vanta, non è altezzosa,
non manca di rispetto» (1Corinzi 13,4-5), non è
un gesto compiuto dall’alto con la sottile soddisfazione
di essere generosi nei confronti di un
essere inferioremiserabile. È, invece, un essere
spalla a spalla, è l’incontro di due “anime”
che si abbracciano e si sostengono. Ma
possiamo aggiungere un’altra notazione. Nefesh,
dicevamo, è anche “gola, desiderio, appetito”.
Ecco, nell’amore fraterno il mio respiro,
la mia gola si mette in sintonia con quella del
prossimo che soffre. Se ho fame, prima di gettarmi
sul cibo e rimpinzarmi fino all’eccesso,
devo sentire idealmente in me anche l’anelito
dell’affamato e, così, evitare l’atto sprezzante
del ricco gaudente che lascia solo le briciole al
Lazzaro di turno, per stare alla celebre parabola
di Gesù (Luca 16,19-31).
Solo così, nell’incontro tra le due “anime”
e le due “gole” che si muovono all’unisono,
diverremo luminosi, ossia partecipi dello
splendore del Dio che è «luce» e che è «amore»
(1Giovanni 1,5; 4,8.16). Ci ammonisce san Giacomo:
«Se un fratello o una sorella sono senza
vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano, e uno
di voi dice loro: Andatevene in pace, riscaldatevi
e saziatevi! senza dare loro il necessario
per il corpo, che giova?» (2,15-16).
Pubblicato il 31 marzo 2011 - Commenti (0)