"Parabola dei vignaioli", dal Vangelo dello zar Ivan Alexander (1355-1356). Londra, British Library.
«Questi ultimi hanno
lavorato una sola ora,
eppure li hai trattati
come noi, che abbiamo
sopportato il peso della
giornata e il caldo!».
(Matteo 20,12)
La parabola evoca, come accade
spesso alla predicazione di Gesù,
la concretezza di una situazione sociale
amaramente costante nella storia
dell’umanità. La parola di Cristo non è
né eterea né aerea, bensì è piantata
saldamente nel terreno delle vicende
umane. Di scena è ora la disoccupazione
e il precariato. Come è noto, nella
piazza del mercato, quella principale
della città, stazionavano i braccianti, in
attesa che un proprietario terriero o un
mediatore (l’infame prassi del “caporalato”
dei nostri tempi ne è la continuazione)
li prendesse a giornata.
Sappiamo lo sviluppo della parabola,
narrata dal solo Matteo (20,1-16) e scandita
sulla suddivisione della giornata secondo
l’“orologio” di allora. Si parte
con l’alba che è l’ultima parte della notte
e la prima del giorno, si procede con
la “terza ora”, cioè le nove, si passa alla
“sesta” (mezzogiorno) e alla “nona” (le
tre pomeridiane) e si giunge all’“undicesima
ora”, in pratica le cinque del pomeriggio,
alle soglie della sera e della notte.
Il compenso pattuito è di un denaro
d’argento, l’unità monetaria romana
che rappresentava il salario giornaliero
di un operaio e la spesa media di una
giornata, come si dice nella parabola
del buon Samaritano (Luca 10,35). Il denarius
recava l’effigie dell’imperatore:
si spiega così la scena del tributo a Cesare
narrata nei Vangeli (Matteo 22,19).
Strettamente parlando, quel padrone
che pattuisce con tutti un denaro di
paga, riservandolo anche a chi ha lavorato
una sola ora pomeridiana, agisce,
da un lato, correttamente sulla base del
contratto “separato” stipulato con ciascuno,
ma d’altro lato non è certo un
modello di giustizia nelle relazioni industriali.
Qual è, allora, il senso della
parabola, fermo restando che il suo
messaggio non può essere orientato
all’ingiustizia sociale? La lezione è di indole
religiosa ed esistenziale. Il padrone
della vigna lascia il passo a Dio, il
quale non lede di per sé la giustizia (il
contratto era in sé giusto), ma nei suoi
rapporti con l’umanità introduce la superiorità
dell’amore la cui generosità
va oltre la rigida norma del dovuto.
L’umanità è, infatti, costituita da persone
tutte diverse per qualità e doni ricevuti:
si va da chi ha cinque talenti a colui
che ne ha uno solo, per usare ancora
un’immagine monetaria di un’altra nota
parabola di Gesù. C’è la persona semplice
che ha poche capacità e chi, invece,
eccelle per doti straordinarie; c’è chi
è malato e fragile e chi è una quercia di
salute e di forza; c’è chi ha una modesta
dotazione intellettuale e chi è un genio;
c’è la persona debole, destinata a cadere
in errori e peccati, e c’è il giusto capace
di resistere con fermezza alle tentazioni;
c’è chi appartiene a una nazione
evoluta e privilegiata (Gesù poteva pensare
agli Ebrei, “i primi”) e c’è chi è nato
in un’area depressa e in un popolo misero
e di scarse disponibilità culturali e
sociali (i “pagani”, gli “ultimi”).
L’importante, dice Gesù, è che si entri
nel campo della vita col pieno impegno
personale. Dio, nella sua ricompensa finale,
non adotta il rigido criterio che si
fonda sui risultati, ma sceglie la via
dell’amore che premia anche chi avanza
reggendo tra le mani un piccolo frutto
del suo modesto ma reale lavoro. La vera
imparzialità è quella dell’amore che
mette sullo stesso livello chi ha ricevuto
molto e chi ha avuto poco dalla vita,
ma si è autenticamente consacrato alla
sua vocazione, anche se semplice.
Pubblicato il 16 luglio 2012 - Commenti (1)