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Euroafrica, la sofferenza di essere donna

Da sinistra: i premi Nobel 2011 per la Pace Leymah Gbowee, liberiana, e Tawakkol Karman, yemenita.
Da sinistra: i premi Nobel 2011 per la Pace Leymah Gbowee, liberiana, e Tawakkol Karman, yemenita.

Euroafrica, la voce delle donne è il titolo di un libro a cura da Marina Piccone, fortemente voluto dall’europarlamentare Silvia Costa. È stato presentato lo scorso 30 marzo a Roma, in Parlamento, luogo istituzionale di grande importanza e significato che richiama lo Stato e i suoi doveri di difendere e proteggere tutti i suoi cittadini, sia di nascita che di adozione. Il libro è stato dedicato in modo particolare alle tre donne Premio Nobel per la Pace, Ellen Johnson Sirleaf, Leymah Gbowee and Tawakkul Karman, ma vuole raccontare la vita e l’impegno di tante altre donne africane e italiane nel dialogo euro-africano.

Nel libro sono raccolte le storie di alcune donne africane immigrate in Italia e altre storie di donne italiane legate all’Africa. Insieme raccontano la bellezza e ricchezza del mondo africano femminile, ma anche la difficoltà di essere donna, africana e immigrata, a volte emarginata e anche svantaggiata, specialmente per quanto riguarda l’inserimento in una nuova realtà sociale e lavorativa. Grazie, però, alle loro capacità e tenacia queste donne hanno raggiunto traguardi molto importanti, non solo per loro e le loro famiglie, ma soprattutto per la nostra stessa società, dove sono inserite e sono pure un esempio e uno stimolo per altre donne africane e non solo.

Alcune di loro erano presenti e hanno dato la loro testimonianza di donne che hanno rischiato, lottato e sofferto per ottenere una posizione e offrire a loro volta un contributo valido e prezioso nel mondo dell’immigrazione e di interazione nel nostro Paese. Tra queste donne, che hanno saputo raggiungere una posizione di rilievo, favorendo un vero scambio di valori umani e culturali, erano presenti Suzanne Diku Mbiye e Muanji Pauline Kashale della Repubblica Democratica del Congo; Maria Josè Mendes Evora e Dulce Araujo, capoverdiane; Marguerite Lottin, camerunese.

Quando mi hanno chiesto di parlare della mia esperienza di donna e missionaria italiana che opera a contatto con tante donne immigrate, specialmente africane, non ho potuto fare a meno di parlare della sofferenza di tante giovani venute in Italia con il miraggio di un lavoro onesto per aiutare le loro famiglie e che purtroppo sono finite nelle mani di nuovi schiavisti che le hanno derubate di tutto, dei loro sogni, della loro giovinezza e persino della loro dignità. Molte sono poi finite in un Centro di identificazione ed espulsione (Cie) perché prive di documenti, dove vengono trattenute in condizioni disumane per 18 mesi e vengono espulse senza un minimo di rispetto per la loro dignità. In uno di questi centri, quello di Ponte Galeria di Roma - che visito ogni sabato dal 2003, insieme a un gruppo di religiose di diversi Paesi e congregazioni - scopro ogni volta la sofferenza, la delusione e la rabbia di tante giovani donne, che si trovano rinchiuse un ambiente di uno squallore indescrivibile, fatto solo di cemento e sbarre di ferro.

Queste donne esigono di essere trattate come esseri umani e non come “criminali” o “clandestine”. Molte di loro vivono momenti di profonda disperazione, specie quando sono consapevoli che presto verranno espulse e dovranno tornare a casa a mani vuote, con il rischio di venir rifiutate anche dalla famiglia. Aisha, per esempio, era una donna tunisina terrorizzata dall’idea di tornare a casa. Sapeva che nel suo Paese l’avrebbero di certo uccisa e spesso ripeteva che piuttosto avrebbe preferito togliersi lei stessa la vita. Quando le hanno comunicato che il giorno dopo sarebbe stata rimpatriata, a nulla sono valsi i consigli e l’occhio attento delle amiche, che hanno vegliato con lei per quasi tutta la notte: il mattino presto, il suo corpo privo di vita è stato ritrovato appeso alla doccia. Sconvolte e addolorate, non ci è rimasto che interrogarci su cosa avremmo potuto fare per prevenire questo dramma e salvare quella giovane vita.

All’inizio i migranti potevano essere trattenuti per trenta giorni; poi i giorni sono stati raddoppiati fino ad arrivare a sei mesi. Oggi una nuova normativa prevede di prolungare la loro permanenza in questi centri addirittura sino a diciotto mesi. Un anno e mezzo di detenzione. È un’ingiustizia! Una terribile violazione dei diritti umani e un’inutile sofferenza inflitta a degli innocenti. Mi sconcerta e mi indigna che, ancora una volta, siano loro a pagare il prezzo più alto di politiche ingiuste che confondono le vittime coi carnefici. Intanto trafficanti e clienti rimangono impuniti, se non addirittura protetti dalla stessa legge, semplicemente perché in possesso di un permesso di soggiorno, magari ottenuto tramite corruzione, o di documenti in regola.

Pubblicato il 02 aprile 2012 - Commenti (0)

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Autore del blog

Noi donne oggi

Suor Eugenia Bonetti

Missionaria della Consolata, è stata per 24 anni in Kenya. Al ritorno comincia a lavorare in un Centro d’ascolto e accoglienza della Caritas di Torino, con donne immigrate, molte delle quali nigeriane, vittime di tratta. Dal 2000 è responsabile dell’Ufficio tratta dell’Unione superiori maggiori italiane (Usmi). Coordina una rete di 250 suore di 70 diverse congregazioni, che operano in più di cento case di accoglienza. Il presidente Ciampi l’ha nominata nel 2004 Commendatore della Repubblica italiana.
Ha scritto con Anna Pozzi il libro "Schiave" (Edizioni San Paolo).

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