28 dic
Vorrei condividere questa lettera aperta di suor Rita Giaretta, con cui lavoriamo da molti anni, lottando contro il traffico di esseri umani e per la dignità delle donne. Specialmente di quelle che subiscono violenze, fisiche e psicologiche, che vengono sminuite e oltraggiate, abusate e ridotte in schiavitù.
Facciamo nostre la denuncia e l’indignazione di suor Rita, rinnovando il nostro impegno a lottare anche contro una mentalità violentemente maschilista, ancora troppo diffusa nella nostra società e purtroppo anche nella Chiesa.
In veste di responsabile di “Casa Rut” - Centro di accoglienza per donne vittime di tratta, di abusi e di violenze - sento il bisogno di esprimere tutta la mia indignazione di fronte al gesto “inquietante” e oserei dire “violento” compiuto dal parroco di San Terenzo (La Spezia), don Piero Corsi, con l’affissione in Chiesa del volantino in cui è riportato un editoriale del sito Pontifex dal titolo “Le donne e il femminicidio, facciano sana autocritica. Quante volte provocano!”.
Ancora si ricade in quella vecchia mentalità, che purtroppo a troppi maschi ancora piace e soddisfa, che vede nella donna o la moglie sottomessa o la prostituta o ancor peggio la tentatrice. Quanto siamo lontani, a livello culturale e comportamentale, dal riconoscere, rispettare e valorizzare appieno la dignità della donna, da parte del mondo maschile (compresi i sacerdoti).
Se si pensa a tutte le donne uccise in quest’anno per mano di mariti, compagni e fidanzati, c’è non solo da rabbrividire ma da riflettere seriamente. Mi piace qui riportare quanto detto in una nostra “lettera aperta” del 27 gennaio 2011 - che ha avuto risonanza nazionale, nella quale all’Erode di turno - incarnato dall’allora Primo Ministro e capo di Governo - come donne, come cittadine e come religiose, avevamo gridato il nostro «non ti è lecito».
Nella lettera dicevo: «Ma davanti a questo spettacolo una domanda mi rode dentro: dove sono gli uomini, dove sono i maschi? Poche sono le loro voci, anche dei credenti, che si alzano chiare e forti. Nei loro silenzi c’è ancora troppa omertà, nascosta compiacenza e forse sottile invidia. Credo che dentro questo mondo maschile, dove le relazioni e i rapporti sono spesso esercitati nel segno del potere, c’è un grande bisogno di liberazione».
Parole, queste, che sento oggi con forza di rinnovare e di rivolgere non solo a don Piero Corsi, ma a tutto il mondo maschile, e soprattutto alla mia Chiesa, che purtroppo dal punto di vista istituzionale è ancora fortemente maschilista. Di fronte a questa realtà ecclesiale molte altre domande mi rodono dentro: che genere di formazione hanno avuto e soprattutto hanno oggi i sacerdoti? Vengono educati, formati e sostenuti a vivere relazioni positive, autentiche e libere con il genere femminile? O ancora oggi i seminari sono prevalentemente luoghi chiusi, riservati ai soli maschi - docenti e animatori - mentre le figure femminili presenti sono unicamente di contorno, con servizi generici: cucina, lavanderia, pulizie? Quale idea di donna può elaborare e coltivare un futuro sacerdote che è formato a vivere e a sentire il ruolo sacerdotale come un “privilegio sacro” riservato unicamente al genere maschile?
Mi auguro che la mia chiesa, di cui mi sento parte viva, possa sempre più aprirsi alla luce di Cristo per vivere in novità di vita il Vangelo nel quale, come afferma San Paolo nella lettera ai Galati, «non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, perché tutti siete uno in Cristo», che significa tutti uguali in dignità.
E allora, di fronte a questi inquietanti e profondi interrogativi, non basta far rimuovere un volantino, ma bisogna impegnarci tutti, a partire dalla Chiesa, nelle sue istituzioni, a rimuovere una mentalità che ancora discrimina e uccide la donna. Anche oggi risuona il grande annuncio di vita e di speranza consegnato da Gesù alle donne: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato. Ed esse, tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri» (Lc 24,5-6).
Suor Rita Giaretta – Casa Rut, Caserta
Pubblicato il 28 dicembre 2012 - Commenti (8)
19 dic
La figura di Giovanni Battista, che abbiamo incontrato la scorsa domenica in preparazione al Natale, mi ha offerto molti spunti di riflessione e confronto. Il Battista, uomo austero ma veritiero, non si presta a compromessi, specialmente con il potere, anche quando la verità detta senza sconti al potente di turno verrà pagata con la sua stessa vita.
Di fronte alle folle, che andavano da lui per farsi battezzare nel fiume Giordano e lo interrogavano su che cosa dovevano fare per prepararsi all’attesa del Messia, rispondeva con toni forti e chiari: «Convertitevi». Una folla composta di gente semplice lo seguiva affascinata dalla testimonianza della sua vita e dalla sua predicazione. Molti chiedevano che cosa avrebbero dovuto fare per convertirsi. Lui rispondeva semplicemente di condividere il poco che avevano, vestiario e cibo, con chi ne era privo, mettendo in risalto l’importanza della condivisione e della solidarietà.
Agli esattori delle tasse, i cosiddetti i pubblicani, diceva invece di non esigere più di ciò che era stato fissato dalla legge, mentre ai soldati intimava di non maltrattare e di non estorcere niente a nessuno, accontentandosi delle loro paghe.
Risposte assai eloquenti e quanto mai attuali, anche in questo difficile momento sociale e politico che sta attraversando il nostro Paese. La cronaca di questi ultimi mesi è infarcita di notizie riguardanti la corruzione e l’appropriazione illecita di beni comuni da parte di pubblici funzionari, scelti per essere i garanti della giustizia e del bene comune.
Ancora una volta la Parola di Dio, sempre attuale in ogni tempo, interpella ciascuno di noi e ci invita a rivedere le nostre posizioni, i nostri doveri, i nostri impegni assunti come cittadini prima ancora che come cristiani o seguaci di altri credi o religioni. Questa è la buona novella che ancora oggi più che mai abbiamo bisogno di ascoltare e ricordare, ma soprattutto vivere nei nostri rapporti quotidiani. Lasciamoci interpellare da questa Parola, che ci aiuterà a ritrovare la via della giustizia e dell’onestà, che porterà equilibrio e saggezza nella nostra vita quotidiana e ancor più nel nostro operare all’interno della società e a servizio degli altri.
A Natale non basta offrire briciole di elemosina per tranquillizzare la nostra coscienza, o ripetere che dobbiamo essere tutti più buoni e solidali. Dobbiamo invece avere il coraggio di restituire ciò che abbiamo sottratto e sperperato vergognosamente ai banchetti del “ricco epulone”, mentre tanti poveri “Lazzari” sostano alle nostre porte, chiedendo aiuto e protezione, solidarietà e giustizia.
In questi giorni di attesa del grande evento del Natale dobbiamo chiederci che cosa fare per prepararci ad accogliere il Messia. Scopriremo che tutti siamo chiamati a condividere con tanti fratelli e sorelle meno fortunati il senso vero e la gioia del Natale, che non è fatto solo di regali, cenoni o viaggi. Il Natale è innanzitutto un’occasione per rivedere la nostra vita e le nostre relazioni, doveri e responsabilità. Ogni anno il Natale viene a ricordare alla nostra umanità smarrita e confusa che ciascuno di noi deve avere il coraggio di mettersi in questione.
Quest’anno penso soprattutto ai giovani e a tutte le persone sfiduciate, stanche e senza prospettive di un futuro degno di essere vissuto con dignità. Rivedo in loro, con sgomento e compassione, lo smarrimento e la confusione, e soprattutto la mancanza di speranza. E condivido la delusione nei confronti di tutti coloro che ancora oggi detengono il potere, abusando del loro ruolo e della nostra fiducia, dimenticando che questo potere non è stato dato loro per il perseguimento di interessi personali, ma per provvedere al vero bene comune, con particolare attenzione per i più deboli e indifesi.
Di fronte allo squallido scenario dei nuovi pubblicani di oggi, Giovanni Battista alzerebbe di nuovo la sua voce forte per denunciare e condannare: «Non ti è lecito!». Sì, non ti è lecito impadronirti delle risorse pubbliche, per soddisfare la tua sete di potere e di guadagno. Non ti è lecito tradire la fiducia ricevuta dai cittadini per impadronirti del loro risparmi e del loro lavoro. Non ti è lecito sciupare le risorse destinate ai più poveri per arricchirti in modo indebito e scandaloso.
Si parla tanto di crisi economica, ma dovremmo avere il coraggio di parlare anche di grave crisi di valori, di povertà culturale, di mancanza di senso della comunità, dell’uguaglianza, dell’onestà, del dovere, del rispetto e della parola data.
La vita quotidiana è fatta di impegno e di fatica, di onestà sul lavoro e di attenzione all’altro, di rispetto dell’ambiente e di ciò che è di uso pubblico.
Quale esempio stiamo dando ai nostri giovani? Che futuro stiamo preparando per loro? Che testimonianza e che modelli stiamo offrendo nel nostro vivere quotidiano?
In quest’epoca buia, si intravvedono tuttavia anche delle speranze. Sono le molte esperienze di chi continua a offrire testardamente la propria testimonianza di vita, fondandola non sul guadagno o sul prestigio, bensì sull’amore vero, nutrendosi di valori veri e autentici, senza chiedere nulla in cambio. Ci sono ancora moltissime persone che non hanno bisogno di auto blu e scorte per proteggersi, ma che sanno rischiare e donare gratuitamente la loro vita con e per i poveri, pagando di persona. Tra questi ci sono le migliaia di volontari, religiosi e religiose, che in modi diversi operano in quel mondo sempre più vasto che ci sta accanto di persone deboli e vulnerabili.
Possa il Natale offrire ancora motivi di speranza e consolazione a tutti coloro che hanno smarrito la stella che voleva guidarci verso l’incontro con un Bambino nella grotta di Betlemme. E che gli angeli possano ancora cantare: «Pace agli uomini di buona volontà». Allora il Natale avrà ancora un significato vero per tutti noi.
Pubblicato il 19 dicembre 2012 - Commenti (0)
06 dic
In questi giorni si è nuovamente parlato di abolizione della schiavitù: un tema che sembra apparentemente anacronistico, soprattutto perché molti continuano ad associare a questo termine esclusivamente la tratta degli schiavi africani verso le Americhe.
Purtroppo, però, nuove forme di schiavitù sono ancora ben presenti nel mondo, nonostante l’approvazione, il 2 dicembre 1949, da parte dell’Assemblea generale Onu, della Convenzione sulla soppressione del traffico di persone e lo sfruttamento della prostituzione altrui.
La schiavitù tuttavia è un fenomeno che non appartiene al passato, perché sotto forme diverse, spesso circondate da opportunismo e indifferenza, dilaga e prospera ancora oggi, sia nei Paesi in via di sviluppo, sia nelle nazioni che si definiscono democratiche e magari hanno sottoscritto la stessa Convenzione del 1949.
Ancora oggi, nel 2012, la compravendita di esseri umani rappresenta business enorme gestito da mafie internazionali e transnazionali che riforniscono il mercato di braccia e corpi per il lavoro nero, l’accattonaggio, la prostituzione, le adozioni illegali, la porno-pedofilia e il trapianto illegale di organi.
L’abolizione della tratta transatlantica degli schiavi nel XIX secolo non ha sradicato la pratica dello schiavismo a livello mondiale. Al contrario, questa pratica ha assunto altre forme, che persistono tuttora: la proprietà di esseri umani, la sottomissione tramite il meccanismo della restituzione del debito, il lavoro forzato, la tratta di donne e minori, la schiavitù domestica e la prostituzione forzata, inclusa quella minorile; ma anche la schiavitù sessuale, i matrimoni forzati e la vendita delle mogli; il lavoro e la servitù minorile.
Tutte forme di schiavitù che tengono incatenate tante persone con i loro problemi e le loro difficoltà come pure tante famiglie e intere popolazioni, schiavizzate e soggiogate dai molti che speculano sulle loro situazioni di povertà.
È importante quindi affrontare il fenomeno nella sua complessità e non illudersi di sradicare la schiavitù, combattendola solo nei luoghi ormai noti dove si predano esseri umani semplicemente perché non hanno alternative.
Questo richiede una presa di coscienza collettiva, solidale, globale e responsabile, che coinvolga istituzioni ed enti affinché si arrivi a spezzare tutti gli anelli della terribile catena di tutte le forme di schiavitù e dipendenza.
Queste nuove forme di schiavitù allontanano sempre più il Nord dal Sud del mondo, i Paesi ricchi da quelli impoveriti dai nostri stessi sistemi di vita e di sfruttamento, nonché le stesse classi sociali all’interno anche dei nostri Paesi, dove si allarga la forbice tra chi è sempre più ricco e avido di guadagno ad ogni costo e di chi non sa come vivere.
Nel preambolo della Convenzione sulla soppressione del traffico di persone e lo sfruttamento della prostituzione altrui del 1949, si mette in particolar modo in evidenza il fatto che «la prostituzione e il male che l’accompagna, vale a dire la tratta degli esseri umani ai fini della prostituzione, sono incompatibili con la dignità ed il valore della persona umana e mettono in pericolo il benessere dell'individuo, della famiglia e della comunità».
Purtroppo non basta una Convenzione, sia pure molto importante, per abolire la schiavitù e tutte le sofferenze e i mali a essa collegati, se non c’è la convinzione che ogni persona ha diritto alla propria dignità e possibilità di scelta e di decisione della propria vita e del proprio futuro e non può essere mercanteggiata come una qualsiasi merce e tantomeno privata del necessario per vivere.
Doris, una nigeriana sedicenne, che avevo incontrato all’inizio del mio servizio alla Caritas di Torino, mi raccontò come riuscì a fuggire dal luogo dove era tenuta prigioniera e, aiutata dalla Polizia, portata in una delle nostre case di accoglienza. Doris raccontò di uomini e donne nigeriane che si riunivano per selezionare le giovani immigrate clandestine appena giunte in Italia per avviarle alla prostituzione.
Le giovani donne dovevano mostrarsi su un tavolo completamente nude. Qui venivano selezionate e vendute all’asta; il costo variava dai 20 ai 50 milioni di lire ognuna, secondo l’età, la bellezza, il livello di educazione e la prestanza fisica. Dopo la vendita, le ragazze venivano portate via dai nuovi proprietari e tenute imprigionate in una casa, sotto la sorveglianza delle madam, che le controllavano e prelevavano tutti i proventi della strada per saldare il loro debito.
Nel primo libro scritto con Anna Pozzi (ed. San Paolo 2010), intitolato significativamente “Schiave”, abbiamo voluto raccogliere molte di queste storie e molti spunti di riflessione per far capire che cosa vuol dire la schiavitù moderna. I molti racconti di tante giovani vittime ci ricordano che la schiavitù è purtroppo ancora presente in mezzo a noi. E dunque siamo tutto chiamati a mobilitarci insieme, lavorando in rete affinché, con il contributo di tutti, si possano spezzare gli anelli di questa catena.
Pubblicato il 06 dicembre 2012 - Commenti (0)
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