25
feb

Incastrati nei cliché

Giornalisti all'attacco.
Giornalisti all'attacco.

Da quando ho partecipato alla manifestazione per la dignità della donna lo scorso 13 febbraio, non so più quante decine di richieste di interviste, analisi, commenti ho ricevuto. Televisioni, radio, riviste, quotidiani… Ho perso i conti! Capisco l’importanza della comunicazione. In questi anni, noi stesse, come ufficio “Tratta donne e minori” delle religiose italiane, abbiamo cercato di collaborare il più possibile con i media per far passare dei messaggi corretti, formando e informando sulle terribili conseguenze di questa nuova forma di sfruttamento che sta distruggendo non solo la vita di tante giovani immigrate, ma anche del nostro stesso tessuto sociale, specie la famiglia che ha perso il valore della fedeltà, del rispetto e della relazione interpersonale basato sull’amore conquistato e non mercanteggiato.

     Come donne e religiose, che ogni giorno vivono a fianco di tante donne ferite e umiliate, abbiamo cercato di far conoscere questo mondo della notte e della strada per dire che siamo tutti responsabili di questo disagio sociale e che solo lavorando insieme, ciascuno con le proprie competenze e responsabilità, questa schiavitù del XXI secolo può e deve essere debellata. Anche per questa ragione ho accettato questa nuova sfida di tenere un blog sul sito di Famiglia Cristiana. Un impegno che si aggiunge a molti altri - e dunque non senza fatica - ma che va in questa logica di comunicare per il bene (il bene della conoscenza) e per fare del bene (il bene dell’azione, dell’impegno per una causa giusta).

     Solo che a volte ho l’impressione che lo scopo dei media non sia né il bene né tanto meno la verità. Me ne sono resa conto personalmente in questi giorni in cui sono stata assalita da intervistatori di  tutti i tipi. A volte, avevo l’impressione che il giornalista non solo volesse pormi una domanda, ma avesse già in mente la risposta. Insistendo e provocando per farmi dire quello che aveva in mente lui o lei. Per “incastrarmi” dentro alcuni cliché ai quali potevo essere funzionale. O per portare il mio intervento su un piano più politico.

     Sapevo perfettamente che esponendomi alla manifestazione di domenica 13 avrei rischiato possibili strumentalizzazioni, in un momento così delicato per l'Italia. Ne abbiamo discusso a lungo anche all’interno delle nostre istituzioni di religiose per meglio capire e vagliare l’opportunità di questo intervento in piazza e cogliere questa nuova sfida. Questa scelta delicata e coraggiosa è stata poi sostenuta e accompagnata anche dalla preghiera di 60 monasteri di clausura, ai quali avevamo affidato questo intervento in pubblico a favore della dignità della donna.

     Ma come è possibile che i giornalisti non riescano a capire che non tutto può essere usato per fare polemica oppure buttato in politica? Non esistono forse altri valori, altre buone notizie da far conoscere, che stimolano al bene e formano all’emulazione positiva? Perché si usa così tanto spazio, tempo ed energie per far emergere solo tanta cronaca nera oppure lotte di parte che niente hanno a che fare con il vero bene e interesse dei cittadini? Di che cosa si nutrono e come si educano i nostri telespettatori?

Altra riflessione e domanda cruciale è quella relativa all’immagine della donna nel mondo dello spettacolo, della pubblicità, degli slogan. Ma perché noi donne non ci indigniamo di fronte a tanto scempio ma accettiamo tutto per scontato, contribuendo ad una cultura del piacere, dell’avere, dell’apparire, invece di scoprire l’armonia e la ricchezza interiore di ogni persona?

     Noi religiose, impegnate a contrastare il traffico di esseri umani per lo sfruttamento sessuale, chiediamo a voi giornalisti di aiutarci a far emergere non solo la cultura della bellezza e dell’uso del corpo, bensì la cultura del rispetto reciproco, basato sulla complementarietà e non sul possesso.

 

Pubblicato il 25 febbraio 2011 - Commenti (2)
19
feb

Dare voce a chi non ce l'ha

Suor Eugenia con una ragazza nigeriana.
Suor Eugenia con una ragazza nigeriana.

Mi scrive una signora, all’indomani della manifestazione del 13 febbraio a Roma: «Ho ascoltato il suo intervento a favore delle donne, in piazza del Popolo. Mi ha colpito molto! Non credevo che una suora potesse avere tanto coraggio e coerenza; indubbiamente il suo intervento ha fatto cambiare opinione a molti. A me personalmente di sicuro: miscredente, ex comunista, senza più fede politica, mai creduto in quella religiosa; tuttavia, oggi  il suo coraggio mi ha fatto nascere il desiderio di saperne di più. […] Ma lo sa che con il suo intervento ha aperto gli occhi, il cervello e il cuore a tanti di noi? Mi creda, ha seminato il bene meglio di tanti inascoltati, ripetitivi e pomposi sermoni cardinalizi. […] Lei ha parlato a migliaia di persone, di sinistra, politicizzate e sicuramente non di chiesa come mai nessun aveva fatto in passato».

     Sono moltissime le reazioni come questa, di persone lontane dalla Chiesa, che mi comunicano la loro vicinanza e la loro condivisione di quanto ho detto domenica scorsa. Così come sono moltissime le reazioni di amici, conoscenti, suore e tanti sconosciuti più vicini alla Chiesa. Gli uni e gli altri mi confermano che il senso della mia presenza e del mio intervento è stato capito, nonostante alcune critiche.

     Io, come tante altre religiose, cerco di attingere la genuinità della mia parola non dai teoremi astratti, ma dal vivere quotidianamente un impegno, a contatto con donne ferite, abusate e sminuite nella loro umanità. Noi religiose, che lavoriamo nel difficile e delicato settore della tratta di esseri umani per lo sfruttamento sessuale, non abbiamo mai voluto salire in cattedra per dare lezioni o fare proclami. Né tantomeno per fare politica o anche solo del semplice moralismo. Ma sempre, ovunque ce lo abbiano permesso, abbiamo cercato di far sentire la nostra voce, per denunciare questo vergognoso traffico e le condizioni di sfruttamento che rendono schiave migliaia di donne nel nostro Paese. E per dire che qualcosa si può e si deve fare per combatterlo e per dare una speranza di vita nuova alle vittime.

     L’occasione che mi è stata offerta domenica mi ha permesso di portare nuovamente la mia testimonianza, anche se in un contesto forse inconsueto. Ma il mio atteggiamento è stato quello di sempre: ovvero quello di chi si fa, con umiltà ma anche con determinazione, voce di chi non ce l’ha, cercando di rompere almeno un poco il muro dell’indifferenza.

Pubblicato il 19 febbraio 2011 - Commenti (2)
18
feb

Io, Suora, in piazza, il 13 febbraio 2011

Dopo il mio intervento in Piazza del Popolo, domenica scorsa, molte persone si sono domandate e me lo hanno anche scritto, perché io, suora e missionaria, sono scesa in piazza di fronte a migliaia di persone per condividere una riflessione sulla dignità della donna. La mia risposta è stata per tutti la stessa: offrire un segno concreto di vicinanza alla donna, in modo dignitoso e direi davvero profetico, per dare voce a diverse centinaia di religiose che ogni giorno operano silenziosamente e gratuitamente con amore, coraggio e determinazione per ridare vita e speranza a tante donne comprate, vendute e sfruttate. Donne la cui dignità e identità è stata violentata e umiliata.
Donne che mai avrebbero potuto far sentire la loro voce, perché ridotte in schiavitù e quindi senza volto, senza nome, senza diritti e libertà. Ero lì per dire “basta” alla mercificazione del corpo della donna e a questa enorme ipocrisia di chi non vede o non vuol vedere.

Molti - e specialmente i media - continuano a chiedermi come mi sono sentita in quella enorme piazza e come ho vissuta questa esperienza, una prima assoluta per una religiosa in un contesto eminentemente laico. Di fronte a quella folla di donne di diverse posizioni ed estrazione sociale, mi sono sentita una formichina che il Signore voleva usare per farne la voce del vasto mondo delle religiose, che in Italia sono ancora più di ottantamila, e per chiedere a tutti rispetto e dignità per la donna. Ero ben cosciente che potevamo correre il rischio di essere strumentalizzate, mal interpretate e anche condannate da chi non vuole cogliere il messaggio semplice, schietto e genuino che vogliamo condividere. Infatti, non sono mancate alcune critiche da parte di chi ritiene inopportuno vedere delle suore in mezzo alla folla, preoccupati di non mischiare il “sacro con il profano”, e dimenticando che laddove si tratta della dignità della persona umana, creata a immagine di Dio, c’è solo il “sacro”. Il profano esiste solo quando noi profaniamo e deturpiamo questa stessa immagine per interessi e opportunismo. Ho ricevuto pure tanti messaggi di apprezzamento e incoraggiamento, oltre che di stupore per il coraggio e la determinazione nel far emergere una riflessione sul valore e la bellezza vera della donna, portatrice di valori veri, autentici e umani: armonia, vita, amore e speranza per una convivenza basata sul rispetto reciproco e sul riconoscimento di ruoli diversi ma complementari.

Pubblicato il 18 febbraio 2011 - Commenti (9)

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Autore del blog

Noi donne oggi

Suor Eugenia Bonetti

Missionaria della Consolata, è stata per 24 anni in Kenya. Al ritorno comincia a lavorare in un Centro d’ascolto e accoglienza della Caritas di Torino, con donne immigrate, molte delle quali nigeriane, vittime di tratta. Dal 2000 è responsabile dell’Ufficio tratta dell’Unione superiori maggiori italiane (Usmi). Coordina una rete di 250 suore di 70 diverse congregazioni, che operano in più di cento case di accoglienza. Il presidente Ciampi l’ha nominata nel 2004 Commendatore della Repubblica italiana.
Ha scritto con Anna Pozzi il libro "Schiave" (Edizioni San Paolo).

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