03
mag

«Chi sono i miei fratelli?»

Marco Basaiti (1470 ca-1530 ca), Vocazione dei figli di Zebedeo. Venezia, Accademia.
Marco Basaiti (1470 ca-1530 ca), Vocazione dei figli di Zebedeo. Venezia, Accademia.

"Ecco, tua madre
e i tuoi fratelli
stanno fuori e cercano
di parlarti».
«Chi è mia madre
e chi sono i miei fratelli?»
".

(Matteo 12,47-48)

Antica questione dibattuta è questa sui “fratelli e sorelle” di Gesù. Nel Vangelo di Matteo si legge questa domanda ironica dei Nazaretani: «Non è costui il figlio del falegname? E sua madre non si chiama Maria? E i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non stanno tutte tra noi?» (13,55-56). Abbiamo, quindi, anche i dati anagrafici di alcuni di loro, e una fonte esterna com’è l’opera Antichità giudaiche dello storico ebreo contemporaneo Giuseppe Flavio menziona Giacomo, «fratello di Gesù, detto il Cristo» (XX, 200). Lasciamo da parte le questioni strettamente teologiche sulla verginità di Maria.

Atteniamoci solo alla dimensione storica del problema. Il vocabolo greco usato dagli evangelisti è adelphós e di per sé indica il “fratello di sangue”, anche se poi dalla prima cristianità verrà applicato ai credenti in Cristo, sulla scia delle stesse parole di Gesù presenti nel nostro brano: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre» (Matteo 12,50). Tuttavia, è necessario risalire al mondo semitico e al fondo linguistico e sociale sotteso ai Vangeli, in particolare a quello di Matteo. Ora, in aramaico – così come in ebraico – c’è un termine (’aha’/’ah) che designa sia il fratello, sia il cugino, sia il nipote, sia l’alleato. In questa luce si comprende perché Abramo chiami suo nipote Lot “fratello” (Genesi 13,8), come fa Labano nei confronti del nipote Giacobbe (29,15).

Nel contesto socio-culturale giudaico di Gesù il termine “fratello” non ha, quindi, un senso univoco come nel greco, ove si ha un altro vocabolo per indicare il “cugino” (anepsiós). Ora, un antico apocrifo come il Protovangelo di Giacomo (II secolo) ha considerato questi “fratelli” in realtà come “fratellastri” perché in quello scritto, al momento del matrimonio con Maria, Giuseppe confessa: «Ho figli e sono vecchio » (9,2). C’è, però, un’altra considerazione più significativa e fondata. L’espressione “fratelli del Signore” nel Nuovo Testamento (Atti 1,14; 1Corinzi 9,5) designa in realtà un gruppo specifico, quello dei giudeo-cristiani legati al clan parentale nazaretano di Gesù. Essi costituirono una sorta di comunità a sé stante, dotata di una tale autorevolezza da imporre come primo “vescovo” di Gerusalemme proprio quel “fratello di Gesù” Giacomo citato anche dallo storico Giuseppe Flavio.

Ora, nel nostro brano matteano, Cristo sembra ridimensionare i loro privilegi, riducendoli all’ambito più generale, meno “carnale” e più spirituale, della fedeltà alla volontà del Signore. Peraltro, essi non sono mai chiamati, come Gesù, “figli di Maria”. In questa luce, più che a una classificazione “genealogica”, l’espressione «fratelli e sorelle di Gesù» mirerebbe a designare un gruppo della Chiesa delle origini, che si faceva forte del suo legame parentale- clanico con Gesù di Nazaret, come spesso accadeva (e accade) nel Vicino Oriente (e non solo). Il loro rilievo emergerà indirettamente nella controversia con san Paolo riguardo al cosiddetto “giudeo-cristianesimo”, che voleva imporre ai convertiti pagani un passaggio previo attraverso il giudaismo e, quindi, la circoncisione prima di approdare al cristianesimo.

Pubblicato il 03 maggio 2012 - Commenti (0)
17
feb

Amerai il tuo prossimo

Il tre maggio (1808 - 1814), opera di Francisco Goya, Madrid, Prado.
Il tre maggio (1808 - 1814), opera di Francisco Goya, Madrid, Prado.

"Non ti vendicherai né coverai rancore contro i figli del tuo popolo. Amerai, invece, il tuo prossimo come te stesso".
(Levitico 19,18)

«Si parla sempre del fuoco dell’inferno.L’inferno è freddo... L’inferno è non amare più». Ho intrecciato due frasi tratte da romanzi diversi dello scrittore cattolico francese Georges Bernanos (1888-1948) per introdurre uno degli appelli biblici più citati. Nella nostra ormai vasta raccolta di frammenti delle Sacre Scritture non poteva, infatti, mancare questo passo che nel suo apice – in ebraico we’ahavtà lere’akà kamôk, «amerai il prossimo tuo come te stesso» – era caro anche a Gesù che lo cita due volte (Matteo 5,48; 22,39), ricordando che è il «secondo comandamento, simile al primo», quello dell’amore per Dio, entrambi fondamento di «tutta la Legge e i Profeti». Su questa scia continuerà san Paolo quando ammonirà che tutti i comandamenti della Legge «si riassumono in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Romani 13,9), dopo aver ribadito ai Galati che «tutta la Legge trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (5,14).

Potremmo continuare a lungo nell’elencare quanti hanno trovato in questo precetto l’anima autentica della morale biblica e la sorgente della vera spiritualità. Per stare ancora alla Bibbia, ricorderò solo la dichiarazione lapidaria di san Giacomo: «Se adempite il più importante dei comandamenti secondo la Scrittura: Amerai il prossimo tuo come te stesso, fate bene» (2,8). Vorrei, invece, fare solo due note sul versetto del Levitico (ossia dei sacerdoti, i figli di Levi, il terzo libro della Bibbia). In esso, innanzitutto, si parla esplicitamente dei «figli del tuo popolo», cioè di Israele. L’impegno dell’amore è, quindi, circoscritto a un orizzonte preciso, quello della comunità ebraica.

Sappiamo, però, che già i profeti allargheranno questo spazio, invitando a condividere l’amore di Dio per tutte le sue creature: «Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità» (Isaia 19,25). E i sapienti biblici ricorderanno che il Signore «ha compassione di tutti… e ama tutte le cose esistenti e nulla disprezza di quanto ha creato perché, se avesse odiato qualcosa, non l’avrebbe neppure creata» (Sapienza 11,23-24). Le frontiere saranno abbattute ulteriormente nel cristianesimo allorché Gesù, commentando proprio il passo del Levitico, presenterà un’applicazione quasi provocatoria, introducendo anche l’amore per il nemico e giungendo così alla radice ultima del precetto anticotestamentario: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Matteo 5,44). Il “prossimo” ora è divenuto veramente l’altro, chiunque e comunque egli sia, un altro che tu trasformi in un “io” che è come te stesso. 

Una seconda nota sull’appello “levitico”. In apertura esso evoca due realtà antitetiche all’amore: la vendetta e il rancore. A incarnare nella sua forma estrema questo antipodo della carità è Lamek, il discendente di Caino che minaccia così: «Uccido un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamek settantasette» (Genesi 5,23-24). È il canto selvaggio della vendetta a spirale, della zampata bestiale che gode del sangue versato, della logica distruttrice della guerra che ignora ogni prossimo in un empito insaziabile di odio per il nemico. Risuona, allora, per contrasto l’ideale nuova applicazione del comandamento del Levitico nelle parole che Cristo rivolge a Pietro che chiedeva: «Quante volte devo perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù replica: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette!» (Matteo 18,21-22).

Pubblicato il 17 febbraio 2011 - Commenti (0)

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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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