08 dic
Pentecoste, dal Lezionario del Vangelo e delle Epistole (Lezionario di St. Trond, Belgio), metà del XII secolo. New York, The Pierpont Morgan Library.
"Effonderò su ogni persona il mio Spirito:
diverranno profeti i vostri figli e figlie,
i vostri anziani faranno sogni,
i vostri giovani avranno visioni,
su schiavi e schiave effonderò
il mio Spirito".
(Gioele 3,1-2)
Potremmo idealmente appendere questo testo al centro di un filo che ha due estremi. Il primo è retto da un picchetto piantato nel deserto del Sinai e reca questa dichiarazione- auspicio di Mosè: «Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!» (Numeri 11,29). Era la reazione della grande guida di Israele all’impulsiva richiesta del giovane Giosuè, il suo futuro successore, che esigeva una censura nei confronti di due ebrei che non erano nella lista dei settanta anziani, il senato costituito da Mosè e investito dallo spirito profetico: anche su quei due, però, «si era posato lo spirito del Signore» (11,26).
L’altro estremo è, invece, legato a Gerusalemme. È il giorno di Pentecoste e l’apostolo Pietro ha davanti a sé la folla che l’ascolta e che è attraversata dallo Spirito Santo, capace di unire tutti nella stessa fede nonostante la diversità delle origini e la differenza delle lingue. Pietro inizia un discorso e spontaneamente applica subito all’evento l’antico oracolo di Gioele (Atti 2,14-21). Di questo profeta si conosce ben poco e la sua collocazione cronologica per la maggior parte degli studiosi è nel periodo successivo all’esilio babilonese, forse nel V secolo a. C. Il suo libretto è nettamente diviso in due quadri, così da diventare un dittico.
La prima scena è occupata da un’invasione di cavallette, simile a un esercito assalitore, flagello endemico dell’agricoltura del Vicino Oriente, presagio di carestia a causa della loro famelica voracità nei confronti delle coltivazioni. Il popolo si affida, allora, al Signore perché, come Sovrano del creato, fermi questa piaga (capitoli 1-2). Il secondo quadro, che occupa i capitoli 3-4, è invece dipinto con colori apocalittici e con lo sguardo puntato verso il «giorno del Signore», il tempo del giudizio finale sul male e sull’iniquità, ma anche aurora di una nuova èra. Sull’umanità, allora, si stenderà lo Spirito divino quasi come un nuovo soffio vitale che attraverserà l’intero popolo, raffigurato in tutte le sue articolazioni generazionali (padri e figli) e sociali (anziani, giovani e schiavi). È una trasfigurazione radicale della comunità che diventa un popolo di profeti, cioè di testimoni della parola di Dio al mondo. È ciò che si proclama anche per i battezzati cristiani nella celebrazione del sacramento che li consacra re, sacerdoti e profeti. È quella trasformazione interiore che aveva cantato il profeta Ezechiele: «Darò loro un cuore nuovo, uno spirito nuovo metterò dentro di loro. Toglierò dal loro petto il cuore di pietra, darò loro un cuore di carne» (11,19)
Un’ultima annotazione. Per descrivere lo spirito profetico Gioele usa due segni per noi forse sorprendenti e passibili di equivoco: «i sogni e le visioni». Ora, questo è un simbolo per indicare un tipo di conoscenza – quello appunto mistico, della profezia e della fede – differente dalla nostra logica puramente razionale, un po’ come accade in sogno. Era stato Dio stesso a dichiarare: «Se ci sarà tra voi un profeta, io, il Signore, in visione a lui mi rivelerò, in sogno parlerò a lui» (Numeri 12,6). Per questo il profeta era chiamato anche «Veggente », perché il suo occhio spirituale penetrava nel mistero divino con uno sguardo nuovo e diverso rispetto alla semplice contemplazione della realtà esteriore.
Pubblicato il 08 dicembre 2011 - Commenti (2)
16 giu
Mary Parker (1799-1864), Monte Sinai, acquerello, Londra, Victoria & Albert Museum.
"Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di amore e di fedeltà.”
(Esodo 34,6)
Quelle che noi abbiamo citato sono solo
le prime parole di un passo biblico che
è stato definito da un esegeta francese,
André Gelin, «la carta d’identità di Dio». Prima
di scorrere queste righe, ricostruiamo la scena
che funge da fondale. È l’alba. Mosè si è arrampicato
lungo le pendici erte e pietrose del monte
Sinai, reggendo tra le mani le due tavole
marmoree che dovranno accogliere il nuovo
Decalogo, dopo che le precedenti erano state
spezzate di fronte all’idolo del vitello d’oro eretto
dal popolo (Esodo 32,19-20). La vetta della
montagna sacra è immersa nelle nubi.
Mosè le varca e si trova nell’oscurità che
all’improvviso è squarciata da una voce possente.
È Dio stesso che si autopresenta con le
parole che abbiamo evocato. È un autoritratto
sorprendentemente dolce che si modella
sulla promessa che il Signore stesso aveva fatto
a Mosè quando costui gli aveva chiesto di
poter vedere il suo volto. «No, tu non potrai
vedere il mio volto, perché nessun uomo
può vedermi e restare vivo». Tuttavia, uno
svelamento ci sarà: «Farò passare davanti a te
tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome,
Signore, davanti a te... Ti porrò poi nella cavità
di una rupe e ti coprirò con la mano, finché
non sarò passato. Poi toglierò la mano e
vedrai solo le mie spalle, ma il mio volto non
lo si può vedere!» (Esodo 33,18-23).
Ora Mosè sa che il Dio invisibile è là, davanti
a lui, perché sta proprio proclamando il suo
nome “Signore”, in ebraico il nome sacro e impronunciabile
Jhwh. Ma subito dopo Dio aggiunge
quattro attributi che completano la sua
“carta d’identità”. Il primo è in ebraico rahûm,
che la versione “misericordioso” rende solo in
modo pallido perché il termine originale allude
alle viscere materne, a una sorta di affetto
“viscerale” appunto, totale e assoluto come
è quello di una madre o di un padre. Il secondo
aggettivo è hanûn e anche qui la traduzione
“pietoso” è esangue e debole, perché l’originale
rimanda alla “grazia”, al dono, alla gratuità
di un rapporto d’amore.
La terza qualità divina è la sua paziente attesa
che l’umanità si converta, prima che egli
debba intervenire con la sua “ira”, che in
ebraico è curiosamente (e antropomorficamente)
raffigurata con le “narici” sbuffanti
(’appîm). L’ultimo tratto è affidato a un binomio
di parole che sono quelle tipiche per definire
l’alleanza tra il Signore e Israele. In
ebraico sono hesed e ’emet, “amore” e “fedeltà”,
coppia di termini destinati a esprimere
quella ricca trama di relazioni, di sentimenti,
di affetti che intercorrono tra due persone
che sono legate tra loro da un vincolo d’amore
e da un patto di fedeltà.
La terza qualità divina è la sua paziente attesa
che l’umanità si converta, prima che egli
debba intervenire con la sua “ira”, che in
ebraico è curiosamente (e antropomorficamente)
raffigurata con le “narici” sbuffanti
(’appîm). L’ultimo tratto è affidato a un binomio
di parole che sono quelle tipiche per definire
l’alleanza tra il Signore e Israele. In
ebraico sono hesed e ’emet, “amore” e “fedeltà”,
coppia di termini destinati a esprimere
quella ricca trama di relazioni, di sentimenti,
di affetti che intercorrono tra due persone
che sono legate tra loro da un vincolo d’amore
e da un patto di fedeltà.
A questo punto il nostro frammento si allarga in un canto dell’amore, hesed, di Dio. Esso è modulato su due simboli numerici,
il 1000 e il 3+4 (allusione al 7). La giustizia divina è, certo,
perfetta perché adotta il 7, che in Oriente è segno di pienezza;
l’amore, però, usa il 1000, che è invece indizio di infinito.
Ascoltiamo, allora, le ultime parole che in quell’alba nebbiosa, sulla
cima del Sinai, Dio proclamò a Mosè: «Il Signore conserva il suo amore
per mille generazioni, perdona la colpa, la trasgressione e il peccato;
ma non lascia senza punizione, castiga la colpa dei padri nei figli e
nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (34,7).
Pubblicato il 16 giugno 2011 - Commenti (0)
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