08 mar
Uno storpio in ginocchio con le stampelle a tre punte in mano, manoscritto, 1220. Londra, British Library
"A questa vista,
le folle furono
prese da timore,
resero gloria a Dio
che aveva dato
un tale potere
agli uomini".
(Matteo 9,8)
Non abbiamo potuto citare tutto il brano
matteano (9,1-8) che ora brevemente
evochiamo per sommi capi. Si tratta
di un episodio che è ripreso anche dagli altri
Vangeli Sinottici (Marco 2,1-12 e Luca
5,17-26), con varianti descrittive proprie. Gesù
ha davanti un paralitico e, invece di guarirlo,
gli dice: «Coraggio, figlio, ti sono perdonati
i peccati!». Questa frase fa scattare la reazione
sconcertata dei dottori della legge: «Costui
bestemmia!», perché solo Dio può concedere
la remissione delle colpe. Cristo reagisce
confermando la sua frase, arrogandosi
quindi un privilegio divino, e la suggella
con l’atto della guarigione.
La risposta di Gesù agli scribi che l’hanno
attaccato è proprio articolata lungo le due direzioni
della salvezza e della salute: «Che cosa
è più facile: dire “Ti sono perdonati i peccati”,
oppure: “Alzati e cammina”? Ma perché
sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere
sulla terra di perdonare i peccati: “Alzati”,
disse al paralitico, “prendi il tuo letto e va’ a
casa tua”». In questa dichiarazione ci sono
due elementi da considerare. Da un lato, la
tradizionale concezione biblica (non però
esclusiva: si pensi solo alle obiezioni di Giobbe
e dello stesso Gesù in altre occasioni) secondo
la quale peccato e malattia hanno tra
loro un nesso di causalità. Si tratta della cosiddetta
“teoria della retribuzione” riassumibile
nel binomio “delitto e castigo”.
D’altro lato, Gesù fa un ragionamento a
fortiori: rimettere le colpe della coscienza è
ben più arduo che guarire i corpi, anche se il
perdono è apparentemente facile a dirsi. Per
questo, sanerà quel corpo malato, un atto in
apparenza più difficile per svelare il dono
più profondo ed esteriormente più semplice,
il perdono del peccato. Ci troviamo di
fronte al comportamento costante di Cristo
che tende a fondere anima e corpo, anche secondo
la visione biblica unitaria della persona
umana. Ma a questo punto c’imbattiamo
nel versetto finale da noi citato, che risulta
problematico e inatteso.
Ci si aspetta, infatti, che la folla acclami Dio
per il potere dato al Figlio dell’uomo, cioè a Gesù
Cristo, che nei Vangeli si assegna questo titolo
messianico. Ecco, invece, la stupefacente attribuzione
del “potere” di perdonare i peccati e
di sanare come «dato agli uomini». La spiegazione
è da cercare nella rilettura dell’episodio che
Matteo opera, allargando lo sguardo all’esperienza
vissuta nella Chiesa. È noto, infatti, che
questo evangelista riserva un’attenzione particolare
al tema ecclesiale. Ebbene gli apostoli,
e quindi i ministri della comunità cristiana,
hanno ricevuto il “potere” di rimettere i peccati
da Gesù stesso. Ecco perché si parla di
“uomini” in senso più ampio.
Questo incarico è attestato nei Vangeli almeno
in due casi espliciti. Il primo è proprio
nel Vangelo di Matteo, nel terzo dei cinque
discorsi di Gesù che reggono quello scritto,
discorso denominato di solito come “ecclesiale”
o “comunitario”: «Tutto quello che legherete
sulla terra sarà legato in cielo, e tutto
quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto
nei cieli» (18,18). L’altra occasione è ambientata
nel Cenacolo, la sera stessa del giorno di
Pasqua, allorché il Risorto affida lo stesso incarico
agli apostoli: «A coloro ai quali perdonerete
i peccati, saranno perdonati; a coloro
ai quali non perdonerete, non saranno perdonati
» (Giovanni 20,23).
Pubblicato il 08 marzo 2012 - Commenti (2)
12 mag
Gli antichi cedri sul monte Libano a Bouman, A. Montfort (1802 - 1884), Parigi, Museo d'Orsay.
"Dissero gli alberi al rovo: «Vieni tu a regnare su di noi!». E il rovo: «Se mi ungete re su di voi, venite, rifugiatevi alla mia ombra!». (Giudici 9, 14 - 15"
(Luca, 24,29)
Il grande poeta inglese John Milton, nel suo
Paradiso perduto (1667), ha scritto un verso
paradossale: «Meglio regnare all’inferno,
che servire in cielo». Con questo assioma affermava,
però, una verità amara: gli uomini
preferiscono il potere a ogni costo, convinti,
come diceva un nostro noto uomo politico,
che «il potere logora chi non ce l’ha».
Ebbene, noi attraverso il nostro frammento
biblico faremo insieme una caustica riflessione
su questo anelito dell’uomo, causa di
tanti mali per la società. Lo faremo attraverso
la prima, compiuta parabola che appare
nella Bibbia. Come sappiamo, sarà Gesù con
le sue almeno 35 parabole a rendere popolare
questo genere letterario. Esso, però, era
già diffuso nell’antichità ed è rintracciabile
anche nell’Antico Testamento.
A narrare la parabola (in ebraico mashal),
che abbiamo proposto nel suo apice conclusivo,
è un certo Iotam, fratello di Abimelek:
quest’ultimo s’era messo in testa di diventare
re della città ebraica di Sichem e, per raggiungere
il suo scopo, aveva iniziato con un
bel bagno di sangue, eliminando tutto il suo
clan familiare, una settantina di persone,
considerate come pericolosi pretendenti o
concorrenti. Una di queste s’era, però, salvata
nascondendosi: era appunto il fratello minore
Iotam. Egli sale sul monte che diverrà
sacro ai Samaritani, il Garizim, e urla il suo
apologo, così da mettere in guardia i suoi
concittadini di Sichem sull’abisso verso il
quale stanno incamminandosi. A valle, infatti,
è riunita un’assemblea di capi di Sichem e
della regione che stanno per proclamare Abimelek
come loro sovrano.
Come accade nelle favole, protagonisti sono
o gli animali o i vegetali personificati che
diventano maestri degli umani insipienti.
Nel nostro caso entrano in scena innanzitutto
i tre alberi tipici del paesaggio mediterraneo:
l’ulivo, il fico, la vite (si legga il testo integrale
di Giudici 9,7-21). La delegazione delle
altre piante si reca da questi tre “colleghi”
per invitarli ad assumere la carica di re degli
alberi. Ma la risposta è negativa: essi sono lieti
di essere utili agli altri col loro olio o col
frutto dolce o col vino inebriante e non vogliono
lasciarsi prendere da manie di dominio,
librandosi sopra le altre piante, gloriandosi
e vivendo riveriti e serviti.
Di fronte a questo rifiuto la delegazione si
rassegna al tentativo di coinvolgere il rovo il
quale accetta subito con piacere, dato che
non ha nessun impegno se non quello di ramificarsi
su altri vegetali vivendo da parassita
e producendo solo spine. E subito il rovo
rivela la tipica arroganza del potere. Arido
com’è, s’immagina già frondoso ed elevato e
invita le altre piante a piegarsi sotto la sua
ombra. È questo il frammento da noi citato
che prosegue con un’altra battuta da sbruffone:
se non vi piegherete a me, ebbene «esca
dal rovo un fuoco e divori i cedri del Libano».
Detto in altri termini, facendo il gradasso, il
rovo minaccia persino i possenti e maestosi
cedri del Libano.
Iotam applica la morale della parabola alla
sua situazione politica. Il lettore potrà liberamente
applicarla alla nostra classe politica,
ricordando comunque che un po’ di anelito
verso il potere prevaricatore è in tutti noi.
Il nostro scrittore Luciano De Crescenzo ci ricordava
mediante il suo personaggio Bellavista
che «il potere non sazia, anzi, è come la
droga: richiede sempre dosi maggiori».
Pubblicato il 12 maggio 2011 - Commenti (0)
|
|