29 mar
Cronaca bizantina di Giovanni Scilitze, Folio 217.r. I bizantini rompono l’assedio di Tessalonica inseguendo i cavalieri bulgari. Madrid, Biblioteca Nazionale.
"Il regno dei cieli subisce
violenza e i violenti
se ne impadroniscono."
(Matteo 11,12)
Ecco una frase evangelica che può essere comparata a un caleidoscopio che, se appena toccato, cambia il disegno che in esso si rifrange. Il verbo greco centrale, biázetai, essendo di sua natura “medio”, secondo la classificazione grammaticale, ammette sia un valore passivo sia quello attivo. Cominciamo con quest’ultimo che suggerirebbe la traduzione: «Il regno dei cieli si fa strada con violenza». Il significato sarebbe da decifrare tenendo conto proprio di un’altra frase di Gesù che abbiamo già spiegato in passato: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra: sono venuto a portare non pace, ma spada!» (Matteo 10,34). Si tratterebbe, dunque, dell’impegno serio, severo, esigente che la fedeltà al Vangelo comporta e la violenza avrebbe, come nel caso della spada, un valore simbolico. Il cristiano deve ingaggiare una lotta contro il male, sfidandolo apertamente e subendone anche la violenza aggressiva, così da erigere il regno di Dio sulle sue rovine.
Alcuni esegeti, però, pensano che – sempre applicando un senso “attivo” alle parole di Gesù – si possa considerare la frase come polemica nei confronti di coloro che si illudono di far strada al regno di Dio attraverso il ricorso alla violenza. Al tempo di Gesù era questa la scelta operata dai cosiddetti zeloti, i rivoluzionari antiromani, i quali mescolavano ideali politici e religiosi e, quindi, non esitavano a impugnare la sica, cioè un corto pugnale per colpire all’improvviso in imboscate i soldati romani, donde l’appellativo di sicarii che s’erano guadagnati. Cristo condannerebbe tale opzione violenta.
Passiamo, invece, al senso “passivo” che abbiamo adottato nella nostra versione. Anche in questo caso sono possibili due interpretazioni divergenti. La prima, positiva, è quella che viene talora definita come “santa violenza” ed è praticata da coloro che sono “violenti” verso sé stessi: infatti, essi ingaggiano una dura battaglia ascetica contro i propri vizi e contro le seduzioni del male e, così, “s’impadroniscono” del regno di Dio. È, in pratica, la logica che Gesù aveva abbozzato nel Discorso della Montagna attraverso l’immagine «della porta stretta e della via augusta che conduce alla vita e che pochi riescono a trovare» (Matteo 7,13-14). La scelta del Vangelo non è agevole, esige coraggio e impegno, è come conquistare una cittadella attraverso un assedio paziente e resistente.
È, però, possibile anche una lettura per così dire negativa. Il regno dei cieli subisce attacchi costanti sia da parte delle potenze demoniache, sia da parte dei loro seguaci che sono i perversi, gli ingiusti, i malvagi. Si oppongono, così, quasi due imperi, quello del male e del mondo peccatore e quello del bene e della comunità dei credenti in Cristo che costituiscono con lui il regno di Dio. I violenti malvagi tentano di impadronirsi di quel regno scalzandolo dalla storia: il presente greco harpázousin, “se ne impadroniscono”, in questa interpretazione avrebbe il valore di “conato di sfida” (“tentano di impadronirsi”), perché in realtà non si riuscirà mai a piegare quel regno. Diceva, infatti, Gesù: «Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me... Abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» (Giovanni 15,18; 16,33).
L’analisi che abbiamo condotto ci mostra come le parole di Cristo, che pure sono dotate di una grande incisività e limpidità, rivelano talora un arcobaleno di significati che s’intrecciano nel testo. Spesso si tratta di alternative apparenti che possono essere ricomposte in una sequenza variegata di temi; altre volte è, invece, la nostra incapacità di decifrare il senso dominante; in alcuni casi, poi, è il percorso stesso del testo nella sua nascita dalla predicazione orale di Gesù fino alla redazione evangelica a creare una complessità non del tutto aperta a una soluzione univoca.
Pubblicato il 29 marzo 2012 - Commenti (2)
12 mag
Gli antichi cedri sul monte Libano a Bouman, A. Montfort (1802 - 1884), Parigi, Museo d'Orsay.
"Dissero gli alberi al rovo: «Vieni tu a regnare su di noi!». E il rovo: «Se mi ungete re su di voi, venite, rifugiatevi alla mia ombra!». (Giudici 9, 14 - 15"
(Luca, 24,29)
Il grande poeta inglese John Milton, nel suo
Paradiso perduto (1667), ha scritto un verso
paradossale: «Meglio regnare all’inferno,
che servire in cielo». Con questo assioma affermava,
però, una verità amara: gli uomini
preferiscono il potere a ogni costo, convinti,
come diceva un nostro noto uomo politico,
che «il potere logora chi non ce l’ha».
Ebbene, noi attraverso il nostro frammento
biblico faremo insieme una caustica riflessione
su questo anelito dell’uomo, causa di
tanti mali per la società. Lo faremo attraverso
la prima, compiuta parabola che appare
nella Bibbia. Come sappiamo, sarà Gesù con
le sue almeno 35 parabole a rendere popolare
questo genere letterario. Esso, però, era
già diffuso nell’antichità ed è rintracciabile
anche nell’Antico Testamento.
A narrare la parabola (in ebraico mashal),
che abbiamo proposto nel suo apice conclusivo,
è un certo Iotam, fratello di Abimelek:
quest’ultimo s’era messo in testa di diventare
re della città ebraica di Sichem e, per raggiungere
il suo scopo, aveva iniziato con un
bel bagno di sangue, eliminando tutto il suo
clan familiare, una settantina di persone,
considerate come pericolosi pretendenti o
concorrenti. Una di queste s’era, però, salvata
nascondendosi: era appunto il fratello minore
Iotam. Egli sale sul monte che diverrà
sacro ai Samaritani, il Garizim, e urla il suo
apologo, così da mettere in guardia i suoi
concittadini di Sichem sull’abisso verso il
quale stanno incamminandosi. A valle, infatti,
è riunita un’assemblea di capi di Sichem e
della regione che stanno per proclamare Abimelek
come loro sovrano.
Come accade nelle favole, protagonisti sono
o gli animali o i vegetali personificati che
diventano maestri degli umani insipienti.
Nel nostro caso entrano in scena innanzitutto
i tre alberi tipici del paesaggio mediterraneo:
l’ulivo, il fico, la vite (si legga il testo integrale
di Giudici 9,7-21). La delegazione delle
altre piante si reca da questi tre “colleghi”
per invitarli ad assumere la carica di re degli
alberi. Ma la risposta è negativa: essi sono lieti
di essere utili agli altri col loro olio o col
frutto dolce o col vino inebriante e non vogliono
lasciarsi prendere da manie di dominio,
librandosi sopra le altre piante, gloriandosi
e vivendo riveriti e serviti.
Di fronte a questo rifiuto la delegazione si
rassegna al tentativo di coinvolgere il rovo il
quale accetta subito con piacere, dato che
non ha nessun impegno se non quello di ramificarsi
su altri vegetali vivendo da parassita
e producendo solo spine. E subito il rovo
rivela la tipica arroganza del potere. Arido
com’è, s’immagina già frondoso ed elevato e
invita le altre piante a piegarsi sotto la sua
ombra. È questo il frammento da noi citato
che prosegue con un’altra battuta da sbruffone:
se non vi piegherete a me, ebbene «esca
dal rovo un fuoco e divori i cedri del Libano».
Detto in altri termini, facendo il gradasso, il
rovo minaccia persino i possenti e maestosi
cedri del Libano.
Iotam applica la morale della parabola alla
sua situazione politica. Il lettore potrà liberamente
applicarla alla nostra classe politica,
ricordando comunque che un po’ di anelito
verso il potere prevaricatore è in tutti noi.
Il nostro scrittore Luciano De Crescenzo ci ricordava
mediante il suo personaggio Bellavista
che «il potere non sazia, anzi, è come la
droga: richiede sempre dosi maggiori».
Pubblicato il 12 maggio 2011 - Commenti (0)
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