28 ottobre 2012


28 ottobre 2012 – I domenica dopo la Dedicazione

Questa Prima Domenica dopo la Dedicazione, partendo dalla contemplazione del mistero della Chiesa locale, adombrato nel nostro Duomo, apre alla prospettiva dell’universalità della Chiesa secondo il disegno divino di salvezza e nell’impegno del mandato missionario.

 

Il Lezionario

 

Riporta le seguenti lezioni bibliche: Lettura: Atti degli Apostoli 8,26-39; Salmo 65 (66); Epistola: 1Timoteo 2,1-5; Vangelo: Marco 16,14b-20. Nella messa vigiliare del sabato il Vangelo della Risurrezione è preso da Giovanni 21,1-14. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XXX Domenica del Tempo «per annum» del Messale Ambrosiano.

 

Lettura degli Atti degli Apostoli (8,26-39)

 

In quei giorni. 26Un angelo del Signore parlò a Filippo e disse: «Àlzati e va’ verso il mezzogiorno, sulla strada che scende da Gerusalemme a Gaza; essa è deserta». 27Egli si alzò e si mise in cammino, quand’ecco un Etìope, eunuco, funzionario di Candace, regina di Etiopia, amministratore di tutti i suoi tesori, che era venuto per il culto a Gerusalemme, 28stava ritornando, seduto sul suo carro, e leggeva il profeta Isaia. 29Disse allora lo Spirito a Filippo: «Va’ avanti e accòstati a quel carro». 30Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». 31Egli rispose: «E come potrei capire, se nessuno mi guida?». E invitò Filippo a salire e a sedere accanto a lui. 32Il passo della Scrittura che stava leggendo era questo: / «Come una pecora egli fu condotto al macello / e come un agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, / così egli non apre la sua bocca. / 33Nella sua umiliazione il giudizio gli è stato negato, / la sua discendenza chi potrà descriverla? / Poiché è stata recisa dalla terra la sua vita.»
34Rivolgendosi a Filippo, l’eunuco disse: «Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro?». 35Filippo, prendendo la parola e partendo da quel passo della Scrittura, annunciò a lui Gesù. 36Proseguendo lungo la strada, giunsero dove c’era dell’acqua e l’eunuco disse: «Ecco, qui c’è dell’acqua; che cosa impedisce che io sia battezzato?». [37] 38Fece fermare il carro e scesero tutti e due nell’acqua, Filippo e l’eunuco, ed egli lo battezzò. 39Quando risalirono dall’acqua, lo Spirito del Signore rapì Filippo e l’eunuco non lo vide più; e, pieno di gioia, proseguiva la sua strada.

 

Il brano è collocato nel contesto della predicazione del Vangelo in Samaria in seguito alla dispersione dei fedeli a causa della persecuzione contro la Chiesa scatenata a Gerusalemme subito dopo l’uccisione di Stefano (8,1-25). Qui viene riportato il racconto dell’incontro di Filippo, uno dei sette eletti per prendersi cura degli Ebrei di lingua greca (cfr. Atti, 6,1-6), con un funzionario della regina di Etiopia. Il v. 27 sembra descriverlo come un “simpatizzante” del giudaismo che, dopo aver compiuto il pellegrinaggio a Gerusalemme, sta per tornare in patria. Si noti al v. 26 come è un angelo, un messaggero celeste, a mettere Filippo sulla strada del funzionario etiope. Questi è colto mentre, «seduto sul suo carro» stava leggendo, senza intenderlo, il passo di Isaia 53,7-8 preso dal IV canto del Servo di Dio sofferente e che Filippo gli rivela essere Gesù (v. 35). I vv. 36-38 riferiscono  del battesimo del funzionario etiope. Il brano si conclude al v. 39 con il “rapimento” di Filippo inviato dallo Spirito a predicare altrove e la sottolineatura della gioia del funzionario che, è lecito pensarlo, diventa lui stesso evangelizzatore nel suo paese di origine.

 

Prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (2,1-5)

 

Carissimo, 1Raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, 2per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio. 3Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, 4il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità. 5Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù.

 

In questa parte della lettera l’Apostolo impartisce alcune istruzioni per lo svolgimento del culto nella comunità ecclesiale. Qui, in particolare, si raccomanda la preghiera per tutti gli uomini e, tra essi, per chi sta al potere (vv. 1-2). La raccomandazione offre a Paolo l’occasione di offrire una breve ma essenziale professione di fede della comunità cristiana delle origini che si fonda sull’universale volontà salvifica di Dio attuata per mezzo del mediatore: Cristo Gesù (vv. 4-5).

 

Lettura del Vangelo secondo Marco (16,14b-20)

 

In quel tempo. Il Signore Gesù 14 apparve agli Undici, mentre erano a tavola, e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risorto. 15E disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. 16Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. 17Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, 18prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».

19Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.
20Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.

 

Il brano riporta l’apparizione del Signore Risorto agli Undici, i quali vengono dapprima rimproverati per non aver prestato fede a Maria di Magdala e agli altri due discepoli che annunciarono loro la sua risurrezione (vv. 9-13). Segue il mandato di portare il Vangelo ovunque e a tutti gli uomini e l’ordine di battezzare quanti avranno creduto (vv. 15-16). I vv. 17-18 riportano le nuove facoltà in possesso dei credenti in vista della loro missione. Dopo aver fugacemente accennato all’ascensione del Signore (v. 19), si dà conto, al v. 20, dell’esecuzione immediata del mandato missionario che i discepoli svolgono “insieme” al Signore, che dava efficacia all’annunzio della Parola. 

 

Commento liturgico-pastorale

 

L’ultimo scorcio del Tempo dopo Pentecoste ci fa sostare ogni anno sul “grande mistero” che è la Chiesa, la quale riconosce la sua origine nel mistero pasquale del Signore Crocifisso e Risorto ed è perennemente animata dal soffio del suo Santo Spirito.

Lo Spirito, infatti, rende viva la Parola del Risorto che, inviando i suoi apostoli, in realtà manda incessantemente i discepoli di ogni tempo, a portare su tutta la terra la bella e buona notizia che lui ha vinto le tenebre del male e della morte e che, in lui, è possibile non solo vincere la morte, ma accedere definitivamente alla vita beata, ovvero alla salvezza.

È oggi più che mai necessario che tutti i fedeli si riconoscano negli Undici e, dunque, avvertano come rivolta a sé stessi la parola del Signore: «Andate in tutto il mondo...» (Vangelo: Marco 16, 15). Sono infatti questi i giorni nei quali ogni discepolo del Signore sente fortemente urgere  nel cuore l’imperativo del mandato missionario verso ogni uomo oggetto di quella volontà di Dio che vuole tutti salvi e capaci di giungere alla «conoscenza della verità» (Epistola: 1Timoteo 2,4), che consiste nella rivelazione folgorante e insuperabile della sua incredibile carità fissata nella Croce del suo Figlio. In essa, rappresentata efficacemente dal fonte battesimale, vengono letteralmente immersi quanti aprono il cuore alla predicazione del Vangelo (Marco 16,16).

Tutto ciò deve scuotere le nostre comunità e, in esse, ogni fedele perché il Signore non debba rimproverarci «per la nostra incredulità e durezza di cuore» (Marco 16,14) e per l’opacità della   nostra vita che manifesta la debolezza della nostra fede. Non a caso l’iniziativa dell’Anno della fede, voluta dal Papa, ci esorta con forza a riscoprire, assimilare e confessare con gioia la nostra fede per poterla mostrare nella vita e nella condotta e così più efficacemente annunziarla a quanti incontriamo sul nostro cammino ovvero a quanti il Signore ci manda ad affiancare nel loro cammino.  

Siamo noi, oggi, i continuatori del servizio “diaconale” di Filippo, che ci pone al fianco di tanta gente in attesa di una parola  che apra il loro cuore alle meraviglie dell’universale carità di Dio che è incredibilmente posta in Colui che «come una pecora fu condotto al macello e come un agnello senza voce innanzi a chi lo tosa» (Lettura: Atti degli Apostoli 8,32), il Signore Crocifisso.

Questo è il Vangelo che siamo mandati ad annunciare perché chi ascolta e crede sia rigenerato dalla divina Carità per diventare “discendenza” dell’Agnello immolato e risorto, formando in tal modo il suo popolo, la sua Chiesa.

Il nostro raduno eucaristico, specialmente nel giorno di domenica, annunzia e anticipa l’ingresso di tutte le genti mediante la fede e il battesimo in quell’unica Chiesa che «il Signore Gesù trasse da tutte le genti» ed «efficacemente avvera» nel «sacramento del Corpo di Cristo» la sua unione d’amore così profonda al punto da essere paragonata a una sposa che si unisce al suo sposo (Prefazio).

Avvertiamo, così, la grande responsabilità che grava su tutti noi che ci sediamo al banchetto dell’Agnello per essere uniti a lui, e di conseguenza, tra di noi, in un vincolo indissolubile di carità!

Esso, se vissuto con fedeltà, rappresenta l’annuncio più efficace e comprensibile dell’Evangelo. Ci venga per questo in aiuto la grazia misericordiosa del nostro Dio che così invochiamo: «O Dio fonte del vero amore e della pace, donaci di conservare  sempre più radicato nel cuore e nella vita l’impegno di unione e di carità» (Orazione Sui Doni).  

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21 ottobre 2012


Dedicazione del Duomo di Milano, Chiesa Madre di tutti i fedeli ambrosiani

Con questa solennità che evoca momenti grande importanza nella storia della nostra Chiesa diocesana, il Tempo «dopo Pentecoste» riceve un’ulteriore svolta rappresentata dalla riproposizione del “grande mistero” della Chiesa espressa per noi nel Duomo. È la Chiesa Cattedrale per i fedeli della diocesi di Milano e Chiesa Madre per tutti quei fedeli che, pur appartenendo ad altre diocesi, seguono da tempo immemorabile il rito liturgico che da sant’Ambrogio prende il nome.

 

Il Lezionario

 

Fa proclamare i seguenti brani biblici: Lettura: Isaia 26,1-2.4.7-8; 54,12-14a; oppure Apocalisse 21,9a.c.-27; Salmo 67 (68); Epistola: 1 Corinzi 3,9-17; Vangelo: Giovanni 10,22-30. Alla Messa vigiliare del sabato, il Vangelo della risurrezione è preso da Giovanni 20,24-29. (Le orazioni e i canti sono propri della solennità nel Messale ambrosiano).

 

Lettura del profeta Isaia (26, 1-2.4.7-8; 54, 12-14a)

 

26,1In quel giorno si canterà questo canto nella terra di Giuda: / «Abbiamo una città forte; / mura e bastioni egli ha posto a salvezza. / 2Aprite le porte: / entri una nazione giusta / che si mantiene fedele. / 4Confidate nel Signore sempre, / perché il Signore è una roccia eterna. / 7Il sentiero del giusto è diritto, / il cammino del giusto tu rendi piano. / 8Sì, sul sentiero dei tuoi giudizi, / Signore, noi speriamo in te; / al tuo nome e al tuo ricordo / si volge tutto il nostro desiderio. /54,12Farò di rubini la tua merlatura, / le tue porte saranno di berilli, / tutta la tua cinta sarà di pietre preziose. / 13Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore, / grande sarà la prosperità dei tuoi figli; / 14sarai fondata sulla giustizia».

 

Il brano risulta composto da alcuni versetti presi dal capitolo 26 e dal capitolo 54. I primi cantano Gerusalemme come «città forte» perché ripone la sua fiducia in Dio che è una «roccia eterna» (v. 4) e i cui abitanti vivono in base ai divini precetti (vv. 7-8). Nei vv.12-14 del cap. 54, il profeta annuncia la ricostruzione materiale di Gerusalemme (v. 12) e quella spirituale contrassegnata dalla rinnovata fedeltà dei suoi abitanti a Dio (vv. 13-14a).

 

Lettura del libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (21.9a.c-27)

 

Nel giorno del Signore, 9venne uno dei sette angeli e mi parlò: «Vieni, ti mostrerò la promessa sposa, la sposa dell’Agnello». 10L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. 11Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. 12È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. 13A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. 14Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello.

15Colui che mi parlava aveva come misura una canna d’oro per misurare la città, le sue porte e le sue mura. 16La città è a forma di quadrato: la sua lunghezza è uguale alla larghezza. L’angelo misurò la città con la canna: sono dodicimila stadi; la lunghezza, la larghezza e l’altezza sono uguali. 17Ne misurò anche le mura: sono alte centoquarantaquattro braccia, secondo la misura in uso tra gli uomini adoperata dall’angelo. 18Le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. 19I basamenti delle mura della città sono adorni di ogni specie di pietre preziose. Il primo basamento è di diaspro, il secondo di zaffìro, il terzo di calcedònio, il quarto di smeraldo, 20il quinto di sardònice, il sesto di cornalina, il settimo di crisòlito, l’ottavo di berillo, il nono di topazio, il decimo di crisopazio, l’undicesimo di giacinto, il dodicesimo di ametista. 21E le dodici porte sono dodici perle; ciascuna porta era formata da una sola perla. E la piazza della città è di oro puro, come cristallo trasparente.

22In essa non vidi alcun tempio: / il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello / sono il suo tempio. / 23La città non ha bisogno della luce del sole, / né della luce della luna: / la gloria di Dio la illumina / e la sua lampada è l’Agnello. / 24Le nazioni cammineranno alla sua luce, / e i re della terra a lei porteranno il loro splendore. / 25Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, / perché non vi sarà più notte. / 26E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni. / 27Non entrerà in essa nulla d’impuro, / né chi commette orrori o falsità, / ma solo quelli che sono scritti / nel libro della vita dell’Agnello.

 

L’avvio del brano: «Nel giorno del Signore», preso dal capitolo 1,10, inquadra la presente visione della «città santa» nel contesto liturgico domenicale che, com’è noto, è la massima manifestazione del mistero della Chiesa che è simultaneamente «la sposa dell’Agnello» (v. 9) e la «città santa» (v. 10). In particolare i vv. 10-17 si soffermano sulla descrizione delle mura e delle porte della città celeste per indicare come tutto, in essa, è conforme al volere divino (cfr. Ezechiele 48,30-35) mentre i vv. 18-21 descrivono la magnificenza della città stessa destinata ad attirare a sé le genti (cfr. Isaia 54,11-12). In essa non si trova alcun tempio in quanto abitata perennemente dalla presenza di Dio, l’Onnipotente, e dell’Agnello (v. 22). La loro presenza illumina la città (v. 23) al cui splendore sono attratte tutte le genti (v.24) che in esse potranno entrare liberamente (v. 26) a patto che siano «scritti nel libro della vita dell’Agnello» (v. 27) in quanto redenti dal sangue del Signore.

 

Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (3,9-17)

 

Fratelli, 9siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio, edificio di Dio.
10Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un saggio architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento a come costruisce. 11Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. 12E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, 13l’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. 14Se l’opera, che uno costruì sul fondamento, resisterà, costui ne riceverà una ricompensa. 15Ma se l’opera di qualcuno finirà bruciata, quello sarà punito; tuttavia egli si salverà, però quasi passando attraverso il fuoco. 16Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? 17Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi.

 

Nel presente capitolo l’Apostolo corregge la mentalità della giovane comunità di Corinto a proposito dei personaggi come Apollo e lo stesso Paolo che si sono succeduti in essa nella predicazione del Vangelo. Per questo li paragona a dei «collaboratori di Dio» nel prendersi cura della comunità paragonata a un campo e a un edificio entrambi, però, appartenenti a Dio (v. 9). L’Apostolo è ben consapevole che la sua attività di fondazione e cura della comunità poggia su un fondamento «che già vi si trova» e che è Gesù Cristo (vv. 10-11). Nei vv. 12-15 l’Apostolo paragona i ministri del Vangelo a dei costruttori che riescono bene o male nell’edificazione della Chiesa a seconda che avranno costruito sul fondamento, ossia su Gesù Cristo, e non sopra sé stessi. Nei vv. 16-17 si riferisce alla comunità di Corinto designata come «tempio di Dio» abitato dal suo Spirito, tempio santo perché formato da santi quali sono i credenti. Contemporaneamente avverte che chi avrà disgregato la comunità, distogliendo i credenti dal Signore Gesù, sarà «distrutto da Dio».

 

Lettura del Vangelo secondo Giovanni (10,22-30)

 

In quel tempo. 22Ricorreva a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno. 23Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone. 24Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». 25Gesù rispose loro: «Ve l’ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. 26Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore. 27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».

 

Il testo evangelico è inquadrato nella grande festa celebrata alla fine di dicembre (v. 22) per fare memoria della dedicazione del Tempio di Gerusalemme (164 a.C.), l’ultima nella sua storia, a opera di Giuda Maccabeo vincitore su Antioco IV che lo aveva profanato (cfr. 2 Maccabei 5,15-20). A Gesù si avvicinano i Giudei, ovvero i capi del popolo a lui ostili, e lo sollecitano a rivelare la sua identità messianica per essi presunta (vv. 23-24). Nella sua risposta Gesù smaschera la loro incredulità nella quale perseverano pur avendo visto compiere da lui le opere che lo accreditano come il Messia e spiega questa loro incredulità con il fatto di non essere del numero delle sue pecore, di quanti cioè, lo seguono attirati a lui dal Padre (vv. 25-26). I vv. 27-28 si soffermano sul rapporto di Gesù con quanti credono in lui avendo ascoltato la sua voce e, per questo da lui conosciuti ossia ammessi a un rapporto di comunione personale e profonda con lui e, tramite lui, con il Padre. Rapporto questo designato dall’evangelista con la nota espressione «vita eterna». I vv. 29-30, infine, contengono parole di rivelazione su Dio, il Padre, a cui i credenti appartengono e che egli consegna al Figlio. Si sottolinea con ciò l’identità di azione tra Gesù e il Padre che sottintende una comune partecipazione alla condizione divina: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (v. 30).

 

Commento liturgico-pastorale

   

Mentre guardiamo al nostro Duomo in questa domenica riservata a celebrare l’annuale memoria del giorno della sua dedicazione a Dio, veniamo spinti interiormente ad andare oltre la meravigliosa bellezza che contemplano i nostri occhi e afferra i nostri cuori, per scorgere e ammirare in esso e tramite esso il vero edificio, il vero tempio santo di Dio che siamo tutti noi fedeli di questa nostra Chiesa ambrosiana (cfr. Epistola: 1Corinzi 3,17).

Lo stupore ammirato che proviamo guardando al nostro Duomo ci aiuta a comprendere anzitutto la bellezza e la grandezza indicibili della Chiesa del Cielo verso la quale camminiamo e che ora intravediamo appena.

In essa trova pieno compimento la parola profetica che annunzia la costruzione di una «città forte» (Lettura: Isaia 26,1) messa al riparo da mura possenti e splendide e tuttavia aperta e accogliente e nella quale abita la giustizia e la pace (Isaia 54, 14).

È la visione che il Veggente ha «nel giorno di domenica» e nella quale contempla la «città santa» che discende dal Cielo, viene cioè da Dio (Lettura: Apocalisse 21,10), costruita con materiale e perle preziose (vv. 19-21), identificata, con l’immagine delle dodici colonne poste a suo fondamento, nella Chiesa radunata dalla predicazione e dalla testimonianza degli Apostoli che non cessa di attirare nuovi popoli che trovano in essa gioiosa e pronta accoglienza, significata dalle dodici porte che si aprono da ogni lato sulle sue mura (cfr. vv. 13-14).

Attraverso queste immagini davvero formidabili della città santa viene manifestato il grandioso disegno divino di radunare tutte le genti nell’unica Chiesa, destinato a realizzarsi in pienezza quando non ci sarà più questo cielo e questa terra e, tuttavia, già in via di compimento attraverso la predicazione evangelica in ogni angolo di questo mondo che, con la grazia di Dio, muove ancora uomini e donne alla fede, alla conversione, per farne autentici “cittadini” della città celeste.

In essa, inoltre, non c’è alcun Tempio in quanto dimora perenne di Dio e dell’Agnello (v. 22), né c’è bisogno di luce di sole o di luna perché la divina presenza tutta la pervade e la illumina di splendore (v.23).

A questa Chiesa del Cielo, pertanto, ci indirizza anzitutto l’odierna solennità la quale, però, ci aiuta a comprendere l’attuale nostra condizione di “cittadini del Cielo”, ma ancora dimoranti nella “città terrestre”, non certo splendida, sicura e accogliente come quella del Cielo.

Non a caso ci viene presentata nell’Epistola paolina una serie di immagini della Chiesa più adatta alla nostra attuale condizione, per molti aspetti simile a quella della giovane e fragile comunità ecclesiale di Corinto attraversata da situazioni conflittuali tipiche di questo nostro mondo. L’Apostolo, infatti, paragona i credenti a un campo o a un edificio, specificando bene che entrambi sono di Dio (cfr. 1Corinzi 3,9), di  esclusiva sua proprietà e pertanto lui, Paolo, come del resto ogni ministro della Chiesa, non sono che semplici collaboratori di Dio. Lui solo, infatti, è capace di far fruttificare il suo campo e vuole che la sua casa, la sua dimora, il suo Tempio che è la Chiesa, sia incessantemente edificata su un unico fondamento: Cristo Signore!

Quello di collaboratore di Dio è il servizio che vediamo svolgere nella nostra Chiesa anzitutto dal Vescovo e dai sacerdoti e dai diaconi suoi primi aiutanti. È il servizio prestato da tanti fratelli e sorelle nel campo dell’annuncio evangelico, della catechesi, della carità. Essi dovranno sempre tenere presente che la comunità è di Dio e, pertanto, dovranno compiere il loro servizio ben ancorati a Cristo Signore e modellandosi in tutto sul suo agire.

Il brano evangelico, infine, ci propone l’immagine a noi familiare delle pecore che «ascoltano la voce del pastore» il quale le conosce ad una ad una ed esse così lo seguono con fiducia (cfr. Vangelo: Giovanni 10,27). Nell’immagine delle pecore radunate attorno al pastore pieno di premura e di amore per esse, è facile intravedere la comunità dei credenti che è tale proprio perché Dio Padre ha aperto i cuori all’ascolto della voce del suo Figlio, riconosciuto non solo come il Messia che fa le opere stesse di Dio, ma proprio come il Figlio che è «una cosa sola» con il Padre (v. 30).

A quanti credono in lui, il Signore riserva la sua premurosa attenzione donando a essi la vita eterna, che nell’Evangelo di Giovanni designa la partecipazione e la comunione fin da ora alla vita divina che unisce il Padre e il Figlio nell’unità dello Spirito Santo. Comunione che nulla e nessuno potrà spezzare (cfr. vv. 28-29).

La Chiesa, dunque, è il gregge del Signore e i fedeli le pecorelle che il Signore continua a radunare facendo udire a esse la sua voce in primo luogo attraverso il ministero del Vescovo. Egli, successore degli Apostoli, garantisce alla sua Chiesa la trasmissione della fede in tutta la sua purezza e integrità e, tramite il suo servizio sacerdotale, Gesù continua a donare e a far crescere nei  suoi la vita eterna che viene a noi partecipata quando ci accostiamo alla mensa eucaristica del suo Corpo e del suo Sangue.

Di tutto ciò si fa interprete l’orazione Dopo la Comunione che così ci invita a pregare: «Il popolo a te consacrato, o Dio vivo e vero, ottenga i frutti e la gioia della tua benedizione e, poiché ha celebrato questo rito festoso, ne riceva i doni spirituali».

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14 ottobre 2012


VII domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore


L’ultima domenica “dopo il martirio di San Giovanni il Precursore” intende additare nella Chiesa un riflesso autentico del Regno, preparando in tal modo i fedeli alla solennità della Dedicazione del Duomo, la prossima domenica.

 


Il Lezionario

 

Propone i seguenti brani biblici: Lettura: Isaia 43,10-21; Salmo 120 (121); Epistola: 1 Corinzi 3,6-13; Vangelo: Matteo 13,24-43. Nella Messa vigiliare del sabato viene letto Gv 20,19-23 come Vangelo della Risurrezione. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XXVIII domenica del Tempo «per annum» del Messale Ambrosiano).

 

Lettura del profeta Isaia (43,10-21)

 

10«Voi siete i miei testimoni – oracolo del Signore – / e il mio servo, che io mi sono scelto, / perché mi conosciate e crediate in me / e comprendiate che sono io. / Prima di me non fu formato alcun dio  / né dopo ce ne sarà. / 11Io, io sono il Signore, /  fuori di me non c’è salvatore. / 12Io ho annunciato e ho salvato, / mi sono fatto sentire / e non c’era tra voi alcun dio straniero. / Voi siete miei testimoni – oracolo del Signore – / e io sono Dio, / 13sempre il medesimo dall’eternità. / Nessuno può sottrarre nulla al mio potere: / chi può cambiare quanto io faccio?». / 14Così dice il Signore, / vostro redentore, il Santo d’Israele: / «Per amore vostro l’ho mandato contro Babilonia / e farò cadere tutte le loro spranghe, / e, quanto ai Caldei, muterò i loro clamori in lutto. / 15Io sono il Signore, il vostro Santo, / il creatore d’Israele, il vostro re». / 16Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare / e un sentiero in mezzo ad acque possenti, / 17che fece uscire carri e cavalli, /
esercito ed eroi a un tempo; / essi giacciono morti, mai più si rialzeranno, / si spensero come un lucignolo, sono estinti: / 18«Non ricordate più le cose passate, / non pensate più alle cose antiche! / 19Ecco, io faccio una cosa nuova: / proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? / Aprirò anche nel deserto una strada, / immetterò fiumi nella steppa. / 20Mi glorificheranno le bestie selvatiche, / sciacalli e struzzi, / perché avrò fornito acqua al deserto, / fiumi alla steppa, / per dissetare il mio popolo, il mio eletto. / 21Il popolo che io ho plasmato per me / celebrerà le mie lodi.»

Il brano si inserisce nel più ampio contesto dell’annunzio della volontà di Dio di riscattare il suo popolo in esilio a Babilonia. Qui, in particolare, Dio prende a testimone il popolo degli esiliati e il misterioso personaggio del “servo” che si è scelto, e nel quale è lecito vedere il Messia, di quanto da lui compiuto in loro favore come unico loro Dio. Lui solo è Dio, non vi sono altri dei. Lui solo, infatti, ha scelto e liberato il suo popolo (vv. 10-13). I vv. 13-15 alludono a Ciro, re di Persia, che concede agli esuli in Babilonia di tornare in patria. Nel fare ciò il re agisce sotto l’ispirazione divina che vuole la liberazione d’Israele. I vv. 16-21, infine, rappresentano l’annunzio delle nuove meraviglie che Dio vuole operare a favore del suo popolo, in continuità con quelle compiute nella liberazione dall’Egitto (vv. 16-17)  e il segno sarà del tutto inedito: la fioritura del deserto che significa, più in profondità, la trasformazione interiore del popolo.  

 

Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (3,6-13)

 

6Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere. 7Sicché, né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere. 8Chi pianta e chi irriga sono una medesima cosa: ciascuno riceverà la propria ricompensa secondo il proprio lavoro. 9Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio, edificio di Dio.
10Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un saggio architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento a come costruisce. 11Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. 12E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia,
13l’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno.

 

In questa sua lettera l’Apostolo risponde a domande e a situazioni particolari verificatesi nella giovane e turbolenta comunità cristiana di Corinto. Qui si affronta il problema del ruolo dei missionari del Vangelo che si sono succeduti nell’evangelizzazione e nella presidenza della comunità: Paolo che ha avviato la comunità stessa e Apollo che si è impegnato per renderla più solida nella fede (v. 6). Essi sono semplici servi e collaboratori di Dio il quale, soltanto, è in grado di far crescere nei cuori l’adesione di fede al Vangelo (vv. 7-9). Inoltre il predicatore del Vangelo deve stare ben attento a come costruisce l’edificio di Dio che è la Chiesa, tenendo presente che il fondamento su cui essa si regge è Gesù Cristo (vv. 10-13).

 

Lettura del Vangelo secondo Matteo (13, 24-43)

 

In quel tempo. Il Signore Gesù 24espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. 25Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. 27Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. 28Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. 29“No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. 30Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponételo nel mio granaio”».

31Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami». 33Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».
34Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, 35perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Aprirò la mia bocca con parabole, / proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo».

36Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». 37Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. 38Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno 39e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. 40Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. 41Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità 42e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».

 

Il brano evangelico oggi proclamato riporta tre delle “parabole del regno” che occupano l’intero tredicesimo capitolo. Si tratta della parabola della zizzania (vv. 24-30) che Gesù stesso spiega ai suoi discepoli una volta congedata la folla ed entrato «in casa», allusione, questa, alla Chiesa, la Comunità del Signore (vv. 36-43), della parabola del grano di senape (vv. 31-32) e di quella del lievito (v. 33). L’evangelista non manca di spiegare perché Gesù si serva del linguaggio parabolico per parlare alle folle del regno di Dio mediante il ricorso alla citazione del Salmo 78,2 (vv. 34-35).

 

 

 

Commento liturgico-pastorale

 

L’immagine del Regno, di cui parlano le tre parabole del testo evangelico odierno, appartiene di per sé alla dimensione terrena, ma riceve un significato nuovo in quanto Gesù la assume per indicare la piena e definitiva sovranità di Dio sul mondo e sulla storia.

Di conseguenza, occorre andare oltre la categoria mondana e ben nota del regno e, a questo, provvede Gesù stesso ricorrendo al linguaggio parabolico. Egli infatti paragona il regno dei cieli «a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo» (Vangelo: Matteo 13,24). In quel seminatore riconosciamo Gesù stesso (v. 37) che nella sua esistenza terrena ha seminato il buon seme della sua Parola e della sua stessa vita come autentici “germogli” del regno destinato a manifestarsi in pienezza alla fine del mondo ossia nell’ora della sua parusia ovvero del suo secondo e definitivo ritorno per il giudizio (cfr. v. 30).

Gesù, dunque, nel mistero della sua incarnazione, morte, risurrezione e ritorno glorioso alla fine dei tempi “è” il regno dei cieli piantato come buon seme nel campo che è il mondo e, in esso, l’intera umanità. Esso, però, e quanti accogliendo il seme della sua Parola sono diventati a loro volta buon seme, deve fare i conti con un altro seme, quello della zizzania, un’erbaccia nella quale Gesù vede raffigurati i figli del Maligno intenti a impedire e a soffocare la crescita del seme buono dei credenti (v. 38). Nella zizzania sono raffigurati coloro che si lasciano sedurre dalla predicazione mondana che si oppone risolutamente a quella evangelica e vivono nell’incredulità e nella ricerca egoistica di sé che genera nell’uomo ogni sorta di male e di peccato.

Il messaggio altamente positivo che questa domenica fa risuonare al nostro cuore è che la semina del buon seme è fruttificata nella vita di tanti uomini e donne che, lungo i secoli, hanno accolto il Vangelo predicato da un’infinita serie di collaboratori di Dio e, a ragione, perciò, sono anche chiamati “campo di Dio” ed “edificio di Dio” (Epistola: 1 Corinzi 3,9).

Il campo e l’edificio di Dio, lo sappiamo, è la Chiesa, la comunità piantata e irrigata dai suoi collaboratori quali, in primo luogo, gli Apostoli e, dopo di essi, i Vescovi loro successori, e tutti i Missionari del Vangelo. Ma è Dio stesso a edificarla sul fondamento che è Gesù Cristo (v. 11) e a farla crescere e prosperare. Essa sa di essere, per grazia, un riflesso del regno dei cieli, ma è ben consapevole di dover  vivere e di svilupparsi in questo mondo accanto e insieme alla zizzania. La Chiesa, inoltre, sa di portare in sé la presenza autentica del regno ma nella consistenza di un granello di senape che «è il più piccolo di tutti i semi» (Matteo 13,32) o di una piccola porzione di lievito mescolato «in tre misure di farina» (v. 33).

Questa lezione che viene direttamente dalla bocca del Signore Gesù insegna alla sua comunità a ritenersi in effetti un germoglio del Regno, ma umile e piccolo e, perciò, tanto autentico quanto sa svilupparsi con pazienza accanto alla zizzania senza la tentazione di sostituirsi a Dio nel giudizio su di essa (cfr. vv. 28-30)!

In tal modo la comunità del Signore fa intravedere all’umanità e alla storia la novità profeticamente annunciata: «Ecco, io faccio una cosa nuova» (Lettura: Isaia 43,19) e già riscontrabile  proprio in essa, irrigata e dissetata dal fiume della Parola divina capace di far fiorire il deserto che è questo mondo arido, violento, pericoloso e addirittura di trasformare la zizzania in buon grano da riporre nei granai del cielo e, dunque, di fare dell’intera umanità il “suo” popolo, quello “eletto”, perché canti le sue lodi (cfr. vv. 20-21).

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7 ottobre 2012


7 ottobre 2012 - VI domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore

 

Celebra la grandezza di Dio che, per pura grazia, chiama incessantemente, da tutti i popoli e da ogni condizione di vita, uomini e donne, a divenire “discepoli” del Regno inaugurato in terra dal suo Figlio, il Signore Gesù.

 

Il Lezionario

 

Riporta i seguenti brani biblici: Lettura: Isaia 45,20-24a; Salmo 64 (65); Epistola: Efesini 2,5c-13; Vangelo: Matteo 20,1-16. Nella Messa vespertina del sabato, il Vangelo della Risurrezione è preso da Luca 24,13b.36-48. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XXVII domenica del Tempo «per annum» del Messale Ambrosiano).

 

Lettura del profeta Isaia (45,20-24a)

 

Così dice il Signore Dio: / «20Radunatevi e venite, / avvicinatevi tutti insieme, / superstiti delle nazioni! / Non comprendono quelli che portano / un loro idolo di legno / e pregano un dio / che non può salvare. / 21Raccontate, presentate le prove, / consigliatevi pure insieme! / Chi ha fatto sentire ciò da molto tempo / e chi l’ha raccontato fin da allora? / Non sono forse io, il Signore? / Fuori di me non c’è altro dio; / un dio giusto e salvatore / non c’è all’infuori di me. / 22Volgetevi a me e sarete salvi, / voi tutti confini della terra, / perché io sono Dio, non ce n’è altri. / 23Lo giuro su me stesso, / dalla mia bocca esce la giustizia, / una parola che non torna indietro: / davanti a me si piegherà ogni ginocchio, / per me giurerà ogni lingua». / 24Si dirà: «Solo nel Signore / si trovano giustizia e potenza!».

 

I versetti oggi proclamati fanno seguito alla dichiarazione riguardante la bontà della creazione voluta da Dio (vv. 18-19) e contengono l’invito rivolto ai popoli a ritornare a lui, la contestazione del culto idolatrico e la riaffermazione della sua unicità. Lui solo, al contrario degli idoli, è un Dio «giusto e salvatore» (vv. 20-21), in grado cioè di agire efficacemente in favore di chi crede in lui. Per questo invita tutte le genti a volgersi a lui, fedele alla sua parola e nel recare salvezza (vv. 22-24a).

 

Lettera di san Paolo apostolo agli Efesini (2,5c-13)

 

Fratelli, 5cper grazia siete salvati. 6Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, 7per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù.

8Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; 9né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. 10Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo.

11Perciò ricordatevi che un tempo voi, pagani nella carne, chiamati non circoncisi da quelli che si dicono circoncisi perché resi tali nella carne per mano d’uomo, 12ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo. 13Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo.

 

L’Apostolo sta mettendo in luce il risultato concreto della salvezza ottenuta come grazia gratis data e che fa partecipi, fin da adesso, i credenti del contenuto salvifico proprio della risurrezione e dell’esaltazione del Signore Gesù alla destra di Dio (v. 5c-6), ovvero della sua Pasqua. In ciò si manifesta la bontà divina che, in Gesù, offre salvezza come dono al di là di ogni merito e dà la possibilità di compiere le stesse opere del suo Figlio a lui gradite (vv. 7-10). Nei vv. 11-13 l’Apostolo evidenzia la condizione miserabile dei «pagani nella carne», ossia dei non appartenenti al popolo di Dio, dalla quale, «grazie al sangue di Cristo», sono stati tratti per poter partecipare anch’essi alla promessa fatta a Israele.

 

Lettura del Vangelo secondo Matteo (20,1-16)

 

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «1Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. 2Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. 3Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, 4e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. 5Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto. 6Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. 7Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.

8Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e da’ loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. 9Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. 10Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. 11Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone 12dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. 13Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? 14Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: 15non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. 16Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

 

Il brano evangelico, introdotto dalla formula: «Il regno dei cieli è simile a» (v. 1a), riporta una delle parabole più avvincenti relative al Regno! Il racconto, nella sua prima parte (vv. 1b-7), è chiaramente imperniato sulle prime quattro uscite del padrone della vigna per assumere operai con i quali concorda un congruo compenso per il lavoro svolto (vv. 1b-5) e su una quinta e ultima uscita intorno alle cinque del pomeriggio, dunque a giornata lavorativa quasi conclusa, senza però concordare il compenso (vv. 6-7). La seconda parte (vv. 8-15) è introdotta dalla connotazione temporale: «venuta la sera» e dall’ordine impartito dal padrone al suo amministratore di effettuare il pagamento degli operai «cominciando però dagli ultimi» (vv. 8-9). Il v. 12 registra la protesta degli operai della prima ora nel constatare di essere pagati come quelli che «hanno lavorato un’ora sola». I vv. 13-15 riportano la risposta del padrone che rende ragione del suo operato apparentemente ingiusto e nel quale, in verità, si cela l’agire di Dio sorprendentemente buono e generoso con tutti specialmente se considerati ultimi e peccatori . Viene in tal modo superato il concetto di giustizia concepito come precisa corrispondenza tra diritti e doveri. Non è così presso Dio! Il brano si conclude al v. 16 con la nota riguardante la classificazione di primi e ultimi agli occhi di Dio.

 

Commento liturgico-pastorale

 

In questa domenica le divine Scritture tracciano un profilo del discepolo del Signore chiamato da tutti i popoli e da tutte le culture, come afferma il testo profetico, e a «tutte le ore», come intendiamo dalla parabola evangelica.

Con ciò è evidente la gratuità totale della nostra chiamata, dalla miseranda nostra condizione di “pagani” a seguire il Signore come insegna l’Epistola paolina! Ed è proprio la gratuità inspiegabile della grazia divina all’origine dell’appello rivolto ai «superstiti delle nazioni» a volgersi a Dio per ottenere salvezza (Lettura: Isaia 45,20).

Una gratuità che è rivelata in pienezza e definitivamente dal Signore Gesù che manifesta un Dio non legato a schemi mondani del merito e della ricompensa, ma assolutamente disposto a fare grazia, a offrire la sua salvezza a tutti con particolare preferenza per quanti, dal citato schema mondano, sono considerati immeritevoli e, dunque, esclusi.

Gesù chiede a tutti noi di accogliere Dio così com’è: buono! (v. 15) rifuggendo da ogni tentativo di avere qualcosa da rivendicare davanti a lui e dal covare risentimento nell’animo per il suo agire umanamente incomprensibile.

È una lezione imparata personalmente dall’Apostolo e che egli non cessa di impartire nelle sue Lettere, quella che vede i «senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio» (Epistola: Efesini 2,12), vale a dire la moltitudine dei popoli pagani ritenuti «lontani» e ora «diventati vicini grazie al sangue di Cristo» (v. 13) e dunque pienamente partecipi della salvezza operata nella sua Pasqua (v. 6).

È la lezione che nessuno di noi può e deve dimenticare. Al contrario, in questi nostri giorni attraversati da tanta incertezza e inquietudine, occorre annunciare con gioia la grandezza del nostro Dio che fa di tutto per mostrare, fino alla fine dei secoli, la «straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù» (v. 7).

Via da noi, pertanto, quella mentalità tanto cara al nostro modo di vedere le cose e che vorrebbe persino “regolare” l’agire di Dio costringendolo nei nostri schemi. Deve essere a tutti chiaro che nessun uomo può reclamare qualcosa o pensare di avere qualche credito da vantare davanti a lui. Il fatto di essere stati chiamati alla fede , a far parte della Chiesa e, perciò, a divenire “candidati” del Regno, non è frutto dei nostri meriti ma dono esclusivo di Dio. Un dono che egli vuole partecipare al maggior numero di uomini perché frutto nientemeno che del sangue del suo Figlio, nel quale brilla la sua bontà che lo porta a essere generoso con tutti e specialmente con quanti secondo i criteri umani di giudizio non sono meritevoli di ciò.

Tocca alla Chiesa perseverare nell’incessante gioiosa proclamazione della bontà di Dio che apre a tutti le porte del suo Regno. Si realizzerà così il desiderio profondo del cuore paterno di Dio svelato dalla parola profetica: «Volgetevi a me e sarete salvi, voi tutti i confini della terra» (Isaia 45,22). Per questo, prima di accostarci alla mensa eucaristica che annunzia quella del Regno, abbiamo così pregato: «Annunzierò, o Dio, le tue gesta mirabili, gioisco in te ed esulto, canto inni al tuo nome, o Altissimo» (Canto Allo Spezzare del Pane).

 

 

 

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In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO AMBROSIANO, curata da don Alberto Fusi.

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