17 feb
Il tre maggio (1808 - 1814), opera di Francisco Goya, Madrid, Prado.
"Non ti vendicherai né coverai rancore contro i figli del tuo popolo. Amerai, invece, il tuo prossimo come te stesso".
(Levitico 19,18)
«Si parla sempre del fuoco dell’inferno.L’inferno è freddo... L’inferno è non amare più». Ho intrecciato due frasi tratte da romanzi diversi dello scrittore cattolico francese Georges Bernanos (1888-1948) per introdurre uno degli appelli biblici più citati. Nella nostra ormai vasta raccolta di frammenti delle Sacre Scritture non poteva, infatti, mancare questo passo che nel suo apice – in ebraico we’ahavtà lere’akà kamôk, «amerai il prossimo tuo come te stesso» – era caro anche a Gesù che lo cita due volte (Matteo 5,48; 22,39), ricordando che è il «secondo comandamento, simile al primo», quello dell’amore per Dio, entrambi fondamento di «tutta la Legge e i Profeti». Su questa scia continuerà san Paolo quando ammonirà che tutti i comandamenti della Legge «si riassumono in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Romani 13,9), dopo aver ribadito ai Galati che «tutta la Legge trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (5,14).
Potremmo continuare a lungo nell’elencare quanti hanno trovato in questo precetto l’anima autentica della morale biblica e la sorgente della vera spiritualità.
Per stare ancora alla Bibbia, ricorderò solo la dichiarazione lapidaria
di san Giacomo: «Se adempite il più importante dei comandamenti secondo
la Scrittura: Amerai il prossimo tuo come te stesso, fate bene» (2,8).
Vorrei, invece, fare solo due note sul versetto del Levitico (ossia dei
sacerdoti, i figli di Levi, il terzo libro della Bibbia). In esso,
innanzitutto, si parla esplicitamente dei «figli del tuo popolo», cioè
di Israele. L’impegno dell’amore è, quindi, circoscritto a un orizzonte
preciso, quello della comunità ebraica.
Sappiamo, però, che già i profeti allargheranno questo spazio, invitando a condividere l’amore di Dio per tutte le sue creature:
«Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e
Israele mia eredità» (Isaia 19,25). E i sapienti biblici ricorderanno
che il Signore «ha compassione di tutti… e ama tutte le cose esistenti e
nulla disprezza di quanto ha creato perché, se avesse odiato qualcosa,
non l’avrebbe neppure creata» (Sapienza 11,23-24). Le frontiere saranno abbattute ulteriormente nel cristianesimo
allorché Gesù, commentando proprio il passo del Levitico, presenterà
un’applicazione quasi provocatoria, introducendo anche l’amore per il
nemico e giungendo così alla radice ultima del precetto
anticotestamentario: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri
persecutori» (Matteo 5,44). Il “prossimo” ora è divenuto veramente
l’altro, chiunque e comunque egli sia, un altro che tu trasformi in un
“io” che è come te stesso.
Una seconda nota sull’appello “levitico”. In apertura esso evoca due
realtà antitetiche all’amore: la vendetta e il rancore. A incarnare
nella sua forma estrema questo antipodo della carità è Lamek, il
discendente di Caino che minaccia così: «Uccido un uomo per una mia
scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato
Caino, ma Lamek settantasette» (Genesi 5,23-24). È il canto selvaggio
della vendetta a spirale, della zampata bestiale che gode del sangue
versato, della logica distruttrice della guerra che ignora ogni prossimo
in un empito insaziabile di odio per il nemico. Risuona, allora, per
contrasto l’ideale nuova applicazione del comandamento del Levitico nelle parole che Cristo rivolge a Pietro
che chiedeva: «Quante volte devo perdonare al mio fratello, se pecca
contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù replica: «Non ti dico fino a
sette, ma fino a settanta volte sette!» (Matteo 18,21-22).
Pubblicato il 17 febbraio 2011 - Commenti (0)
10 feb
Offerta di Caino e Abele, maestro Bertram (1340-1415), altare maggiore, chiesa di San Pietro (Amburgo), Hamburger Kunsthalle
"Se stai per presentare la tua offerta all’altare, e là ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia là il tuo dono, davanti all’altare, e va’ prima a riconciliarti col tuo fratello.
Poi torna a offrire il tuo dono."
(Matteo 5,23-24)
La processione dei fedeli sta per accedere al tempio di Sion per offrire i sacrifici
rituali. Alla porta d’ingresso, ecco un
levita che proclama una serie di condizioni
prerequisite per poter essere ammessi al culto.
Quali erano queste clausole di ammissione?
Norme di purità esteriore con abluzioni,
come accadeva in molti templi dell’antichità
o come avviene con le fontane che precedono
le moschee? Prescrizioni sull’abbigliamento,
come leggiamo oggi sui cartelli posti davanti
alle nostre cattedrali o chiese storiche? Anche
l’antica raccolta delle tradizioni giudaiche, il
Talmud, ammoniva che «non si deve salire
sul monte del tempio con le scarpe, né con la
borsa, né con la polvere sui piedi e non si deve
sputare per terra».
Ecco, invece, l’elenco di coloro che sono ammessi
al tempio secondo quel levita: «Chi cammina
con moralità, chi pratica la giustizia,
chi dice la verità dal cuore, chi non ha calunnia
sulla lingua, chi non fa del male al suo
prossimo, chi non insulta il suo vicino, chi
considera spregevole il perverso e onora colui
che teme il Signore, chi non ha esitazioni, anche
se ha giurato a suo danno (nel mantenere
la parola data), chi non presta denaro a usura,
chi non si lascia corrompere contro l’innocente!
». A questo punto ecco la conclusione: «Chi
agisce così, sarà stabile per sempre» e quindi
starà sulla rupe solida del tempio, simbolo
della potenza salvatrice di Dio.
Abbiamo sceneggiato il testo del Salmo
15, perché esso è in qualche modo l’antefatto
del frammento che abbiamo proposto ritagliandolo
da quel fondamentale “Discorso
della Montagna”, considerato – forse un po’
eccessivamente – la “Magna Charta” del cristianesimo
(in verità, nel cuore del messaggio
cristiano si devono porre anche e soprattutto
l’Incarnazione e la Pasqua di Cristo).
Gli studiosi della Bibbia hanno classificato
il Salmo 15 e altri passi analoghi come una
“liturgia d’ingresso” ed è facile capirne il
motivo. L’ingresso al culto è aperto solo se si
ha la coscienza pura e onesta. Anche noi iniziamo
la Messa con l’atto penitenziale in cui
ci riconosciamo peccatori davanti a Dio e ai
nostri fratelli.
I fratelli sono, appunto, al centro del passo
matteano che stiamo considerando. Immaginiamo
allora due fratelli. Uno sta per entrare
nel tempio a pregare e a fare la sua offerta
sacrificale o a partecipare all’Eucaristia. L’altro
fratello è in città: tra i due c’è stata una lite
violenta e non si parlano più, anzi, si detestano.
Il primo sa di questa tensione e vorrebbe
quasi ignorarla. Ecco, però, la voce di Gesù:
lascia lì dono e offerta, rientra in città e
bussa alla porta di tuo fratello e cerca di riconciliarti
con lui. Tutto questo è emblematicamente
rappresentato oggi in un gesto liturgico
divenuto ormai abitudinario e scontato,
quello dello scambio di pace prima di ricevere
l’Eucaristia.
Più significativo al riguardo è il rito ambrosiano
della Chiesa di Milano che pone tale gesto
prima dell’offertorio con questa esortazione:
«Secondo l’ammonimento del Signore,
prima di presentare i nostri doni all’altare,
scambiamoci un segno di pace». Come insegnavano
i profeti, la liturgia senza la vita giusta,
il rito senza la giustizia, la preghiera senza
l’amore sono sgraditi a Dio e rischiano di
essere una farsa. Era ancora Gesù che ripeteva:
«Quando vi mettete a pregare, se avete
qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché
anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a
voi i vostri peccati» (Marco 11,25).
Pubblicato il 10 febbraio 2011 - Commenti (0)
06 feb
La vedova (1941), opera di Italo Valenti, Firenze, Raccolta della Ragione
"Voi tutti che passate per la via, considerate se c’è un dolore simile al mio, al dolore che ora
mi tormenta: il Signore mi ha afflitta nel giorno della sua ira ardente."
(Lamentazioni 1,12)
Nel 1958 il grande musicista russo Igor Stravinskij elaborava una composizione per coro e orchestra intitolata Threni, un termine greco che significa “Lamentazioni”. Infatti, alla base di quell’opera c’era la raccolta di cinque elegie che la tradizione ha attribuito a Geremia e che sono entrate nella Bibbia proprio dopo il libro di quel profeta.
Si tratta di poemetti di tragica bellezza e di straordinaria intensità al cui centro risalta Gerusalemme, la città santa devastata dalle truppe del re babilonese Nabucodonosor nell’anno 586 a.C. Essa è raffigurata come una vedova sconsolata che lancia al cielo l’eterno interrogativo dei sofferenti (che è anche la prima parola ebraica della prima Lamentazione e che ha dato il titolo dell’intera raccolta secondo la tradizione giudaica): ’ekah, “come mai?”.
La vedova Gerusalemme si rivolge sia al Dio giudice inesorabile sia agli spettatori perché
entrambi abbiano compassione e donino conforto. Ma – come si intuisce nel frammento da noi evocato e suggerito amo’ di invito alla lettura integrale di questi gioielli di poesia e di umanità – le cinque Lamentazioni sono anche un’accorata meditazione sulla causa ultima di quella tragedia, ossia sul peccato umano e sul giudizio divino.
Non sono stati, allora, i Babilonesi a incendiare e a massacrare. In azione, attraverso le loro mani, era Dio stesso simile a un vendemmiatore che pigia l’uva della vigna d’Israele, spremendone sangue: «Il Signore ha pigiato nel torchio la vergine figlia di Giuda» (1,15).
Si apre, quindi, idealmente uno squarcio nelle mura della cittadella misteriosa del dolore. Certamente, questa non può essere l’unica soluzione di fronte a un tema così vasto e misterioso. Tuttavia, è indubbio che un’ampia fetta di sofferenza dell’umanità nasce dalle ingiustizie perpetrate da molti. Il dono della libertà si rivela spesso come un ordigno che è tra le nostre mani ed esplode ferendo noi e gli altri. Ma rimane nell’analisi di queste pagine bibliche crude un altro sapore in bocca al lettore ed è quello dell’amore per le proprie radici, che si rinvigoriscono proprio nel giorno della prova. Sion «piange amaramente nella notte, le lacrime rigano le sue guance. Nessuno la consola fra tutti i suoi amanti. Tutti i suoi amici l’hanno tradita, le sono divenuti nemici» (1,2). Il linguaggio amoroso serve non solo a definire gli antichi alleati che hanno tradito, ma anche il tradimento stesso di Israele che era andato a cercare divinità straniere, inquinando la sua
religiosità, avvelenando la sua stessa identità culturale e spirituale.
«Per questo», continua, allora, la vedova Gerusalemme, «piango e dal mio occhio scorrono lacrime, perché lontano da me è chi consola, chi potrebbe ridarmi la vita», cioè il Signore, la sorgente della vita e della speranza (1,16). Essa protende le mani, abbattuta nella polvere, e grida: «Guarda, Signore, quanto sono in angoscia!» (1,20). La domanda finale che suggella la quinta e ultima Lamentazione lascia aperta la via all’attesa, pur nello scoramento: «Ci hai forse rigettati per sempre, e senza limite sei sdegnato contro di noi?» (5,22). Ma questa stessa frase è da alcuni studiosi resa in modo affermativo: «Non ci hai rigettati per sempre e non sei sdegnato con noi sino alla fine». La fiammella della speranza rimane, dunque, sempre accesa.
Pubblicato il 06 febbraio 2011 - Commenti (0)
28 gen
Trasfigurazione, opera di Giovanni Battista Paggi (1554-1627), Firenze, San Marco.
"Io sono la luce del mondo. Chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita."
(Giovanni 8,12)
A Gerusalemme si stava celebrando la festa autunnale delle Capanne, in ebraico sukkôt, commemorazione della lunga peregrinazione del popolo ebraico nelle lande assolate e desolate del deserto del Sinai, mentre cercava di avvicinarsi alla terra di Canaan, la meta dell’esodo dall’oppressione egiziana.
Anche Gesù è in città e partecipa in mezzo alla folla alle celebrazioni del tempio. Uno di questi riti comprendeva l’accensione a sera di grandi falò sulle mura e negli spazi urbani maggiori, così che Gerusalemme in quelle notti era quasi avvolta in un’onda luminosa che squarciava le tenebre.
All’improvviso Gesù – che già nei giorni precedenti (la festa durava una settimana) aveva proclamato a gran voce alcune dichiarazioni destinate a insospettire le autorità religiose fino a spingerle a un tentativo d’arresto – leva ora alta la sua parola.
Si crea silenzio nell’uditorio. Egli, prendendo spunto proprio da quelle fiamme che si innalzano nel cielo stellato d’Oriente, si presenta in modo sorprendente e sconcertante come «la luce del mondo». È noto che, in tutte le culture religiose, la luce è un simbolo di Dio perché riesce a esprimere nettamente due qualità specifiche del divino che i teologi chiamano la trascendenza e l’immanenza.
Da un lato, infatti, la luce è esterna a noi, non la possiamo prendere tra le mani e strappare o dominare, ci “trascende”, ossia ci supera, è “altra” e diversa rispetto a noi, rappresentando quindi il mistero e la distanza che intercorre tra noi e Dio. D’altro lato, però, essa ci avvolge, ci rivela, ci riscalda, ci fa vivere ed è perciò “immanente”, cioè rimane con noi e dentro di noi, raffigurando in tal modo la vicinanza della divinità alle sue creature.
Ecco, allora, giustificati la sorpresa e lo sconcerto che l’affermazione di Gesù suscita tra i presenti: non dimentichiamo che sarà lo stesso Giovanni, nella sua Prima Lettera, a definire Dio proprio così, «luce e in lui non ci sono tenebre» (1,5). L’appello diventa provocatorio: Gesù invita a non guardare più a quelle alte fiamme luminose che brillano nella notte gerosolimitana, ma a cercare un’altra luce che permette di non vivere più sotto l’incubo delle tenebre spirituali. Come è noto, infatti, l’oscurità è il regno del delitto, del vizio, del male: «Quando non c’è luce, si leva l’omicida per assassinare poveri e inermi. Di notte s’aggira il ladro col volto incappucciato e l’occhio dell’adultero spia l’arrivo del tramonto pensando: Nessun altro occhio mi vedrà! Nelle tenebre si forzano le case» (Giobbe 24,14-16).
Per questo, Cristo si definisce anche come «la luce della vita». La sua è una presenza che indica il percorso morale che conduce alla vera vita, che non è soltanto quella fisica, come non è soltanto corporea la vista che poco tempo dopo egli offrirà al cieco nato. Infatti, il racconto del successivo capitolo 9 del Vangelo di Giovanni non approderà soltanto alla gioia di chi riesce finalmente a vedere la luce e i colori della natura, ma anche alla meta di chi potrà proclamare la sua professione di fede in Gesù Cristo, luce della sua vita: «Credo, Signore! E gli si prostrò innanzi» (9,38).
E allora anche tutti noi, «se camminiamo nella luce, come Dio è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri» nell’amore (1Giovanni 1,7).
Pubblicato il 28 gennaio 2011 - Commenti (0)
23 gen
Maestro di scuola del Nuovo Mondo, opera di Diego Rivera, murales, 1928, Città del Messico
"Mi guardai attorno: ed ecco non c’era nessuno, nessuno che fosse capace di consigliare, nessuno da interrogare per
avere risposta." (Isaia 41,28)
Avrà pure un significato il fatto che uno dei doni dello Spirito Santo sia proprio il “consiglio”, ossia la guida offerta alla ricerca, alla domanda, all’attesa umana. Non per nulla il crescere del bambino avviene attraverso una batteria di domande che egli scatena nei confronti dell’adulto perché lo aiuti a decifrare il senso della realtà.
Similmente la scienza si regge e si sviluppa proprio sulla base di interrogativi ai quali si cerca di dare risposta. Ed è sempre nella stessa linea che si spiegano quei “Perché?” angosciati che i sofferenti lanciano verso il cielo, in attesa di un’indicazione di significato che giustifichi tanta amarezza e l’apparente assurdità del dolore.
La missione dell’educatore è, pertanto, indispensabile, come lo è quella del padre, del maestro, del sapiente, del sacerdote, del consigliere, del direttore spirituale e così via. Egli, certo, non deve sostituirsi al discepolo o al figlio, ma aiutarlo a inoltrarsi sui sentieri della vita, del pensiero e dell’azione.
Giustamente un famoso pensatore politico francese, Montesquieu (1689-1755), ammoniva lo scrittore che «non bisogna mai esaurire un argomento al punto tale che al lettore non resti nulla da fare. Non si tratta di far leggere ma di far pensare», vale a dire ricercare e proseguire in proprio, per cui il motto del vero “consigliere” dovrebbe essere quello del Battista: «Bisogna che lui, Cristo [nel nostro caso, il discepolo o il figlio], cresca e che io diminuisca» (Giovanni 3,30).
Questa lunga premessa ci introduce nel frammento suggestivo che abbiamo proposto, estraendolo da una delle prime pagine di quel profeta anonimo del VI secolo a.C., il cui scritto è entrato nei capitoli 40-55 del libro del grande Isaia e per questo è stato denominato il Secondo Isaia.
Egli sta puntando l’indice contro una piaga costante di Israele, quella dell’idolatria. Il fascino di una religiosità più accomodante non può cancellare il vuoto che essa lascia nell’anima. Agli idoli il profeta indirizza questa accusa implacabile: «Voi siete un nulla, la vostra opera non vale niente... Vento e vuoto sono gli idoli» (41,24.29). In particolare essi non sono in grado di indicare un percorso, non sanno certo annunziare il futuro, aprendo prospettive verso le quali orientare l’impegno presente. Essi appunto non possono né consigliare né guidare, non sanno proporre scelte giuste né esortare al bene, incitare, incoraggiare gli infelici.
Per questo, il Secondo Isaia fa balenare un vuoto che è segno dell’abbandono da parte del vero Dio nei riguardi dell’umanità: l’assenza dei profeti autentici, che sono le guide, quasi le fiaccole che conducono nelle tenebre verso una meta di salvezza, evitando i precipizi. È un po’ il ritratto dei nostri giorni, privi di padri e di maestri, tempi nei quali ci si lascia catturare dalla propaganda e dalla pubblicità, dai luoghi comuni e dalla deriva della massa. Scriveva san Paolo al suo discepolo Timoteo: «Verrà giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dar ascolto alla verità per volgersi alle favole» (2Timoteo 4,3-4).
Pubblicato il 23 gennaio 2011 - Commenti (0)
09 gen
Ecce Homo, Antonello da Messina (1430 ca.-1479), Novara, Broletto.
"Il mio Servo non griderà né urlerà, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà la canna incrinata, né spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta. "
(Isaia 42,2-3)
Entra in scena presentato da Dio stesso. Non ha un nome, né una genealogia,ma soltanto un titolo, Servo, in ebraico’ebed, che non è indizio di inferiorità, ma espressione di una dignità, diremmo noi, quasi di ministro. Egli appare all’improvviso in un capitolo, il 42, del libro di Isaia: siamo in quelle pagine – che vanno dal capitolo 40 al 55 – assegnate dagli studiosi a un autore diverso rispetto al grande profeta dell’VIII secolo a.C. e che è stato denominato convenzionalmente “il Secondo Isaia”.
Costui era vissuto nel momento arduo ed esaltante del VI secolo a.C., quando il re di Persia, Ciro, spazzato via l’impero babilonese, aveva concesso a Israele di ritornare dall’esilio alla terra dei padri.
La domanda è ora spontanea: chi è questo personaggio che sale alla ribalta in quattro
canti incastonati nei capitoli 42; 49; 50 e 53 del rotolo profetico di Isaia? Tante sono le
identificazioni tentate, sia individuali (un profeta? Geremia? Mosè? Un maestro di sapienza?), sia collettive (Israele stesso, oppure gli Ebrei fedeli che ora stanno per rimpatriare?). Proprio perché soprattutto nell’ultimo dei quattro canti il volto del Servo è segnato dai tratti della sofferenza e la sua è una missione sacrificale, la tradizione cristiana non ha avuto esitazione nell’intravedere in quella figura i tratti del Messia, naturalmente applicati al Cristo della passione, morte e risurrezione.
Noi ora fissiamo lo sguardo su uno dei primi lineamenti di quel Servo che potremmo
riassumere in una parola: la mitezza. Sembra, infatti, di sentire già echeggiare l’appello
di Gesù: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete
il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore. Il mio giogo
è, infatti, dolce e il mio carico leggero» (Matteo 11,28-30). Tre sono le immagini che descrivono la mitezza del Servo.
Innanzitutto la sua non è la voce potente e inquietante degli antichi profeti: il suo è, in
verità, un annunzio di liberazione e di salvezza, non di giudizio e di condanna. Egli non
punta l’indice nella piazza contro le ingiustizie, ma con pazienza passa quasi di casa in casa per convincere e convertire.
Ecco, allora, gli altri due simboli suggestivi e trasparenti: la canna incrinata non è da lui
gettata via, ma riaggiustata e riutilizzata; lo stoppino che sta sfrigolando e crepitando
perché senza olio non viene brutalmente spento, ma di nuovo alimentato perché ritorni
a sfavillare. È un atto d’amore nei confronti di ciò che sembra destinato alla rovina. È
quell’andare in cerca della pecora perduta, è quell’abbracciare il figlio smarrito e ritornato a casa, è quell’atteggiamento che Gesù costantemente testimonierà con le sue parole e le sue azioni.
Pubblicato il 09 gennaio 2011 - Commenti (0)
26 dic
Padre e figlia, 1550 circa, autore ignoto, Vienna, Kunsthistorisches Museum.
"Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto! Padri, non esasperate i vostri figli, ma fateli crescere nella disciplina e negli insegnamenti del Signore!"
(Efesini 6,1.4)
Il grande scrittore russo Lev Tolstoj, nel suo monumentale romanzo Anna Karenina
(1875-1877), ha lasciato una frase curiosa ma significativa: «Le famiglie felici si assomigliano tutte, le famiglie infelici sono infelici ciascuna a modo suo». Chi ha letto quel libro sa che in esso si scava in profondità nei drammi della coppia, in particolare quella di Anna e Vronskij, con un esito tragico perché l’approdo sarà nel suicidio della Karenina.
Le famiglie molto spesso trascinano con sé un travaglio che non è riducibile a semplici
schemi psicologici e sociologici, soprattutto nel rapporto generazionale tra padri e figli
(tra l’altro, esemplare in questo senso è un celebre romanzo di un altro scrittore russo
contemporaneo di Tolstoj, Padri e figli di Ivan S. Turgenev).
Anche san Paolo, nelle sue Lettere, ci ha lasciato quelli che gli esegeti hanno chiamato
“codici familiari”, presenti in particolare nel capitolo 3 della Lettera ai Colossesi e nei capitoli 5-6 dello scritto indirizzato agli Efesini. È da quest’ultimo che abbiamo desunto il nostro frammento, un bell’esempio di morale domestica, segnata da equilibrio e rigore, nello stile anche dell’insegnamento etico della filosofia greca, soprattutto stoica. Come è evidente, l’Apostolo si rivolge a entrambi i protagonisti della vicenda familiare.
Da un lato, ci sono i figli che devono ai genitori il rispetto e l’obbedienza, un impegno
“giusto” perché si basa non solo sulla morale naturale, ma anche sul comandamento divino: «Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà» (Esodo 20,12). «Ognuno di voi rispetti sua madre e suo padre», si ripete nel libro del Levitico (19,3).
D’altro lato, però, ecco anche l’impegno dei genitori presentato sotto un duplice profilo. Il negativo: «Non esasperate i vostri figli», con la petulanza, con l’incomprensione, con l’eccesso di severità, con l’imposizione di uno stile di vita datato che non tiene conto dei nuovi contesti sociali e culturali. Ma c’è un aspetto positivo ben più rilevante, quello dell’educazione, della formazione, dell’esempio e della testimonianza. Non basta generare fisicamente. Essere genitori comprende un’arte pedagogica che esige pazienza, amore e tempo. Non si forma un figlio con un rimprovero sbrigativo o con la concessione illimitata di ciò che egli desidera, così da non avere discussioni.
Questo monito rivolto a figli e a genitori è ripetuto quasi alla lettera anche ai cristiani di Colossi e, in forma più ampia e con destinatari giovani e anziani, pure al discepolo Tito (2,1-8). È, questa, la dimostrazione non solo della figura di pastore propria di Paolo, spesso bollato come un freddo e astratto intellettuale, ma è al tempo stesso la testimonianza di una fede che si innerva nella quotidianità, che esce dal tempio e si presenta nelle case, che non ignora il groviglio delle relazioni, dei problemi, delle crisi di ogni famiglia. La parola di Dio, infatti, «è una lampada, il suo insegnamento una luce, un sentiero di vita l’istruzione che ammonisce» (Proverbi 6,23).
Pubblicato il 26 dicembre 2010 - Commenti (0)
19 dic
"Spezzerannole loro spade per farne aratri, trasformeranno le loro lance in falci. Una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. "
(Isaia 2,4)
L’orizzonte planetario è attraversato da un movimento: da ogni angolo della terra si mettono in moto processioni di popoli che convergono verso un monte. Non è il più alto né il più famoso, eppure esso è come un faro di luce che irradia i suoi bagliori sulla distesa delle regioni e dei continenti. Quei flussi umani giungono ai piedi della montagna, ed ecco che dalla sua vetta, ove si leva un tempio, esce personificata la parola di Dio che va incontro all’umanità in ricerca.
Di fronte a questa presenza le genti che sono accorse lasciano cadere a terra spade e lance che hanno recato con sé per difendersi dagli altri popoli a loro estranei. Gli artigiani prendono quelle armi e le forgiano in aratri e falci, ossia in strumenti di sviluppo pacifico. Ormai si chiudono le scuole di guerra e si aprono centri di studio e di ricerca per il bene dell’umanità; le pianure non sono più campi di battaglia, ma terreni coltivati, agli armamenti sono subentrati gli armenti.
Abbiamo voluto “sceneggiare” una delle grandi pagine di quel Dante della poesia ebraica e vertice dei profeti d’Israele che è Isaia. È facile sciogliere il significato della parabola. Il suo è, infatti, un inno dedicato a Sion, la sede del tempio di Gerusalemme e della casa di Davide, quindi della presenza divina nello spazio, nella storia e nella Parola (la Tôrah, la Legge e la rivelazione del Signore).
La speranza di questa convergenza planetaria verso il vero Dio per l’edificazione di un
mondo di pace è collocata dal profeta «alla fine dei giorni» (2,2).
È, perciò, una meta sperata come fine ultimo della vicenda umana, ma già ora si deve cominciare a costruire questo ordine di serenità, di collaborazione, di sviluppo. E in prima fila dovrebbero essere proprio i fedeli. Esclama, infatti, Isaia nella conclusione del suo cantico-visione (1,1): «Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore» (2,5). Naturalmente questo affresco grandioso ha due connotati che meritano una sottolineatura particolare.
Da un lato, la pace-shalôm, che non è solo cessazione delle ostilità tra i popoli, ma anche
inaugurazione di una nuova era di armonia e di benessere, apre il sipario sul regno del Messia, un regno di giustizia e di pace, di difesa dei poveri e di fraternità. È ciò che Isaia dipingerà nelle due pagine stupende di 9,1-6 e 11,1-9, due testi da meditare, cari alla tradizione natalizia cristiana che li applica a Cristo e alla sua opera. Un forte messaggio di speranza nel futuro e di attesa fiduciosa.
D’altro lato, affiora qui quella linea universalista che serpeggerà in vari passi della letteratura profetica e sapienziale d’Israele e che avrà una sua celebrazione ultima nella visione neotestamentaria. A questo proposito vorremmo evocare solo un annuncio presente proprio nel libro di Isaia, ma appartenente a un autore posteriore che si è voluto mettere sotto il patronato del grande profeta di Giuda. Anche questo oracolo è collocato «in quel giorno», equivalente, in pratica, alla formula isaiana «alla fine dei giorni»: «In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria [le due superpotenze d’allora], una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti così: Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità» (19,24-25).
Pubblicato il 19 dicembre 2010 - Commenti (0)
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