02 giu
Giotto (Giotto di Bondone 1266-1336), Elia sul carro di fuoco, Padova, Cappella Scrovegni.
"Tu sei stato assunto in un turbine di fuoco su un carro di cavalli di fiamma.
Beati coloro che ti videro e si addormentarono nell’amore ”
(Siracide 48,9.11)
«Sorse Elia profeta, come un fuoco;
la sua parola ardeva come una
fiaccola» (48,1). Inizia così il ritratto
che il Siracide, sapiente biblico del II secolo
a.C., ha disegnato con intensa ammirazione
nella galleria di personaggi destinati a occupare
le ultime pagine del suo libro, giunto
a noi nella versione greca di suo nipote e in
ampie porzioni dell’originale ebraico attraverso
una serie di scoperte a partire dalla fine
dell’Ottocento.
Il simbolo che idealmente accompagna Elia è il fuoco e questo appare soprattutto nella celebre ordalia del monte Carmelo, quando egli sfidò i sacerdoti e i profeti del dio cananeo Baal – il cui culto era stato favorito dalla regina di allora, la fenicia Gezabele (IX sec.), moglie del re di Israele Acab – a invocare la loro divinità perché facesse piovere fuoco dal cielo per incendiare i sacrifici. Il fuoco scese, ma solo dopo la preghiera che Elia rivolse al Signore: la fiamma «consumò l’olocausto, la legna, le pietre e la cenere» (si legga la pagina emozionante di 1Re 18,20-40).
Nel frammento del Siracide, che abbiamo proposto, di scena è invece la gloriosa fine del profeta, segnata da un’ascensione al cielo su un cocchio fiammeggiante (il racconto è in 2Re 2,1-18, un’altra pagina mirabile che ha conquistato la storia dell’arte). Si celebra, così, la vita di Elia oltre la morte, nell’incontro pieno e definitivo con quel Signore che egli aveva servito con coraggio, spesso nella solitudine e persino nella persecuzione da parte del potere politico, che non tollerava una voce così libera, franca e verace.
Si fa strada, in tal modo, anche nell’Antico Testamento la concezione secondo la quale il fiume dell’esistenza del giusto non ha come estuario il baratro del nulla, ma la comunione con Dio, oltre il tempo nell’eterno. Come cantava il Salmista: «Tu, o Signore, non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa. Mi indicherai invece il sentiero della vita, gioia piena davanti al tuo volto, dolcezza senza fine alla tua destra» (Salmo 16,10-11). Già nelle prime pagine della Bibbia il giusto Enok, che «aveva camminato con Dio» durante la sua esistenza terrena, «poi scomparve perché Dio l’aveva preso», cioè assunto nella sua gloria (Genesi 5,24).
Ai piedi di Elia che ascende avvolto nel fuoco, segno divino (si ricordi il roveto ardente del Sinai), c’è il suo discepolo e successore Eliseo che lo contempla e lo invoca. In lui il Siracide colloca tutti coloro che seguirono il profeta e, quindi, i fedeli al vero Dio e ad essi riserva una bella epigrafe che potremmo augurare a noi stessi sulla nostra tomba: «Beati coloro che si addormentarono nell’amore!». Un amore donato da Dio e dai fratelli e ricambiato da noi al Signore e a loro.
C’è, però, una frase che segue e che noi non abbiamo citato perché nell’originale è un po’ oscura. Potremmo, tuttavia, renderla così: «È certo, infatti, che anche noi vivremo » (o «possederemo la vita»). Chi ama, allora, deve avere in sé la certezza di fede che condividerà la stessa sorte di Elia. Come scriveva un autore polacco, Jan Dobraczynski nelle sue Lettere di Nicodemo (1952), «il fuoco dello Spirito ci ha toccati con la sua carezza capace di trasformare un pugno d’argilla in un corpo vivente... Racchiudiamo in noi un fuoco capace di trasformare il mondo».
Pubblicato il 02 giugno 2011 - Commenti (0)
26 mag
Abbeveratoio, Antonio Fontanesi (1818-1882), Bologna, Pinacoteca Nazionale.
Benedetto l’uomo che confida nel Signore:
è come un albero piantato lungo un ruscello,
verso la corrente stende le sue radici...,
le sue foglie rimangono verdi...,
non cessa di produrre frutti.
(Geremia 17,7-8)
In un panorama desertico e assolato si leva
un albero verdeggiante e carico di frutti. Come
è possibile in un terreno ove al massimo
sopravvivono i cespugli e i rovi? Ci avviciniamo,
ed ecco che scopriamo in un piccolo
avvallamento laterale un corso d’acqua sottile
ma perenne: le radici si sono tese fino a
raggiungere quella sorgente di vita ed è per
questo che la pianta si erge orgogliosa con la
sua chioma. L’immagine è semplice, ma agli
occhi del profeta Geremia, il drammatico testimone
nel VI secolo a.C. del crollo del regno
di Giuda e della rovina di Gerusalemme,
si trasforma in un simbolo. Infatti, l’applicazione
è subito esplicitata in apertura: «Benedetto
l’uomo che confida nel Signore, è lui la
sua fiducia!».
Non sappiamo quanti anni dopo, un altro
ebreo, un salmista, leggerà queste righe del
profeta e le riprenderà per comporre il suo
canto, quel Salmo che diverrà quasi l’atrio
d’ingresso o il portale dell’intero Salterio: il
giusto «è come albero piantato presso un canale,
dà frutto nella sua stagione, le sue fronde
non appassiscono mai, tutte le sue opere
hanno successo» (Salmo 1,3). Egli, poi, continuerà
e, per contrasto, dipingerà a dittico il
ritratto del malvagio, «simile a pula che il
vento disperde» (1,4), cioè a una realtà secca,
leggera, inconsistente, da far volare col ventilabro
o da ardere nel mucchio della paglia.
La fedeltà a Dio e alla sua legge è principio
di vita, di fecondità, di freschezza interiore.
Quando un altro profeta, Ezechiele, vorrà
rappresentare il futuro ultimo della storia
– quello che i teologi chiamano “l’escatologia”
– ricorderà che il verdeggiare della vita dipende
da un fiume che scaturisce dal tempio,
ossia dalle acque sante della grazia divina:
«Lungo quel fiume, su entrambe le rive, crescerà
ogni sorta di alberi da frutto, le cui foglie
non appassiranno, i loro frutti non cesseranno,
matureranno ogni mese, perché le acque
sgorgano dal tempio» (Ezechiele 47,12).
Limpido è, perciò, l’appello dei profeti: volete
vivere un’esistenza vera e feconda? Attingete
all’acqua della fede, della fiducia,
della fedeltà operosa a Dio e alla sua parola.
È ancora Geremia a usare un’immagine analoga,
ma al negativo, in un frammento che
abbiamo avuto occasione di considerare in
passato: «Il mio popolo ha abbandonato me,
sorgente d’acqua viva, e si è scavato cisterne
piene di crepe che non riescono a trattenere
l’acqua» (2,13). È interessante segnalare una
curiosità. Questo profeta è uno degli autori
biblici più sensibili alla natura, alla sua bellezza
e alla sua possibilità di parlare a noi
umani attraverso i suoi segni.
Così, in contrasto al quadretto rigoglioso e
fresco che ha ora dipinto, egli oppone, in
un’altra pagina poetica intensa ed emozionante,
la tragedia di una siccità terribile e
prolungata, sotto la morsa di una calura implacabile,
con la vegetazione avvizzita, le fonti
inaridite e la disperazione sia degli abitanti
sia degli animali che «aspirano l’aria come
sciacalli, con gli occhi languidi, perché non ci
sono più pascoli» (si legga il capitolo 14). E
anche là Geremia scopre un segno divino: il
Signore colpisce un popolo che è arido e senza
frutti ed egli si è fatto ormai assente, «come
un forestiero sulla terra, come un viandante
che si è fermato una sola notte».
Pubblicato il 26 maggio 2011 - Commenti (0)
19 mag
Vaso, colombe e uva, mosaico in San Vitale a Ravenna
"Io sono la via, la verità, la vita.
Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me."
(Giovanni 14,6)
«Preso il boccone, Giuda subito uscì.
Ed era notte...». Su Gerusalemme,
dunque, si stende il velo delle tenebre
e Giuda, il traditore – dopo aver partecipato
a quell’ultima cena durante la quale
Gesù gli aveva espresso un estremo gesto di
attenzione offrendogli il “boccone dell’ospite”,
segno di cordialità –, s’avvia di corsa per
le strade deserte della città santa a consumare
il suo tradimento. In quella «grande sala,
arredata e già apparecchiata, al piano superiore
» di una casa gerosolimitana (Marco
14,15), era salito Gesù con i suoi discepoli. Là
aveva celebrato la cena pasquale e poi, uscito
Giuda, aveva iniziato a parlare.
Quella sarebbe stata l’ultima sera della sua vita terrena. Le sue parole, perciò, acquistavano il sapore di un testamento. Giovanni, l’evangelista, ha rielaborato quei discorsi secondo uno stile che è stato chiamato “a ondate” perché, come accade ai flutti della risacca sul litorale che ricoprono lo stesso spazio in forme sempre diverse, così i temi dominanti, la fede e l’amore, ritornano ripetutamente su sé stessi, ma costantemente con tonalità e sfumature differenti. Facciamo solo due citazioni. L’una è per la fede, che è comunione con Cristo: «Io sono la vera vite, voi i tralci. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da sé stesso, se non rimane nella vite, così anche voi, se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci» (Giovanni 15,1.4-5).
L’altra citazione è sull’amore: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così anche voi amatevi gli uni gli altri... Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (13,34; 15,12).
Ora, però, la nostra analisi si concentra sulla frase che abbiamo scelto e proposto. Gesù ha fatto balenare ai suoi amici ciò che lo attende, la morte e il successivo ingresso nell’orizzonte divino, promettendo che là avrebbe preparato un posto anche per loro. Tommaso, il “dubbioso”, gli obietta: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». E la risposta di Cristo è in quella potente affermazione che abbiamo citato. Essa si apre con quell’«Io sono» che vale molto di più di una semplice copula verbale perché, come spesso avviene nel quarto Vangelo (si legga, ad esempio, Giovanni 8,58), si rimanda alla solenne autopresentazione di Dio nel roveto ardente al Sinai: «Io sono colui che sono» (Esodo 3,14).
A quella premessa gloriosa si collegano tre titoli che s’inanellano tra loro. Infatti, Cristo è «la via» per raggiungere il Padre proprio perché è «la verità», ossia la rivelazione perfetta del mistero di Dio. Attraverso lui, perciò, «conoscerete la verità che vi farà liberi » (8,32). I nostri passi avanzeranno verso quell’orizzonte di luce, guidati dalla parola di Gesù che è «verità».
Ma egli è anche «la vita» che non perisce, l’essenza stessa di Dio, ed è per questo che, stando uniti a lui in pienezza – appunto come i tralci al tronco della vite – noi saremo ammessi all’intimità vitale con Dio, il Padre, Signore della vita. Mettiamoci, allora, sulla strada che egli ci rivela e, stretti a lui, raggiungeremo la luce eterna e divina: «Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (8,12).
Pubblicato il 19 maggio 2011 - Commenti (0)
12 mag
Gli antichi cedri sul monte Libano a Bouman, A. Montfort (1802 - 1884), Parigi, Museo d'Orsay.
"Dissero gli alberi al rovo: «Vieni tu a regnare su di noi!». E il rovo: «Se mi ungete re su di voi, venite, rifugiatevi alla mia ombra!». (Giudici 9, 14 - 15"
(Luca, 24,29)
Il grande poeta inglese John Milton, nel suo
Paradiso perduto (1667), ha scritto un verso
paradossale: «Meglio regnare all’inferno,
che servire in cielo». Con questo assioma affermava,
però, una verità amara: gli uomini
preferiscono il potere a ogni costo, convinti,
come diceva un nostro noto uomo politico,
che «il potere logora chi non ce l’ha».
Ebbene, noi attraverso il nostro frammento
biblico faremo insieme una caustica riflessione
su questo anelito dell’uomo, causa di
tanti mali per la società. Lo faremo attraverso
la prima, compiuta parabola che appare
nella Bibbia. Come sappiamo, sarà Gesù con
le sue almeno 35 parabole a rendere popolare
questo genere letterario. Esso, però, era
già diffuso nell’antichità ed è rintracciabile
anche nell’Antico Testamento.
A narrare la parabola (in ebraico mashal),
che abbiamo proposto nel suo apice conclusivo,
è un certo Iotam, fratello di Abimelek:
quest’ultimo s’era messo in testa di diventare
re della città ebraica di Sichem e, per raggiungere
il suo scopo, aveva iniziato con un
bel bagno di sangue, eliminando tutto il suo
clan familiare, una settantina di persone,
considerate come pericolosi pretendenti o
concorrenti. Una di queste s’era, però, salvata
nascondendosi: era appunto il fratello minore
Iotam. Egli sale sul monte che diverrà
sacro ai Samaritani, il Garizim, e urla il suo
apologo, così da mettere in guardia i suoi
concittadini di Sichem sull’abisso verso il
quale stanno incamminandosi. A valle, infatti,
è riunita un’assemblea di capi di Sichem e
della regione che stanno per proclamare Abimelek
come loro sovrano.
Come accade nelle favole, protagonisti sono
o gli animali o i vegetali personificati che
diventano maestri degli umani insipienti.
Nel nostro caso entrano in scena innanzitutto
i tre alberi tipici del paesaggio mediterraneo:
l’ulivo, il fico, la vite (si legga il testo integrale
di Giudici 9,7-21). La delegazione delle
altre piante si reca da questi tre “colleghi”
per invitarli ad assumere la carica di re degli
alberi. Ma la risposta è negativa: essi sono lieti
di essere utili agli altri col loro olio o col
frutto dolce o col vino inebriante e non vogliono
lasciarsi prendere da manie di dominio,
librandosi sopra le altre piante, gloriandosi
e vivendo riveriti e serviti.
Di fronte a questo rifiuto la delegazione si
rassegna al tentativo di coinvolgere il rovo il
quale accetta subito con piacere, dato che
non ha nessun impegno se non quello di ramificarsi
su altri vegetali vivendo da parassita
e producendo solo spine. E subito il rovo
rivela la tipica arroganza del potere. Arido
com’è, s’immagina già frondoso ed elevato e
invita le altre piante a piegarsi sotto la sua
ombra. È questo il frammento da noi citato
che prosegue con un’altra battuta da sbruffone:
se non vi piegherete a me, ebbene «esca
dal rovo un fuoco e divori i cedri del Libano».
Detto in altri termini, facendo il gradasso, il
rovo minaccia persino i possenti e maestosi
cedri del Libano.
Iotam applica la morale della parabola alla
sua situazione politica. Il lettore potrà liberamente
applicarla alla nostra classe politica,
ricordando comunque che un po’ di anelito
verso il potere prevaricatore è in tutti noi.
Il nostro scrittore Luciano De Crescenzo ci ricordava
mediante il suo personaggio Bellavista
che «il potere non sazia, anzi, è come la
droga: richiede sempre dosi maggiori».
Pubblicato il 12 maggio 2011 - Commenti (0)
05 mag
La cena a Emmaus, (1622-1623), opera di Diego Velázquez.
"Resta con noi, perchè si fa sera e il giorno volge ormai al tramonto! "
(Luca, 24,29)
«A chi di noi la casa d’Emmaus non è
familiare? Chi non ha camminato
su quella strada, una sera che tutto
pareva perduto? Il Cristo era morto per noi. Ce
lo avevano preso il mondo, i filosofi e gli scienziati.
Non esisteva più nessun Gesù per noi sulla
terra. Seguivamo una strada e qualcuno
era venuto a lato. Eravamo soli e non soli.
Era ormai sera. Ecco una porta aperta, l’oscurità
di una sala ove la fiamma del caminetto rischiara
il suolo e fa tremolare le ombre. Opane
spezzato!... Rimani con noi, perché il giorno declina,
la vita finisce». Abbiamo voluto rievocare
quella pagina indimenticabile del Vangelo di
Luca attraverso la creazione letteraria della Vita
di Gesù (1936) del noto scrittore cattolico francese
François Mauriac.
In quei due discepoli – dei quali è riferito solo
un nome, Cleopa (ossia Cleopatro) – è rispecchiata
la vicenda di tutti i credenti. Anch’essi
camminano lungo quella via che da Gerusalemme
punta verso il villaggio di Emmaus (variamente
identificato dagli archeologi e quindi
un po’ misterioso e “aperto” a tanti luoghi). Condividono
la stessa tristezza e il dubbio. Sono soli
e sfiduciati. Ma ecco accostarsi un ignoto viandante
e qui lasciamo l’applicazione dello scrittore
francese per ritornare alla pagina evangelica
e al suo significato intimo. Il Cristo risorto e
glorioso non è riconoscibile con la pura e
semplice esperienza concreta: si ricordi l’imbarazzante
equivoco di Maria di Magdala che
scambia il Risorto per il custode del giardino cemeteriale
di Gerusalemme (Giovanni 20,14-16).
È necessaria una nuova forma di conoscenza.
Due sono le tappe di questo che è il processo della
fede. Prima c’è l’ascolto delle Scritture spiegate
dal Cristo, ancora ignoto, in chiave cristiana.
Poi si ha lo «spezzare il pane» che, come sappiamo,
nel linguaggio neotestamentario è un rimando
all’Eucaristia.
Ora, se osserviamo attentamente questi due
momenti, ci si accorge che essi riflettono già la
liturgia cristiana che ogni domenica anche noi
celebriamo. Essa comprende la lettura delle
Scritture e la «frazione del pane». Luca, rievocando
quel pomeriggio primaverile di duemila anni
fa, ci suggerisce dunque dove è possibile incontrare
il Cristo risorto, come accadde allora ai
due discepoli di Emmaus: nell’ascolto della parola
di Dio «il cuore arde nel petto», è la prima
tappa del riconoscimento; ma è allo «spezzare il
pane» che «gli occhi si aprono e riconoscono» in
quel viandante il Cristo risorto.
Quell’invocazione, diventata un canto che
spesso ripetiamo – «Rimani con noi perché si fa
sera» –, si trasforma in un inno al Risorto perché
adempia la sua promessa di essere con noi
«tutti i giorni, sino alla fine delmondo» (Matteo
28,20), non solo con la sua «parola di vita» e col
suo «Spirito di verità», ma soprattutto col suo
corpo e il suo sangue donati per noi. È attraverso
l’Eucaristia che anche noi diventiamo
«un solo corpo, perché tutti partecipiamo all’unico
pane» (1Corinzi 10,17). Cantava la scrittrice
tedesca Gertrud von le Fort (1876-1971):
«La polvere dei nostri atomi si raccoglie... / Tu
entri nel cuore della nostra solitudine, / per dischiuderla
come una porta spalancata... / Siamo
un solo corpo e un solo sangue».
Pubblicato il 05 maggio 2011 - Commenti (0)
28 apr
I quattro evangelisti, Jacob Jordaens (1593 - 1678), Parigi, Louvre.
"Erano assidui nel seguire l’insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nello spezzare il pane e nelle preghiere. "
(Atti, 2,42)
San Girolamo, nella sua Lettera XIX, definiva
gli Atti degli apostoli – la seconda
opera dell’evangelista Luca, anch’essa dedicata
a un misterioso personaggio di nome
Teofilo – come frutto del lavoro di uno “storico”
accurato e di un “artista” raffinato (il greco usato
è uno dei più eleganti del Nuovo Testamento,
inferiore forse solo a quello della Lettera agli
Ebrei). Ed effettivamente questo libro – fatto di
18.374 parole greche, inferiore quantitativamente
solo al Vangelo dello stesso autore
(19.404 parole) – ci offre un vivace e documentato
ritratto della Chiesa delle origini.
La storia, infatti, s’intreccia sempre con la dimensione
spirituale e teologica.
È il caso del versetto-sommario che vogliamo
approfondire. In esso troviamo le quattro colonne
che reggono l’architettura interiore della
Chiesa di Gerusalemme. Il primo posto è riservato
all’annunzio del Vangelo affidato agli apostoli:
è la didaché e, come suggerisce questo vocabolo
greco, riassume in sé i vari aspetti di
quell’annunzio che è anche “insegnamento” didattico
nella catechesi dei credenti e non solo la
prima proclamazione ai non cristiani (quello
che in greco è chiamato il kérygma, appunto il
primo “annunzio”). Altrove (Atti 6,4) si parla della
«diaconìa della parola», ossia di un servizio
che esige un impegno totale e assoluto da parte
degli apostoli, per cui la «diaconìa della carità»
ai poveri verrà affidata a sette uomini “laici”
che verranno poi chiamati “diaconi”.
Proprio in questa linea, ecco la seconda colonna,
espressa in greco con un termine che è
entrato anche nelle nostre comunità praticanti,
la koinonía. Si tratta della «comunione fraterna
» che fu vissuta con entusiasmo e in
modo concreto in quei primi anni del cristianesimo,
e ciò viene descritto con intensità da
Luca: «La moltitudine dei credenti era un cuor
solo e un’anima sola. Nessuno diceva sua proprietà
quello che possedeva ma tutto era tra loro
comune... Nessuno tra loro era bisognoso
perché quanti possedevano campi o case li vendevano,
portavano il ricavato e lo deponevano
ai piedi degli apostoli perché venisse distribuito
secondo le necessità di ciascuno» (4,32-34).
È quella sorta di “comunismo” religioso e ideale
che rifletteva sia elementi biblici (in Deuteronomio
15,4 si legge: «Non vi sarà nessun bisognoso
in mezzo a voi»), sia componenti giudaiche
e persino di stampo greco pitagorico o stoico.
Non dobbiamo dimenticare, però, che gli
stessi Atti degli apostoli segnalano le prime
difficoltà nell’applicazione di questa
norma comunitaria: il caso di Anania e Saffira
(capitolo 5) è emblematico.
La terza colonna è la “frazione del pane”, come
si dice in greco, ossia il pane eucaristico
spezzato nella celebrazione della comunità liturgica.
E, quarta colonna, «le preghiere»: se
l’Eucaristia era il peculiare rito cristiano, ciò
non toglieva che i primi giudeo-cristiani frequentassero
ancora il tempio di Gerusalemme,
ritrovandosi in un’area specifica, «il portico di
Salomone» (5,12), cantando i Salmi biblici e il
repertorio delle benedizioni e preghiere giudaiche,
dimostrando così un legame vivo con la
propria matrice culturale e spirituale.
Pubblicato il 28 aprile 2011 - Commenti (0)
21 apr
Mattoni d'argilla al sole, fragile casa dell'uomo che ritorna polvere e sabbia
"Quando verrà dissolta la nostra casa terrena, cioè la tenda del nostro corpo, avremo da Dio una dimora, sarà una casa eterna, non edificata da mani d’uomo, celeste."
(2Corinzi 5,1)
Siamo «abitatori di case d’argilla, cementate
nella polvere, e che si sfasciano
come carie... Le corde della tenda
sono strappate e moriamo senza capire». Le
parole amare e realistiche del libro di Giobbe
(4,19.21) dipingono la radicale fragilità
della creatura umana che un altro sapiente
biblico, l’autore del libro della Sapienza, tratteggerà
con un linguaggio desunto dalla cultura
classica greca che marcava la tensione
tra anima spirituale e corpo materiale: «Un
corpo corruttibile appesantisce l’anima e la
tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri
» (9,15).
È, questa, un’esperienza che tutti proviamo
quando, attraverso una malattia, sentiamo
ramificarsi in noi la mano gelida della
morte che crea un disfacimento della «tenda
del nostro corpo» in cui sembra accampata la
nostra anima. Questa immagine nomadica
della tenda è cara naturalmente alla Bibbia
che si rivolge a un popolo di pastori.
Ecco come il re di Giuda, Ezechia, contemporaneo
di Isaia (VIII secolo a.C.), descriveva
la sua situazione dimalato grave: «La mia tenda
sta per essere divelta e scagliata lontano
da me, come una tenda di pastori. Come un
tessitore tu, o Dio, hai arrotolato la mia vita e
stai per recidermi dall’ordito» (Isaia 38,12).
Anche san Paolo ricorre a queste immagini
per descrivere la nostra morte: parla, infatti,
di “tenda”, ma rimanda pure all’emblema
del sedentario, l’oikía in greco, ossia la “casa”.
Tuttavia, il suo sguardo va oltre questa
dissoluzione che per molti è il tragico approdo
ultimo e unico della nostra esistenza. E lo
fa sulla base della fede nella risurrezione di
Cristo. Nello sfacelo della morte è, infatti,
passato lo stesso Figlio di Dio, che di sua natura
è eterno: in quell’ammasso di argilla
sfatta che è il cadavere ha deposto un germe
di eternità, vi ha immesso il principio della
nostra riedificazione gloriosa.
Ecco, allora, la nostra nuova dimora che,
come il corpo risorto di Cristo, non è «edificata
da mani d’uomo». Gesù stesso l’aveva indirettamente
affermato per sé e annunciato davanti
ai giudici del Sinedrio quando non aveva
smentito l’accusa dei testimoni che affermavano:
«Lo abbiamo udito dire: Io distruggerò
questo tempio eretto da mani d’uomo e
in tre giorni ne edificherò un altro non eretto
da mani d’uomo» (Marco 14,58). Infatti,
un giorno, dopo aver cacciato i mercanti dal
tempio, aveva dichiarato: «Distruggete questo
tempio e in tre giorni lo farò risorgere». E
l’evangelista Giovanni aveva commentato:
«Egli parlava del tempio del suo corpo»
(2,19.21). L’apostolo Paolo agli stessi cristiani
di Corinto aveva descritto così la risurrezione
che ci attende: «Si semina un corpo corruttibile
e risorge incorruttibile; si semina un
corpo animato, risorge un corpo spirituale»
(1Corinzi 15,42-44).
Significativa è l’ultima frase nell’originale
greco: ciò che ora noi siamo è un «corpo animato
», ossia congiunto e reso vivo e operante
dalla psyché, l’“anima”; ma l’attesa è per
un corpo animato dallo pneuma, cioè posseduto
e trasformato dallo Spirito di Dio, «un
corpo spirituale», pervaso dalla stessa vita divina,
la «casa eterna, non edificata da mani
d’uomo e celeste», di cui parla san Paolo nel
nostro frammento. Come cantava la poetessa
Margherita Guidacci (1921-1992), «quanto di
te sopravvive / è in altro luogo, misterioso, /
ed ormai reca un nome nuovo / che solo Dio
conosce».
Pubblicato il 21 aprile 2011 - Commenti (0)
14 apr
Deposizione, opera di Courtois Guillame (1628 - 1679), Roma, Accademia di San Luca
"Cristo Gesù svuotò sé stesso assumendo la condizione di schiavo...Umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte in croce."
(Filippesi 2,7-8)
Nelle nostre memorie scolastiche la città
macedone di Filippi – che portava il
nome del suo fondatore, Filippo II, padre
di Alessandro Magno (IV secolo a.C.) – è
presente per la battaglia decisiva del 42 a.C.
tra Ottaviano Augusto e Marco Antonio, da
una parte, e Bruto e Cassio, dall’altra. Battaglia
che ha generato il motto: «Ci rivedremo
a Filippi», riferito dallo storico greco Plutarco.
Per il cristianesimo, Filippi – che ancora
oggi offre una significativa testimonianza
archeologica della sua gloria antica – è legata
alla presenza di Paolo e alla Lettera che,
attorno al 55-56, indirizzò a quella comunità
cristiana a lui unita da un intenso vincolo
di amicizia.
In questo scritto, come annotava uno studioso,
Jerome Murphy O’Connor, «si sente
battere il cuore di Paolo»: «Nessuna Chiesa
aprì con me», confessa l’Apostolo, «un conto
di dare e di avere, se non voi soli... Sono ricolmo
dei vostri doni... che sono un profumo
di soave odore, un sacrificio accetto e
gradito a Dio» (4,15-18). Ora, nel capitolo 2
di questa Lettera è incastonato un inno
(2,6-11) che è modellato su un simbolo spaziale,
la discesa-ascesa di Cristo sull’asse cielo-
terra-cielo. Ecco innanzitutto la discesa
umiliante del Figlio di Dio quando s’incarna,
divenendo uomo tra gli uomini, abbandonando
la sua gloria. Anzi, il suo è un vero
e proprio precipitare in un abisso: egli, infatti,
muore in croce, il supplizio riservato agli
schiavi, agli ultimi della terra.
Solo così Cristo diventa veramente fratello
di tutte le creature umane, non escludendo
neanche quelle che sono nei bassifondi
estremi della società, inserendo, però, con il
suo passaggio nella nostra carne, la presenza
salvifica e trasformatrice della sua divinità.
Ma dalla vetta del Golgota ove si leva la croce
ha inizio l’altro movimento spaziale, quello
dell’ascesa, che l’inno descrive nella sua seconda
parte (2,9-11). Cristo ritorna nella sua
gloria con il nome di Kyrios, “Signore”, appellativo
divino; egli brilla di nuovo nella luce
della trascendenza che si era eclissata nella
morte in croce, quando Gesù si era «svuotato
» della sua dignità altissima non solo per
essere accanto all’umanità, ma anche per entrare
nel suo grembo, fatto di miseria, di limite
e di peccato così da redimerla.
Ecco, noi vorremmo ora puntare brevemente
la nostra attenzione proprio su quella
frase «svuotò sé stesso», in greco ekénosen,
un verbo che ha dato origine a un vocabolo
“tecnico” della teologia, kénosis, destinato appunto
a indicare l’abisso in cui Dio precipita
nel Figlio morto in croce e umiliato. È, questo,
il segno pieno e definitivo di quel mistero
centrale del cristianesimo chiamato
“incarnazione”. Nella kénosis-“svuotamento”
si ha, infatti, il vessillo e la sintesi della
storia di Gesù di Nazaret, divenuto uomo tra
gli uomini, povero, umile, condannato a una
pena capitale infamante, riservata solo agli
schiavi e ai ribelli antiromani. Eppure, quello
“svuotamento” liberamente scelto da Cristo
non ne annienta la divinità.
Essa riappare quando si è raggiunto il fondo
ultimo della kénosis, la morte. È là che si
apre l’alba di Pasqua, la gloria della risurrezione.
Vorremmo concludere, allora, questa
nostra riflessione sul frammento di un testo
paolino così importante con le parole che un
famoso scrittore russo, l’autore del Dottor
Živago, Boris Pasternak (1890-1960), mette
in bocca allo stesso Gesù: «Scenderò nella bara
e il terzo giorno risorgerò / e, come le zattere
discendono i fiumi, / in giudizio, da me, come
chiatte in carovana, / affluiranno tutti i secoli
dell’umanità».
Pubblicato il 14 aprile 2011 - Commenti (0)
07 apr
Annuncio ai pastori, Sano di Pietro (1406 - 1481), Siena, Pinacoteca nazionale.
"L'anima mia è protesa verso il Signore, più che le sentinelle verso l'aurora, più che le sentinelle verso l'aurora."
(Salmo 130,6)
La notte è scesa sulla città col suo sudario
di tenebre e di silenzio. Si odono solo i
passi cadenzati di una pattuglia di sentinelle
che trascorrono le ore notturne tra vicoli
e piazze, in attesa che la prima lama di luce all’orizzonte
segnali la fine del loro turno di
guardia. Grida una di loro all’altra pattuglia
più lontana: «Sentinella, quanto resta della
notte? Sentinella, quanto resta della notte?».
Una voce risponde dal buio: «Sta per venire
il mattino! Ma poi verrà ancora la notte», in
un ciclo senza fine, a cui siamo votati.
Abbiamo voluto ricreare questa scena, evocata
in modo impressionistico in un oracolo
del profeta Isaia (21,11-12), perché essa fa da
ideale sfondo al frammento biblico che abbiamo
scelto, traendolo da uno dei Salmi più celebri
in assoluto, il 130, ossia il De profundis,
così denominato dall’avvio del testo tradotto
in latino, «Dal profondo a te grido, Signore!».
È una piccola supplica poetica fatta di sole 52
parole ebraiche, comprese le particelle; eppure
è stata sempre una sorta di lampada spirituale
accesa sulla strada della conversione
(non per nulla è entrata nella raccolta dei sette
“Salmi penitenziali”), una pagina di meditazione
sul binomio peccato-perdono (Lutero
lo definiva, per questo, Psalmus paulinus,
quasi un’anticipazione del pensiero di san
Paolo) e persino un canto funebre e pasquale
nella tradizione cattolica.
Noi ora per raggiungere il versetto che abbiamo
citato, percorreremo l’intera trama
della supplica. Essa parte con un appello
al “Tu” di Dio che sale dai gorghi
infernali della morte e del male.
Anche il grande tragico Eschilo
nei Persiani s’interrogava così
nel momento della prova: «Io
grido in alto le mie sofferenze
infinite, dal profondo
dell’ombra chi mi ascolterà?
». Una domanda che, però,
rimaneva senza risposta dall’alto dei cieli.
Il Salmista, invece, è certo che la sua colpa
avrà remissione e il suo delitto sarà cancellato.
È così che l’invocazione trapassa dal “Tu”
divino all’“io” dell’orante, che sta appunto
attendendo il perdono e lo aspetta con una
tensione così forte da essere comparabile proprio
all’ansia con cui le sentinelle spiano le
prime luci dell’alba che segnano la fine degli
incubi notturni e della loro veglia.
Puntiamo ancora la nostra attenzione su
questo paragone che in ebraico ha per attori
gli shomrîm. Il vocabolo, che è un participio,
designa genericamente i “vigilanti”, coloro
che vegliano e vigilano. Un termine che, quindi,
ben s’adatta all’immagine della ronda. Il
peccatore è avvolto nell’oscurità della notte
dello spirito ed è proteso verso l’aurora
del perdono e della libertà dalle catene del
suo male. Tuttavia, c’è un’altra categoria di
persone che può essere chiamata shomrîm: si
tratta dei sacerdoti e dei leviti che, a turno, vegliano
nel tempio. Nel Salmo 134,1 si dice: «Ecco,
benedite il Signore, voi tutti ministri del Signore,
voi che state nella casa del Signore [il
tempio di Sion] durante la notte».
La scena sottesa al nostro versetto acquisterebbe,
allora, una tonalità mistica. Se pensiamo
al numero molto elevato dei sacerdoti di
Israele e al sistema di sorteggio con cui venivano
cooptati per presiedere e servire nella liturgia
del tempio, riusciamo a comprendere
la qualità particolare della tensione che reggeva
quella notte che sarebbe sfociata su una
delle rare giornate memorabili della vita di
un sacerdote nel centro della religiosità del
mondo ebraico, più o meno come accade al
sacerdote cattolico nella notte che precede la
sua ordinazione. Attendere il perdono e
l’abbraccio di Dio dev’essere un alto
momento di speranza, perché fa risorgere
una vita, cancella una miseria,
apre un orizzonte di luce e
di intimità con Dio.
Pubblicato il 07 aprile 2011 - Commenti (0)
31 mar
Refezione nel chiostro, opera di Ferdinand G. Waldmüller, 1858 (part.), olio su tavola.
"Se offrirai all'affamato il pane, se sazierai chi è digiuno, allora la tua luce brillerà tra le tenebre, la tua tenebra diverrà meriggio"
(Isaia 58,10)
«Questo è il digiuno che io voglio:
sciogliere le catene inique, togliere
i legami del giogo, rimandare
liberi gli oppressi, spezzare ogni giogo..., dividere
il pane con l’affamato, ospitare in casa i
miserabili che sono senza tetto, vestire chi vedi
nudo, non distogliere gli occhi da quelli
della tua carne». È, questo, il cuore di un ampio
brano del libro di Isaia (58,1-12) dedicato
appunto al vero digiuno. L’astinenza dal cibo
per finalità rituale e spirituale è un’antica
prassi comune a tante religioni, compresa
la cristiana e la musulmana. Anzi, come è
noto, per l’islam il digiuno durante il mese di
Ramadan è una delle cosiddette “cinque colonne”
fondanti la stessa fede.
L’anima profonda di questo gesto, che lo
rende molto diverso da una dieta salutista, è
ben illustrato dai versetti che abbiamo citato
in apertura (vv. 5-7) e dalmotto che abbiamo
assunto per questa nostra riflessione sempre
dal capitolo 58 di Isaia: si rinuncia al cibo per
offrirlo all’affamato. Detto in altri termini, la
privazione non è fine a sé stessa, ma diventa
un segno di carità fraterna. Per questo, il digiuno
materiale è un simbolo di una serie di
atti di donazione, anche spirituale e sociale,
da compiere: liberare dalle oppressioni, scegliere
di costruire una società più giusta fondata
non sull’interesse personale ma sull’amore,
non ignorare le mani dei miseri che
si tendono verso di noi, ricordandoci che anch’essi
sono nostra “carne”, cioè creature
umane come noi.
Ora, però, vorremmo suggerire un’analisi
più accurata del frammento che abbiamo
proposto secondo la traduzione solitamente
usata dalle varie Bibbie. In realtà, nell’originale
ebraico c’è un suggestivo gioco di parole
che è costruito attorno a un unico vocabolo,
nefesh, che contemporaneamente significa
“anima, vita”, e “gola, desiderio, appetito”.
Ecco come suona il testo originario: «Se
offrirai all’affamato il tuo nefesh, se sazierai
il nefesh della persona oppressa…». Come si
vede, s’incontrano tra loro due “anime”, due
“vite”, quella di chi dona e quella del povero.
È ciò che deve innanzitutto compiersi nella
vera solidarietà fraterna: è necessario instaurare
un legame personale, dobbiamo sentire
– come diceva prima il profeta – che siamo
della “stessa carne”.
La vera carità «non si vanta, non è altezzosa,
non manca di rispetto» (1Corinzi 13,4-5), non è
un gesto compiuto dall’alto con la sottile soddisfazione
di essere generosi nei confronti di un
essere inferioremiserabile. È, invece, un essere
spalla a spalla, è l’incontro di due “anime”
che si abbracciano e si sostengono. Ma
possiamo aggiungere un’altra notazione. Nefesh,
dicevamo, è anche “gola, desiderio, appetito”.
Ecco, nell’amore fraterno il mio respiro,
la mia gola si mette in sintonia con quella del
prossimo che soffre. Se ho fame, prima di gettarmi
sul cibo e rimpinzarmi fino all’eccesso,
devo sentire idealmente in me anche l’anelito
dell’affamato e, così, evitare l’atto sprezzante
del ricco gaudente che lascia solo le briciole al
Lazzaro di turno, per stare alla celebre parabola
di Gesù (Luca 16,19-31).
Solo così, nell’incontro tra le due “anime”
e le due “gole” che si muovono all’unisono,
diverremo luminosi, ossia partecipi dello
splendore del Dio che è «luce» e che è «amore»
(1Giovanni 1,5; 4,8.16). Ci ammonisce san Giacomo:
«Se un fratello o una sorella sono senza
vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano, e uno
di voi dice loro: Andatevene in pace, riscaldatevi
e saziatevi! senza dare loro il necessario
per il corpo, che giova?» (2,15-16).
Pubblicato il 31 marzo 2011 - Commenti (0)
24 mar
Salimbeni Lorenzo (1374 ca. - 1420 ca): La Samaritana, Eremo di Lecceto.
"Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità"
(Giovanni 4,24)
Il pozzo è profondo 32 metri ed è circondato
dalle pareti di una chiesa ortodossa che
non fu mai completata. Su di esso si ergono
i due monti noti anche alla Bibbia che li ha
evocati in senso simbolico, il verdeggiante Garizim,
segno di benedizione, e il pietroso
Ebal, emblema di maledizione (Deuteronomio
27). Il primo era divenuto anche il monte
sacro dei Samaritani che su di esso celebrano
ancor oggi la loro Pasqua. A quel pozzo,
posto a valle e attribuito al patriarca biblico
Giacobbe, sosta in un caldo giorno estivo Gesù
e il celebre inno Dies irae alluderà proprio
a quella pausa che Cristo si concede, mentre i
suoi discepoli si sono diretti al vicino villaggio
di Sicar per trovare cibo, e la tramuta in
un simbolo: Quaerens me sedisti lassus, eri seduto
stanco là, col desiderio di cercarmi...
Ed effettivamente una persona s’avanza in
quel mezzogiorno assolato: è una donna di
quella comunità eterodossa che ancor oggi
sopravvive nella vicina città di Nablus, una
samaritana. Sappiamo tutti – sulla base dello
straordinario racconto del capitolo 4 di Giovanni
– la piega che prende quell’incontro
tra Gesù e la donna dalla vita sentimentale
piuttosto movimentata. L’acqua di quel pozzo
diviene un alto segno spirituale: «Chiunque
beve di quest’acqua, di nuovo avrà sete.
Ma chi beve dell’acqua che io gli darò non
avrà più sete. Anzi, l’acqua che gli darò diverrà
in lui sorgente di acqua che zampilla per
la vita eterna» (4,13-14).
Il dialogo, però, acquista un’ulteriore svolta.
Tende ora verso l’infinito mistero di Dio e
verso la relativa conoscenza e adesione da
parte dell’uomo. Le parole di Cristo si fanno
ancor più solenni: «È giunto il tempo in cui i
veri adoratori adoreranno il Padre in spirito
e verità» (4,23). Ed è a questo punto che viene
offerta quella definizione di Dio e del credente
che costituisce il frammento da noi proposto:
«Dio è spirito» e l’atteggiamento profondo
del fedele è quello dell’adorare in «spirito
e verità». Dobbiamo subito spazzar via un’interpretazione
“spiritualistica” e intimistica
che, come non di rado è avvenuto, ha dato
origine a una religiosità di stampo individuale,
interiore, misticheggiante, fin esoterico.
Secondo questa concezione, il vero credente
è colui che adora Dio stando in contemplazione
davanti all’architettura del tempio cosmico,
oppure nel più modesto spazio della
sua camera e incontra il suo Signore nella
sua coscienza che alla fine risulta il tempio
autentico in cui Dio risiede. Pur essendo suggestiva,
questa visione non spiega la genuina
concezione del Gesù giovanneo. «Spirito
e verità» sono intrecciati tra loro al punto di
essere quasi sinonimi. Lo «Spirito» è il comunicarsi
di Dio che ha in Cristo la sua espressione
perfetta, e la «verità» è la Parola divina che
lo stesso Cristo annunzia. In questa linea va
la dichiarazione che fa san Paolo: «Il Signore
[cioè Cristo] è lo Spirito e dove c’è lo Spirito
del Signore c’è libertà» (2Corinzi 3,17).
Senza negare lo Spirito Santo Paraclito, viene
presentato Cristo nella sua funzione di rivelatore
perfetto del Padre e della sua parola:
«Dio nessuno l’ha mai visto, ma il Figlio
unigenito che è nel seno del Padre, lui lo ha
rivelato» (Giovanni 1,18). La fede e il culto
cristiano sono, quindi, l’adesione viva e piena
alla persona di Cristo, al suo Vangelo, alla
sua offerta di comunione: «Se rimanete in
me e le mie parole rimangono in voi, chiedete
ciò che volete e vi sarà dato» (Giovanni
15,7). Ed essere in Cristo è essere in Dio: «Io
in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità
» (Giovanni 17,23).
Pubblicato il 24 marzo 2011 - Commenti (0)
16 mar
L'Eterno appare a Mosè di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto (1518 - 1594). Venezia, Scuola Grande San Rocco.
"Noi tutti, a viso scoperto, riflettiamo come in uno specchio la gloria del Signore e così siamo trasformati in quella stessa immagine, di gloria in gloria."
(2Corinzi 3,18)
«Quando Mosè scese dal monte Sinai non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con Dio. Aronne e tutti gli Israeliti, vedendo raggiante la pelle del suo viso, ebbero paura di accostarsi a lui... Mosè, allora, si pose un velo sul volto» (Esodo 34,29-30.33). L’uomo non esce indenne dall’incontro con Dio, viene quasi trasfigurato, tanto da irradiare luce attorno a sé. San Paolo sta meditando appunto su questo passo biblico e lo applica al cristiano con una variante radicale. Prima, però, diamo uno sguardo generale all’intero testo che l’Apostolo sta dettando.
La Seconda Lettera ai Corinzi – ha scritto un suo commentatore, il
tedesco Otto Kuss – «riflette il temperamento, la ricchezza
caratteriale, l’eccitabilità persino, la ruvidezza di Paolo e anche la
confusione della situazione» che si era creata nella tormentata comunità
greca di Corinto.
Lo scritto è anch’esso molto travagliato, con salti
tematici, a tal punto che non pochi esegeti hanno ipotizzato che esso
sia una specie di collage di diverse lettere dell’Apostolo qui
unificate. A questo proposito c’è un’immagine di grande intensità che
vorremmo riproporre: «La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei
nostri cuori... Siete come una lettera di Cristo, composta da noi,
scritta non con l’inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su
tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei cuori» (3,2-3).
A questa
immagine si accosta quella del volto radioso del cristiano. Chi vive a
contatto con Dio si trasforma e non deve nascondere questa luminosità,
perché essa può rischiararei fratelli. Ecco, allora, la variante che
l’Apostolo introduce rispetto al passo biblico da cui è partito. A Mosè
era stato suggerito di celare una luce troppo forte; Paolo, invece,
ricalca le parole che Cristo aveva rivolto ai suoi discepoli: «Voi siete
la luce del mondo... non si accende una lucerna per nasconderla sotto
un moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che
sono in casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché
vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei
cieli» (Matteo 5,14-16).
Non possiamo, però, ignorare un aspetto nella
comparazione che Paolo instaura tra Mosè e il cristiano e, quindi, tra
l’antica e la nuova alleanza. Egli vuole, infatti, sottolineare una
discontinuità, una differenza che non deve però condurre a negare il
legame pur profondo che ci unisce alla prima alleanza. Sappiamo quanto
l’Apostolo sia orgoglioso di definirsi «circonciso l’ottavo giorno,
della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei,
fariseo secondo la Legge» (Filippesi 3,8). Qual è, allora, la diversità
che viene ora marcata?
La risposta è semplice. Per l’Antico Testamento
il volto divino, cioè l’intima essenza personale del Signore, è
invisibile a occhio umano perché è come un oceano di luce che acceca, e
già il riflesso di essa stampato sul viso di Mosè si rivela
insopportabile allo sguardo degli Israeliti. Lo stesso Mosè aveva
implorato di contemplare pienamente quel volto, ma la risposta era stata
negativa: a lui era apparso solo il dorso del Signore che si
allontanava (Esodo 33,18-23). Con l’Incarnazione, invece, nel volto di
Cristo c’è la possibilità di vedere il Padre, cioè Dio («Chi ha visto me
ha visto il Padre», Giovanni 14,9). Per questo san Giovanni, in
apertura alla sua Prima Lettera, dichiarerà di aver potuto «vedere con
gli occhi, contemplare e toccare con le mani il Verbo della vita, perché
la vita [divina] si è fatta visibile» in Gesù Cristo (1,1-2).
Pubblicato il 16 marzo 2011 - Commenti (1)
10 mar
James Jacques Tissot: La maledizione (particolare), c. 1896-1902. New York, The Jewish Museum.
"Si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio, conoscitori
del bene e del male."
(Genesi 3,5)
Nel giardino dell’Eden c’era un albero che non è registrato nei manuali di botanica. In ebraico si chiama ’es da’at
tob wara’, «l’albero della conoscenza del bene e del male», e non è una pianta fisica ma metafisica, simbolica. Forse anche
qualche nostro lettore è convinto che si tratti di un melo, ma è vittima di un abbaglio. L’equivoco nasce da una sorta di gioco
di parole, possibile però soltanto in latino. In quella lingua, infatti, hanno un suono molto affine questi tre vocaboli: malus
(melo), malum (male) e malus (cattivo). Ecco spiegato l’inganno che ha generato la celebre “mela di Eva”, legata appunto al
“male” che ne è seguito.
Il discorso, in verità, è serio e tocca il cuore
della morale. Cerchiamo, quindi, di illustrare
il significato di quell’albero misterioso
e comprenderemo appieno anche il passo
biblico che abbiamo proposto alla nostra riflessione.
Innanzitutto l’immagine vegetale
è per la Bibbia segno di sapienza, indica un
sistema di vita: il Salmo 1, ad esempio, presenta
il giusto come un albero radicato nei
pressi di un ruscello, le cui foglie non avvizziscono
e i cui frutti sono gustosi e costanti.
C’è, poi, la “conoscenza”, la da’at che, nella
cultura biblica, non è solo intellettuale, ma
è anche un atto globale della coscienza che
coinvolge volontà, sentimento e azione. È,
pertanto, una scelta radicale di vita. Infine,
ecco «il bene e il male» che, com’è ovvio, sono
i due perni della morale.
A questo punto siamo tutti in grado di
identificare quest’albero simbolico: è l’incarnazione
della morale nella sua pienezza,
che proviene da Dio, colui che pianta nel
cuore di ogni creatura umana questa realtà
viva e decisiva. I frutti, quindi, sono solo donati,
non possono essere sottratti. L’uomo e
la donna sono là, con la loro libertà, sotto
l’ombra di quell’albero e compiono una scelta
drammatica. Sollecitati dal serpente, emblema
del tentatore che scuote la nostra libertà,
essi strappano il frutto, ossia – fuor di
metafora – vogliono decidere in proprio quale
sia il bene o il male, rifiutando di riceverli
come codificati da Dio.
Si comprende, allora, il significato profondo
dell’invito del tentatore: strappare quel
frutto vuol dire diventare arbitri («conoscitori
») del bene e del male, artefici autonomi
della morale, creatori di ciò che è giusto e di
ciò che è perverso a proprio piacimento. È
appunto «diventare come Dio». È, questa, la
radice del “peccato originale”, anzi, è l’essenza
ultima di ogni peccato. È un po’ quello
che i Greci definivano come hybris, ossia la
sfida che il ribelle lancia contro la divinità.
Con questa scelta si giunge non nel cielo sognato
da Adamo ed Eva e fatto balenare loro
dal serpente come la grande illusione; si precipita,
invece, nel cuore della tenebra, nell’abisso
del peccato e della colpa.
Detto in altri termini, l’anima oscura del
peccato è la superbia, non per nulla considerata
come il primo dei vizi capitali: è la folle
aspirazione a sostituirsi a Dio definendo autonomamente
il bene e il male. La storia umana
è l’amara documentazione dei risultati ottenuti,
una volta imboccata questa via. Risuona,
allora, il monito di un sapiente biblico
del II secolo a.C., il Siracide: «Dio in principio
creò l’uomo e lo lasciò in mano al suo proprio
volere. Se vuoi, osserverai i comandamenti:
l’essere fedele dipende dalla tua buona
volontà… Davanti agli uomini stanno la
vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che
egli sceglierà» (Siracide 15,14-15.17).
Pubblicato il 10 marzo 2011 - Commenti (0)
03 mar
Guercino (1591 - 1666), Il Padre eterno, Torino, Galleria Sabauda.
"Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo! Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze".
(Deuteronomio 6,4-5)
Nel film Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo, quando la protagonista che, per sopravvivere, ha scelto di espletare la funzione di sorvegliante dei suoi fratelli ebrei nel lager nazista, vede il loro terribile esito finale, non riesce più a trattenersi e pronuncia la sua professione di fede, quella che è quotidianamente sulle labbra di ogni israelita: Shema’ Jisra’el, «Ascolta, Israele!...».
Si colloca, così, di nuovo dalla parte delle vittime e si sacrifica per permettere al prigioniero russo di cui si è innamorata e ad altri ebrei di fuggire dal campo. Noi abbiamo ora proposto gli stessi versetti mirabili che costituiscono anche per Gesù «il più grande e il primo dei comandamenti» della Bibbia, quando risponde al «dottore della Legge che lo interroga per metterlo alla prova» (Matteo 22,35-38).
Tre sono le osservazioni di commento che ora vorremmo riservare a questo passo capitale nella spiritualità giudaica e cristiana. Innanzitutto ci soffermiamo sull’imperativo «Ascolta!», in ebraico Shema’. La Bibbia esalta questo verbo, tant’è vero che esso punteggia il Deuteronomio, il libro della Legge proclamata, e “ascoltare” è sinonimo di “obbedire”. Si tratta, quindi, di un’adesione intima e non di un mero sentire esterno, di un orecchio libero dalle “ortiche” delle chiacchiere (per usare l’espressione della poetessa ebrea Nelly Sachs). È il non essere «ascoltatore smemorato ma colui che mette in pratica», come scrive san Giacomo (1,25). «Ascolta» e «amerai» sono, infatti, nel nostro testo in parallelo tra loro.
La seconda considerazione tocca, invece, il cuore di quell’ascolto-obbedienza. È l’accoglienza ferma della professione di fede monoteista: «Il Signore è uno solo!». Dio non ha attorno a sé un pantheon,ma non è neppure l’ente supremo astratto, immobile e impassibile nella sua eternità e nella sua trascendenza. Infatti, si dice che egli «è il nostro Dio», ha cioè con noi un legame di alleanza. In questa luce si capisce anche perché la Bibbia non è un’asettica raccolta di teoremi teologici, ma è una storia viva e tormentata di relazione tra due soggetti personali, liberi e capaci di amore, Dio e l’umanità.
Proprio per questo, la fede biblica comprende tante dimensioni. Ed è ciò che è espresso nella nostra terza nota che mette l’accento sulle varie componenti dell’adesione umana. Nel testo ebraico sono implicati «il cuore, l’anima e le forze» nella loro totalità. Sappiamo che l’“anima” per la Bibbia è l’intero essere vivente, la persona nella sua capacità vitale e comunicativa, mentre il “cuore” è la coscienza e le “forze” rimandano a quell’energia che si esplica nell’agire. Siamo, quindi, in presenza di tutto l’essere umano che deve pensare, fremere, operare, scegliere, orientandosi sempre verso Dio.
È il ritratto di una fede che presenta la persona che si offre al suo Signore nella sua integralità. Sono, così, escluse certe pallide spiritualità fatte solo di vago sentimento, ma anche un impegno religioso solo esteriore e operativo. Lode e giustizia, adorazione e scelte
concrete si devono intrecciare.
A questo proposito va fatta un’osservazione finale. Quando Gesù cita il passo del Deuteronomio, introduce una variante suggestiva che alcuni studiosi ritengono legata all’orizzonte culturale del tempo, quando la civiltà greca aveva ottenuto una posizione di primato: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente». Sì, anche la ragione si deve associare alla fede perché esse sono «come le due ali» che ci conducono nel cielo della contemplazione e della verità (e l’immagine, come è noto, è dell’enciclica Fides et ratio, “fede e ragione” appunto, di Giovanni Paolo II).
Pubblicato il 03 marzo 2011 - Commenti (0)
24 feb
Gioie materne, opera di Stefano Ussi (1822-1901), Firenze, Galleria d’Arte Moderna
"Si dimentica forse una donna del suo bimbo, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece mai ti dimenticherò!"
(Isaia 49,25)
«Il cuore di una madre è un abisso in
fondo al quale si trova sempre un perdono
». Così scriveva il romanziere
francese ottocentesco, Honoré de Balzac, nella
sua opera La donna di trent’anni, illuminando
un segreto profondo del cuore materno.
È su questa base che si sviluppa anche la
stupenda dichiarazione che il profeta Isaia
raccoglie da Dio nei confronti del suo «figlio
primogenito», come è chiamato nella Bibbia
Israele (Esodo 4,22). È interessante notare
che una studiosa tedesca, Hanna-Barbara
Gerl, anni fa ha elencato, accanto a ottanta
immagini maschili applicate dalle Sacre
Scritture al Signore, una ventina di tratti
femminili e questo versetto isaiano ne è una
straordinaria attestazione.
Nello stesso libro profetico più avanti si leggerà quest’altra affermazione divina: «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (66,13). Curiosamente a Dio viene a più riprese assegnato un termine ebraico che in prevalenza è applicato alla donna, rahamîm, un vocabolo che designa le “viscere”, il “grembo”. Esso si trasforma in un aggettivo che esprime affetto, clemenza, tenerezza, misericordia. Tra l’altro, la stessa radice che sta alla genesi della parola rahamîm è ripresa dai due attributi «clemente e misericordioso » che il Corano dedica a Dio in apertura a tutte le “sure” o capitoli.
Il Signore fa questa confessione di amore materno proprio quando sta scoprendo le infedeltà di Israele che rincorre altri padri e madri, ossia gli idoli. Per riprendere l’idea di Balzac, il cuore divino perdona sempre, non può “dimenticare” suo figlio (il verbo è ripetuto tre volte), non può non fremere di commozione quando ha ancora tra le braccia la sua creatura amata. E a questo proposito vorremmo di nuovo evocare una scenetta che abbiamo tempo fa presentato nella nostra antologia di frammenti biblici luminosi.
Intendiamo riferirci al Salmo 131 in cui il fedele stesso si rappresenta «come un bimbo svezzato in braccio a sua madre». Ora, il bambino svezzato non è più il neonato che quasi inconsciamente si attacca per istinto al seno della madre: nell’antico Vicino Oriente lo svezzamento ufficiale avveniva attorno ai tre anni con un rito tribale. Si suppone, quindi, un legame di intimità più consapevole e non un mero rapporto di dipendenza biologica.
È per questo, allora, che la relazione materno- filiale (come la parallela paterno-filiale che pure la Bibbia applica a Dio e al suo popolo) si trasfigura in un simbolo mistico. Basti solo pensare all’“infanzia spirituale” esaltata da santa Teresa di Lisieux che introduce una concezione della fede fortemente personale, in cui l’amore, l’intimità e la donazione trionfano. Rimane, comunque, il primato dell’amore divino che non si «dimentica» mai, che non spegnemai la fiamma del suo ricordo appassionato, che non si lascia stravolgere dall’infedeltà o dalla cattiveria del figlio.
Per usare una colorita espressione di Tertulliano, il primo scrittore cristiano di lingua latina a noi noto, «qualunque ingiuria, quando si scontra contro l’amore, si spunta come la freccia contro un macigno».
Pubblicato il 24 febbraio 2011 - Commenti (0)
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