15 set
Bartolomeo Esteban Murillo (1618-1682), San Giuseppe con Gesù, Mosca, Museo Pushkin.
“Tutto è puro
per chi è puro.
Ma per i corrotti
e i senza fede
nulla è puro:
sono corrotte
la loro mente
e la loro coscienza."
(Tito 1,15)
Omnia munda mundis è la traduzione
latina dell’avvio del testo che
proponiamo: chi non ricorda che
questo motto risuona sulle labbra di fra
Cristoforo per placare il fraticello che non
si capacita della libertà con cui il confratello
introduce nella clausura del convento
di Pescarenico due donne, Agnese e Lucia
(Promessi sposi, cap. VIII)? Ebbene, il
frammento biblico che contiene questa
frase proverbiale va in quella linea, perché
vuole combattere ogni ipocrisia; ma
dice anche qualcos’altro che cercheremo
di scoprire. Ma partiamo dal destinatario
di questo monito.
San Paolo sta scrivendo a Tito, un discepolo
molto caro, di origine pagana, come
attesta il suo nome tipicamente latino. Lo
stesso Apostolo forse l’aveva convertito, se
si intende in questo senso l’appellativo
«mio figlio nella comune fede» (1,4). Quanto
gli fosse caro appare a più riprese soprattutto
nella seconda lettera ai Corinzi,
ove è descritto come il mediatore ufficiale
di Paolo con quella turbolenta comunità
greca. Basti leggere solo qualche battuta:
«Giunto a Troade per annunziarvi il Vangelo
di Cristo, anche se la porta mi era aperta
nel Signore, non ebbi pace finché non vi
incontrai Tito, mio fratello... Il Dio che consola
gli afflitti ci ha consolati con la venuta
di Tito» (2Corinzi 2,13; 7,6).
Questo amico e collaboratore era stato
incaricato di reggere la Chiesa dell’isola
di Creta, un’impresa ardua anche perché
Paolo non aveva una grande stima di
quei cittadini, tant’è vero che li bolla con
un motteggio escogitato proprio da uno
di loro, il poeta Epimenide di Cnosso (VI
secolo a.C.): «I Cretesi sono sempre bugiardi,
brutte bestie e fannulloni!» (1,12). Perritornare al nostro passo, dobbiamo riconoscere
che esso si apre appunto con un
detto caro anche all’insegnamento evangelico:
«Non ciò che entra nella bocca rende
impuro l’uomo; è ciò che esce dalla
bocca a rendere impuro l’uomo», osservava
Gesù (Matteo 15,16).
Sappiamo, infatti, quanto fosse rilevante
per la tradizione giudaica l’osservanza
della cosiddetta “purità” rituale con varie
abluzioni soprattutto prima di accedere
al culto. L’accento, invece, viene spostato
da Cristo e da Paolo sulla purezza di coscienza,
di pensieri e di opere. Per questo,
«tutto è puro» per chi ha l’animo puro. Ma
il nostro testo prosegue e tratteggia anche
un rovescio della medaglia, e qui l’Apostolo
attacca alcuni membri della comunità
cretese di origine giudaica che corrompono
ciò che è puro perché «sono corrotte la
loro mente e la loro coscienza». Chi è sporco
dentro contamina ciò che è puro; irradia
attorno a sé una corrente maligna
che tutto perverte.
È interessante notare che l’appello paolino
contro questi cristiani – che in realtà
sono ápistoi, cioè «senza fede» – mette al
centro due realtà umane particolarmente
apprezzate dalla cultura greca, la «mente
», nous, e la «coscienza», syneídesis. Si
vuole risalire alla radice ultima della corruzione
e della sua forza dirompente: essa
è nell’intimo dell’essere, nella sorgente
della morale e quindi delle decisioni,
dei pensieri e delle opere. Gesù, nel passo
matteano sopra citato, diceva la stessa cosa
ma usando un simbolo semitico, il cuore:
«Ciò che esce dalla bocca proviene dal
cuore e rende impuro l’uomo: dal cuore,
infatti, provengono propositi malvagi...»
e segue una lista di sette peccati o vizi, segno
di una pienezza di male che si effonde
corrompendo e devastando tutto. Ritorniamo,
perciò, alla coscienza con quella
pratica ora dimenticata che era detta
appunto “l’esame di coscienza”.
Pubblicato il 15 settembre 2011 - Commenti (1)
08 set
Vincent van Gogh, Primi passi, da Millet, 1890, New York, Metropolitan Museum of Art.
“ A Efraim io insegnavo a camminare,
tenendolo per mano...
Li attiravo a me con legami di bontà e vincoli d'amore. Ero come chi solleva un bimbo alla sua guancia, chinandomi su di lui per farlo mangiare."
(Osea 11,3-4)
Chi è genitore conosce bene la fatica e
tutti gli stratagemmi che bisogna escogitare
per convincere un bambino riottoso
a mangiare un cibo necessario ma a lui
sgradito, così come non ha certo dimenticato
la pazienza che si deve esercitare quando s’insegna
al proprio figlio a camminare. A ogni caduta
bisogna subito ricorrere a un bacio o a
una stretta per placare il piccolo che si abbandona
a un pianto omerico e inconsolabile. È curiosamente
questa la duplice scenetta che il
profeta Osea (VIII secolo a.C.) desume dalla
sua esperienza di padre e la applica al Signore
che è alle prese con un figlio così capriccioso
come Efraim, cioè Israele.
Non bisogna dimenticare che lo stesso profeta,
nelle prime pagine del suo libro, era partito
da un’altra sua esperienza familiare
tutt’altro che rara ai nostri giorni – quella di
un matrimonio in crisi – per rappresentare il
rapporto tra Dio e il suo popolo, in questo
caso incarnato dalla moglie infedele di
Osea che lo aveva abbandonato lasciandogli
da accudire tre figli. Suggeriamo, perciò,
ai nostri lettori di seguire anche il racconto
autobiografico che il profeta ci ha lasciato
nei primi tre capitoli della sua opera. Là ci si
imbatterà nel nome simbolico dei suoi tre figli,
due maschi e una femmina.
A essi, infatti, Osea, consapevole di essere lui
stesso nella sua vita un emblema per Israele,
aveva assegnato tre nomi impossibili: Izreel,
che era il toponimo di una città ove si erano
consumati delitti pubblici e privati narrati dalla
Bibbia (1Re 21; 2Re 20); Lo’-ruhamah, “Nonamata”,
per la bambina; Lo-’ammî, “Non-miopopolo”,
per il terzo maschietto. Nomi che incarnavano
sia il peccato del popolo, sia il rigetto
che il Signore aveva compiuto nei suoi riguardi.
Naturalmente, una volta che Dio e
Israele si fossero riconciliati, come il profeta sognava
nei confronti di sua moglie Gomer, i tre
nomi sarebbero stati trasformati: Izreel avrebbe
riacquistato il suo significato etimologico positivo
di “seme di Dio”, cioè fecondo, e gli altri
due figli sarebbero diventati Ruhamah, “Amata”,
e ’Ammî, “Popolo mio”.
Ciò che ci preme sottolineare è questa suggestiva
raffigurazione del Signore con sentimenti,
passioni e affetti umani. È quello
che si definisce col termine “antropomorfismo”:
un Dio così strettamente vicino alla
sua creatura da condividerne l’esperienza
personale e intima. È, questo, un primo passo
che prepara l’Incarnazione cristiana
quando il Verbo divino si fa “carne” umana,
come insegna san Giovanni (1,14).
C’è un altro aspetto che vorremmo rimarcare.
Esso riguarda una delle idee fondamentali
che la Bibbia rivela per indicare la relazione
tra il Signore e Israele e che è espressa col termine
“alleanza, patto” (in ebraico berît).
Ebbene, al Sinai questa alleanza era stata definita
ricorrendo al simbolo dei trattati tra un
sovrano e i principi vassalli. Era, quindi, un vincolo
di stampo giuridico-politico, piuttosto
estrinseco. Con Osea, invece, si passa dal patto
diplomatico all’alleanza nuziale, ove sono
ancora in gioco le violazioni (i tradimenti), ma
ben diverse sono sia la tonalità sia la qualità di
questo rapporto: per usare le parole di Osea, sono
«legami di bontà e vincoli d’amore».
Pubblicato il 08 settembre 2011 - Commenti (2)
01 set
Bernardo Zenale (1436-1526), Il giustiziato, storie di sant’Ambrogio, Milano, San Pietro in Gessate.
“ Il tempo è giunto
a pienezza,
il Regno di Dio
è vicino! Convertitevi
e credete
nel Vangelo!
(Marco 1,15)
Voltaire aveva il dente avvelenato coi preti. Tuttavia, non aveva tutti i torti quando diceva che la loro predicazione è
spesso «come la spada di Carlo Magno, lunga
e piatta»; e un altro francese famoso, Montesquieu, spiegava: «I predicatori quello che
non sanno darti in profondità te lo danno in
lunghezza».
Ho fatto questa premessa perché
quella che ora ho proposto è, per così dire, la
prima predica di Gesù, stando almeno al Vangelo di Marco. La cornice di questa citazione
suona, infatti, così: «Dopo che Giovanni Battista fu arrestato, Gesù si recò in Galilea, predicando il Vangelo di Dio, e diceva...» (1,14). Eppure questa brevità oratoria, affidata solo
a quattro frasi, è di una densità sorprendente. Abbiamo parlato di “predica”, in realtà
questo che Gesù proclama è un kerygma, in
greco un “annunzio” primo, fondamentale e
destinato a tutti, non a chi già crede, come
dovrebbe accadere per l’omelia-predica-sermone domenicale.
Le parole di Gesù sono articolate in quattro frasi che si dispongono in due coppie. La
prima coppia è di taglio “teologico”, cioè descrive l’iniziativa, l’opera, l’intervento divino. Eccone le due componenti. Innanzitutto
«il tempo è giunto a pienezza»: abbiamo tradotto così, invece del solito «è compiuto» per
essere più fedeli al greco che ha il verbo della “pienezza” (peplérotai) e che usa il vocabolo kairós, indicante il “tempo” decisivo, pieno di eventi e di vita, e non il semplice chrónos, che designa il tempo “cronologico”,
esterno e fatto di date. L’idea è, allora, squisitamente religiosa: la storia della salvezza,
iniziata con la prima alleanza di Dio con
Israele, giunge ora con Cristo al suo apice,
alla sua pienezza.
Il secondo detto della “predica” di Gesù introduce il «Regno di Dio» che è un’espressione simbolica, già presente nell’Antico Testamento, destinata a definire il disegno che
Dio vuole attuare nel mondo e nella storia,
un progetto «di verità e di vita, di santità e di
grazia, di giustizia, di amore e di pace», come
dice la liturgia della solennità di Cristo re dell’universo. Ebbene, questo «Regno di
Dio è vicino»; il verbo greco usato, enghýzein, è curioso perché in sé ha un valore di
futuro e di prossimità, come qualcosa che è
imminente, da attendere presto, o accanto
a noi; tuttavia, il verbo è coniugato al perfetto che in greco denota un’azione al pas-
sato il cui effetto perdura nel presente. Il
Regno di Dio è, quindi, già in parte compiuto, ma è ancora in azione e tende a una sua
piena attuazione futura.
L’altra coppia è, invece, “antropologica”,
ossia è riservata all’opera dell’uomo. Egli deve innanzitutto «convertirsi», in greco metanoéin, letteralmente “cambiare la mente”,
cioè la sua visione delmondo e delle sue scelte, alla luce del Vangelo. A questo mutamento radicale deve, perciò, unirsi la fede nel
Vangelo. Anche qui il greco è suggestivo perché, ricalcando un’espressione semitica che
evoca un “basarsi/fondarsi su”, richiede che
il credente fondi la sua esistenza sul Vangelo. Non è, quindi, solo un’adesione teorica al
Vangelo, al suo annuncio e ai suoi enunciati,
ma è anche una scelta coerente di vita, una
fede-fiducia piena e vitale.
Pubblicato il 01 settembre 2011 - Commenti (1)
25 ago
Beato Angelico (1387-1455), Annunciazione, particolare capitello con rondine. Madrid, Prado.
"Anche il passero
trova una casa
e la rondine
il suo nido
dove porre i suoi
piccoli,
presso i tuoi altari,
Signore degli
eserciti, mio re
e mio Dio!
(Salmo 84,4)."
Un po’ tutti qualche volta siamo stati
catturati dagli arabeschi che i voli degli
uccelli disegnano nel cielo, soprattutto
quando si tratta di rondini e passeri che
fanno parte del nostro paesaggio quotidiano.
Secoli fa anche un poeta ebreo era là, col
volto fisso in alto, nel cielo limpido di Gerusalemme,
a contemplare lo svolazzare di questi
uccelli che avevano ricavato spazi per i loro nidi
nei cornicioni del tempio di Sion. La dolce
e delicata immagine di questi uccelli si era, così,
trasformata in poesia, anzi, in preghiera.
È appunto il frammento del Salmo 84 da
noi proposto, un piccolo ritaglio contenente
quella scena e appartenente a un inno in onore
di Sion, il colle gerosolimitano che ospitava
il tempio, la sede della presenza del Signore,
cittadino tra i suoi concittadini umani.
Non ci deve stupire che in un quadretto così
intenso, amabile e spirituale entri un’invocazione
apparentemente tanto forte e fin dura,
«Signore degli eserciti», in ebraico Jhwh seba’ôt.
Questo, infatti, era il titolo divino tipico
del santuario di Gerusalemme e la prima idea
sottesa non era tanto quella delle armate
ebraiche guidate dal generale supremo, quanto
piuttosto quella cosmica dell’“esercito” delle
stelle e degli elementi naturali che obbediscono
al loro Creatore. Nel libro del profeta
Baruc si legge: «Le stelle brillano nelle loro postazioni
di guardia e gioiscono. Il Signore le
chiama ed esse rispondono: Eccoci!, sfavillanti
di gioia in onore del loro Creatore» (3,34-35).
Ma ritorniamo all’immagine del nostro versetto.
Essa è preparata da un’appassionata invocazione-
esclamazione: «Quanto sono amabili
le tue dimore, Signore degli eserciti! L’anima
mia languisce e si strugge per gli atri del Signore.
Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio
vivente!» (84,2-3). Il Salmista, a questo punto,
invidia passeri e rondini che non si staccano
dal tempio, come deve fare lui, pellegrino
che ormai sta per lasciare il tempio di
Sion, probabilmente dopo una delle tre cosiddette
“feste di pellegrinaggio” (in questo caso
pare non siano né Pasqua, né Pentecoste, bensì
la solennità delle Capanne, legata alla vendemmia:
si parla, infatti, nel versetto 7 delle
«prime piogge» che sono appunto quelle autunnali).
Fortunati, dunque, questi uccelli che hanno
qui la loro dimora e non si devono distaccare
per ritornare a valle, nella quotidianità.
Dietro di essi l’orante intravede i ministri
del tempio che hanno una residenza perpetua
e non solo temporanea (come il pellegrino)
a Sion, in una costante intimità con Dio.
Tuttavia, egli non rimpiange questa manciata
di ore che ha trascorso lassù e che adesso
è finita, perché «anche un sol giorno nei
tuoi atri vale più di mille» altrove. E continua:
«Ho scelto di stare sulla soglia del mio
Dio piuttosto che dimorare nelle tende degli
empi» (84,11). È evidente il contrasto tra due
«tende», quella dell’arca dell’alleanza del Signore
in Gerusalemme, e i padiglioni dei
templi idolatrici o dei palazzi dei potenti.
Solo nella casa del vero Dio c’è la vita, il
sole, la protezione contro gli incubi del male:
«Sole e scudo è il Signore Dio che concede
grazia e gloria e non rifiuta il bene a chi cammina
con rettitudine» (84,12). Il clima spirituale è
quello che esprime anche un poeta mistico indiano,
nella sincerità della sua fede. È Kabir,
vissuto nel XV secolo, che cantava: «O cuore
mio, non staccarti dal sorriso del tuo Dio, non
errare lontano da lui. Colui che veglia sugli uccelli,
sulle bestie e gli insetti, colui che ti cura
da quand’eri ancora nel grembo di tua madre,
non ti proteggerà ora che ne sei uscito?».
Pubblicato il 25 agosto 2011 - Commenti (2)
18 ago
San Pietro, particolare del mosaico della cupola, Ravenna, Battistero Ariani.
"Tu sei Pietro e su questa pietra
edificherò la mia Chiesa e le potenze dell’Ade non prevarranno su di essa.
(Matteo 16,18)."
Avanza il Papa nel grandioso scenario
della basilica di San Pietro e il coro della
Cappella Sistina intona il canto possente
del Tu es Petrus: è questa un’esperienza
emozionante che tutti i lettori hanno fatto almeno
una volta in vita, giungendo a Roma
come pellegrini.
Era, quindi, necessario che
proponessimo anche noi all’interno della nostra
antologia questo passo biblico capitale,
includendovi idealmente il versetto successivo
che lo completa: «A te darò le chiavi del Regno
dei cieli: ciò che legherai sulla terra sarà
legato nei cieli e ciò che scioglierai sulla terra
sarà sciolto nei cieli» (16,19).
Tre sono i simboli che reggono questo frammento
del Vangelo di Matteo. Il primo e fondamentale
è quello della «pietra» o roccia,
un segno classico nell’Antico Testamento
per indicare la fiducia che solo Dio può dare
in modo incrollabile: «Ti amo, Signore, mia
forza, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore,
mia rupe in cui mi rifugio» (Salmo 18,1-2).
Nella lingua originaria usata da Gesù, l’aramaico,
si usa una sola parola, kefa’ (divenuta
il nostro Cefa) che è «pietra» e «Pietro» senza
variazione di genere, come accade invece in
greco e in italiano. È interessante notare che
nel Nuovo Testamento la pietra fondante è
un simbolo applicato solo a Cristo e a Pietro.
L’Apostolo, quindi, rende visibile nella storia
la “fondazione” primaria e divina di Cristo.
Per questa via Gesù non vuole lasciare isolati
e dispersi i suoi seguaci, ma raccoglierli
in una comunità strutturata, la Chiesa appunto,
un termine greco che significa “convocazione”
da parte di Dio di un’assemblea,
proprio come si aveva nel vocabolo equivalente
ebraico qahal che indicava la “chiamata”
di Dio rivolta a Israele per unirsi in una
“comunità” liturgica e spirituale. Dalla pietra
basilare di fondazione sulla quale si erge la
casa ideale della Chiesa si passa alle «chiavi»
per aprirne la porta ed essere ammessi.
Il simbolo incarna, dunque, l’autorità su
una casa, una città, un regno. È illuminante,
al riguardo, quanto scrive il profeta Isaia in occasione
di un avvicendamento nella carica del
maggiordomo regio di Gerusalemme, in pratica
del primo ministro. A un certo Sebna subentra
Eliakim e a lui si annunzia: «Gli porrò sulla
spalla la chiave della casa di Davide: se egli
apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno
potrà aprire» (Isaia 22,22). È anche qui significativo
notare che solo Cristo e Pietro
hanno in mano questa chiave nel Nuovo Testamento.
Infatti, nell’Apocalisse (3,7) si legge:
«Così parla il Santo, il Veritiero, Colui che
ha la chiave di Davide: quando egli apre nessuno
chiude, quando chiude nessuno apre».
È così pronto attraverso questa metafora –
che ha dato il titolo anche a un fortunato romanzo
di Archibald J. Cronin, Le chiavi del Regno
(1942), dedicato alla missione sacerdotale –
il terzo e ultimo simbolismo, quello del «legare
e sciogliere», parallelo all’«aprire-chiudere» connesso
alle chiavi. L’immagine è ben nota anche
nella tradizione giudaica ed è di stampo giuridico:
il «legare e sciogliere» indica innanzitutto
il potere di giudicare e di perdonare i peccati
nel nome del Signore, come Gesù ripeterà
anche per gli altri apostoli: «Tutto quello che
legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto
quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in
cielo» (Matteo 18,18). E come il Risorto ribadirà,
esplicitando il valore del simbolo, nell’incontro
con gli apostoli la sera di Pasqua: «A coloro a cui
perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro
a cui non perdonerete, non saranno perdonati
» (Giovanni 20,23).
Pubblicato il 18 agosto 2011 - Commenti (1)
11 ago
El Greco (1541-1614): Il Salvatore, Toledo, Cattedrale.
"Dio nostro salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità.
(1 Timoteo 2,3-4)."
L’epistolario paolino si chiude con un fascicolo
di tre scritti omogenei che dal
Settecento si usa chiamare “Lettere pastorali”,
a causa del loro tema dominante e
dei loro destinatari, Timoteo e Tito collaboratori
dell’Apostolo. La loro originalità ha fatto
ipotizzare a molti esegeti biblici una mano diversa
rispetto a quella di Paolo, forse quella di
un discepolo: ad esempio, su un vocabolario
di 848 parole greche diverse che qui vengono
usate, ben 305 non si ritrovano mai nelle lettere
paoline classiche. Tuttavia, è anche possibile
che queste pagine testimonino un’evoluzione
nel pensiero e nello stile dell’Apostolo,
ormai giunto nell’ultima fase della sua esistenza
(si legga il suo bellissimo “testamento”
in 2Timoteo 4,6-8, che a suo tempo abbiamo
proposto in questa nostra rubrica).
Ora, dalla Prima Lettera indirizzata al discepolo
Timoteo – di sangue misto (padre greco e
madre ebrea) e fatto circoncidere da Paolo per
quieto vivere nei confronti della comunità
giudeo-cristiana – abbiamo estratto un passo
molto citato ed effettivamente di grande forza
tematica. A prima vista sembra essere la proclamazione
di una sorta di salvezza universale,
a prescindere dalle religioni, dalle scelte
personali, dalle situazioni contingenti, così da
riportare in vigore l’idea di un inferno vuoto.
In realtà, come è esplicitato nel testo e nel contesto,
l’Apostolo introduce due nodi capitali.
Innanzitutto egli sta parlando della “volontà”
di Dio, cioè del suo progetto che ha rivelato
a profeti e apostoli attraverso Cristo, un
piano che vorrebbe la salvezza di tutte le creature.
Come si legge nel libro del profeta Ezechiele:
«Forse che io ho piacere della morte
del malvagio – oracolo del Signore – o non
piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?
» (18,23). Per questo egli offre con insistenza
la sua grazia, che è come una mano sicura
che strappa dalla palude del peccato l’uomo,
suo capolavoro (Geremia nel capitolo 18
della sua profezia e Paolo in Romani 9,21 usano
l’immagine del vasaio).
C’è, quindi,
un’azione divina che interviene efficacemente
sulla sua creatura e sulla sua storia.
Tuttavia, il Creatore non smentisce sé stesso,
cancellando con la sua potenza la libertà
che egli ha concesso all’umanità. Ecco perché
il progetto divino sa già che l’uomo può ribellarsi
e scegliere di procedere su un’altra via rispetto
a quella tracciata dal disegno di Dio. È
un po’ questa l’amarezza o, se si vuole, la delusione
di Dio che potremmo rappresentare
con le parole addolorate che Gesù rivolge a
Gerusalemme: «Quante volte ho voluto raccogliere
i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini
sotto le ali, ma voi non avete voluto!» (Luca
13,34). Affermava Benedetto XVI nell’enciclica
Spe salvi: «Possono esserci persone che
hanno distrutto totalmente in sé stesse il desiderio
della verità e la disponibilità dell’amore...
È questo che si indica con la parola inferno
». Grazia divina e libertà umana devono,
quindi, incrociarsi per la salvezza.
Una seconda nota è da cercare nel contesto
ove si delinea la via sulla quale si compie
la salvezza. È quella «verità» che Dio vorrebbe
fosse conosciuta: «Uno solo è Dio e uno solo
è il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo
Cristo Gesù, che ha dato sé stesso in riscatto
per tutti» (2,5-6). La via della salvezza è stata,
dunque, aperta da Cristo col suo sacrificio
liberatore e tutti – esplicitamente o su percorsi
del loro spirito e della loro vita che solo
Dio conosce – devono incamminarsi su questo
itinerario di salvezza e redenzione che ha
la meta luminosa della gloria, allorché «Dio
sarà tutto in tutti» (1Corinzi 15,28).
Pubblicato il 11 agosto 2011 - Commenti (2)
03 ago
La Cantina, Trophime Bigot (1579-1650), Firenze, Galleria Uffizi.
"Non ti affascini il vino che rosseggia
scintillando nella coppa,
morbidamente fluendo!
Alla fine ti morderà come un serpente e
ti pungerà come una vipera.
(Proverbi 23,31-32)."
«Il vino mi spinge, / il vino folle che fa
cantare anche l’uomo più saggio / e lo
fa ridere sguaiatamente, lo costringe
a danzare / e gli tira fuori parole che sarebbe
meglio tacere». Così Omero in un ritratto efficace
della persona ubriaca (Odissea XIV,
463-466). Oh, sì, il calice di vino scintillante
è una tentazione a cui, una volta ceduto, si
procede lungo una china dolce e impercettibile
che ha come tappe solo un appello reiterato
che un altro poeta greco, Alceo (VII-VI
sec. a.C.), così formulava: «Presto, riempite di
nuovo il cratere di vino soave!». E alla fine,
ecco la caduta nell’avvilimento che non risparmia
nessuno, stupido e saggio. Lasciamo
la parola ancora a un autore dell’antichità,
il latino Seneca che all’amico Lucilio scriveva:
«L’ubriachezza accende e porta alla luce
tutti i vizi, togliendo quel senso del pudore
che è un freno agli istinti perversi»
Neanche la Bibbia manca all’appello in
questa ideale antologia di ammonimenti sapienziali
sulla degenerazione che l’alcol può
produrre. È ciò che tratteggia in modo vivacissimo
il libro dei Proverbi in una sua sezione
che ricalca vari elementi della saggezza
egizia, in particolare delle “massime” di
Amen-em-ope (X sec. a.C.). Il quadretto, dopo
il frammento da noi proposto, continua
così: «Allora i tuoi occhi vedranno cose strane,
la tua mente ti farà biascicare frasi sconnesse.
Ti sembrerà di giacere in alto mare oppure
di essere sospeso in cima a un albero
maestro. Dirai: “Mi hanno picchiato, eppure
non sento dolore! Mi hanno bastonato, ma
non mi sono accorto. E quando mi sveglierò?
Chiederò ancora vino!”» (23,33-35).
La finale, che ripete ciò che diceva sopra Alceo,
traccia il cerchio vizioso che ormai s’è
creato e che conduce alla dipendenza. È un
discorso che ai nostri giorni si potrebbe aggiornare
introducendo l’analoga devastazione
fisica, mentale e spirituale indotta dalla
droga. L’esortazione a essere in guardia contro
il vizio della gola, che non per nulla è
uno dei sette peccati capitali, è un’indicazione
morale sempre necessaria. Perciò, davanti
alla coppa rosseggiante che scintilla, sarebbe
meglio ascoltare solo musicalmente e non
obbedire materialmente all’invito di Violetta,
Alfredo e del coro della Traviata di Giuseppe
Verdi: «Libiam, libiam ne’ lieti calici, che
la bellezza infiora...»
Un altro sapiente biblico, il Siracide, ribadisce
la stessa lezione: «Non esagerare col vino
perché ha mandato molti in rovina». Ma
aggiunge un’altra nota che apre un diverso
profilo di questo che è pur sempre un frutto
della natura e che «allieta il cuore dell’uomo
» (Salmo 104,5): «Il vino è come la vita degli
uomini, purché tu lo beva con misura.
Che vita è mai quella di chi non ha vino? Esso,
infatti, fu creato per la gioia degli uomini.
Allegria del cuore e gioia dell’anima è il vino
bevuto a tempo e con misura» (Siracide
31,25-28). È su questa linea che il vino può essere
assunto a simbolo messianico, illustrandone
la gioia, la festosità, la bellezza
Il profeta Amos, infatti, annuncia: «Verranno
giorni in cui dai monti stillerà il vino nuovo
e colerà giù dalle colline» (9,14). E a lui farà
eco Isaia: «Preparerà il Signore degli eserciti
un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti,
di vini raffinati» (25,6). Non è possibile,
infine, ignorare che Cristo sceglierà proprio
questo segno semplice, che è sulle tavole
di tutti i giorni, per farlo diventare destinatario
di parole e di una funzione sorprendenti:
«Questo calice è la nuova alleanza
nel mio sangue, che è versato per voi... Vi dico
che d’ora in poi non berrò di questo frutto
della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo
con voi, nel Regno del Padre mio» (Luca
22,20; Matteo 26,29).
Pubblicato il 03 agosto 2011 - Commenti (0)
28 lug
Pieter Paul Rubens (1577-1640), Cristo risorto, Firenze, Galleria Palatina.
"Chi ci separerà
dall’amore
di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione,
la fame, la nudità,
il pericolo,
la spada?
In tutte queste
cose siamo supervincitori!
(Romani 8,35.37)"
Forse qualcuno si stupirà per la nostra
traduzione, apparentemente troppo moderna,
dell’ultima riga del frammento
paolino proposto per la nostra riflessione:
«siamo supervincitori!». In realtà, questa è
proprio la traduzione quasi letterale del verbo
greco usato dall’Apostolo, hypernikômen,
“noi stravinciamo”. La frase, però, prosegue
con una specificazione necessaria che ora
esplicitiamo: noi trionfiamo sul male «grazie
a colui che ci ha amati». Alla radice della nostra
potenza c’è l’invincibile amore divino,
che diventa la nostra fortezza invalicabile
da parte delle orde del male che ci assedia. Ci
sentiamo coraggiosi e sereni, un po’ come Geremia,
giovane fragile e sensibile che, però,
nel giorno della sua vocazione aveva ricevuto
dal Signore questa promessa: «Io faccio di
te come una città fortificata, una colonna di
ferro e un muro di bronzo» (1,18).
San Paolo elenca le oscure energie che vorrebbero
strapparci dall’abbraccio a Cristo, abbattendo
così la nostra fede. Secondo la tipica
simbologia numerica, egli elenca un settenario
di forze nemiche: la tribolazione,
l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità,
il pericolo, la spada. Sono segni diversi di
uno stato di prova in cui si miscelano angustie
interiori e incubi esterni, e che potrebbero
essere trascritti ai nostri giorni ricorrendo
alle varie difficoltà personali e sociali in cui
viene a trovarsi chi tiene alta la fiaccola della
sua fede in Cristo. È un po’ quello che aveva
fatto lo scrittore Ferruccio Parazzoli quando
aveva intitolato un suo romanzo del 1990 La
nudità e la spada, descrivendo però vicende
ecclesiali – naturalmente trasfigurate – contemporanee
a quegli anni.
Il nostro passo è incastonato in un paragrafo
più ampio ove l’Apostolo elenca un’altra
serie di ostacoli o di forze che cercano di costringerci
a un’apostasia da Cristo. Ecco la
nuova lista che si modula, però, questa volta
su un altro simbolismo numerico, quello decalogico:
«Né morte né vita, né angeli né principati,
né presente né avvenire, né potenze,
né altezza né profondità, né alcun’altra creatura
potrà mai separarci dall’amore di Dio
che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Romani
8,38-39). La visione si fa ora ancor più
grandiosa e assume contorni cosmici e storici.
Contro di noi può militare un esercito possente
e misterioso, nel quale marciano anche
oscure forze diaboliche; ma l’amore del
Signore è onnipotente e impedirà che il suo
fedele gli sia strappato.
Per comprendere appieno questa sorta di
cantico di vittoria, bisogna tener conto della
collocazione del nostro brano: esso è incastonato
nel capitolo 8 del capolavoro teologico
di Paolo, la Lettera ai Romani. Ebbene, in tutti
i capitoli precedenti, l’Apostolo ha dipinto
il dilagare del male e del peccato sulla distesa
dell’umanità e della sua storia. Da qui in
avanti, invece, si celebra la potenza gloriosa
dello Spirito «che dà vita in Cristo Gesù e libera
dalla legge del peccato e della morte»
(8,2). Per questo il fedele, che è salvato
dall’amore di Cristo, avanza ora sereno e fiducioso
anche in mezzo alle tempeste
dell’esistenza, stringendosi al suo Signore
e Salvatore. Riecheggiano le parole di Cristo
in quel tramonto della sua ultima sera terrena,
all’interno del Cenacolo: «Nel mondo
avrete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io
ho vinto il mondo!» (Giovanni 16,33).
Pubblicato il 28 luglio 2011 - Commenti (3)
21 lug
Scuola di Raffaello. Storie della Genesi: creazione del sole e della luna. Vaticano, Logge
"Sorge il sole da un'estremità del cielo, la sua orbita raggiunge l'altro estremo: nulla si sottrae al suo calore
(Salmo 19, 7)"
Tutto è immobile sotto un sole estivo incandescente;
nelle distese desertiche non
c’è riparo dal suo ardore, ma anche le case
delle città sono avvolte dalla calura. Eppure
il sole, sorgente di luce, è nello stesso tempo
fonte di vita. Come si legge in un testo ebraico,
un bambino chiede al maestro che cosa deve fare
la persona giusta. La risposta è: «Il sole ha
forse bisogno di fare qualcosa? Si leva, tramonta,
riscalda l’anima facendola esultare.
Il giusto deve solo imitarlo». Per tale via questo
astro è divenuto nel Vicino Oriente non solo
un segno divino, ma è stato identificato anche
con la stessa divinità. Celebre è la riforma
“monoteistica” del faraone Akhnaton (XIV secolo
a.C.), incentrata sul dio solare Aton.
Noi ora contempliamo l’irraggiare della luce
solare con gli occhi di un antico poeta biblico,
l’autore del Salmo 19, dal quale abbiamo
estratto un frammento che dipinge – secondo
la concezione geocentrica di allora –
l’orbita solare che percorre tutto l’arco del
cielo, considerato in quei tempi come una calotta
metallica, una cupola immensa (il “firmamento”).
L’invito che rivolgiamo ai nostri
lettori è, però, quello di seguire sulla loro
Bibbia l’intera trama di questo inno, luminoso
sia astronomicamente sia teologicamente.
Infatti, in esso risplendono come due soli,
l’uno fisico e l’altro spirituale.
Si comincia appunto con la raffigurazione
del “luminare maggiore” (Genesi 1,16), il sole
che risplende in cielo, che il Salmista dipinge
come un eroe che, dopo essere uscito dal talamo
nuziale ove ha trascorso la notte (le tenebre),
inizia la sua trionfale corsa sull’orizzonte,
rivelandosi simile a un atleta che non conosce
soste e stanchezza. Tutto il nostro pianeta è
avvolto dalla morsa della sua presenza ardente.
Questa simbologia era nota anche in alcuni
testi mesopotamici che invocavano così il dio
Sole: «O Sole, guerriero e atleta, e tu, Notte,
sua sposa, lanciate uno sguardo favorevole alle
mie pie azioni».
Ma nell’inno biblico c’è qualcosa di più: il sole,
che regola il ritmo del dì e della notte, non è
contemplato solo con animo lirico. In esso, ma
anche nel cielo, nel giorno e nella notte, si
cela un messaggio segreto del loro Creatore.
Un grande commentatore del Salterio, il tedesco
Hermann Gunkel, scopriva nei primi versetti
del Salmo «una musica silenziosa» che solo
l’orecchio della fede riesce a cogliere: «I cieli
narrano la gloria di Dio, il firmamento annunzia
l’opera delle sue mani. Il giorno al giorno
ne affida il messaggio e la notte alla notte ne
trasmette notizia, senza discorsi, senza parole,
senza che si oda alcun suono. Eppure la loro voce
si espande per tutta la terra…».
Così si procede fino al versetto 7, il passo da
noi citato. Da lì in avanti, invece, appare un altro
sole, quello spirituale della Legge divina,
della parola sacra che è nella Bibbia, la Torah,
descritta appunto con attributi solari: «I Comandamenti
del Signore sono radiosi, illuminano
gli occhi. La parola del Signore è chiara...
Anche il tuo servo ne è illuminato». Come
il sole fisico illumina col suo fulgore l’universo,
così Dio illumina l’umanità con lo
sfolgorare della sua parola. L’orizzonte naturale
ha come fonte di luce l’astro solare; la Legge
divina è la grande lampada che dà luce
all’orizzonte morale. La voce della natura, come
si è visto, era silenziosa; quella della parola
di Dio è invece squillante, rallegra il cuore e
illumina gli occhi dello spirito.
Pubblicato il 21 luglio 2011 - Commenti (1)
14 lug
James Sowerby (1740-1803): Brassica arvensis, pianta di senape selvatica.
"Il Regno dei cieli è simile a un grano di senape. E' il più piccolo di tutti i semi; eppure cresciuto, è più grande delle altre piante dell'orto, tanto che gli uccelli nidificano tra i suoi rami
(Matteo 13, 31-32)"
Senza ricorrere ai grossi manuali di botanica,
basta cercare su un qualsiasi
modesto dizionario la voce senapa e si
leggerà più o meno questa definizione: «Pianta
brassicacea, il cui seme minutissimo, di sapore
acuto, si macina per farne una mostarda
(la “senape”) e, in medicina, revulsivi (“senapismi”)
». Gesù tiene, quindi, nel palmo della
mano alcuni di questi grani neri minuti e davanti
a sé e ai suoi discepoli vede ergersi l’arbusto
alto e svettante di una senapa orientale,
molto più vigorosa della nostra, capace persino
di reggere un nido d’uccelli.
È una scena molto quotidiana e familiare
che si può immaginare ambientata in un viottolo
lungo il quale si allineano gli orti con le
loro modeste coltivazioni. Come sempre, Gesù
non veleggia – come fanno certi predicatori
– sopra le teste dei suoi ascoltatori, ma
parte dai loro piedi, ossia da quella terra sulla
quale sono piantati per condurre una vita
spesso disagiata e stentata, e da lì sa poi condurli
verso un orizzonte più elevato, di natura
religiosa e spirituale. Cerchiamo, dunque,
di cogliere questo movimento rivolto verso
l’infinito di Dio ma che parte da un vegetale
domestico.
Ci riferiremo, allora, all’interpretazione del
simbolismo sotteso a questa che è una delle
35 parabole narrate dai Vangeli (c’è chi ne conta
fino a 72, allargando però il concetto di “parabola”
anche a paragoni ampi, a frammenti
narrativi, a metafore espanse). Gli studiosi propongono
un’oscillazione tra due possibilità interpretative
che, a nostro avviso, riescono a
coesistere. Da un lato, il racconto esalta un
contrasto forte e fin provocatorio tra un
«più piccolo» e un «più grande»: tra le nostre
mani c’è questo seme minuto e davanti ai nostri
occhi un albero. Non si può ignorare la discontinuità,
la sorprendente differenza. Eppure
alla base sono la stessa realtà.
La lezione, ossia lo sguardo dell’anima che
sale verso il divino, cioè il Regno dei cieli, è
limpida e semplice. Il progetto di salvezza, di
pace, di amore, di verità e giustizia che Dio
vuole attuare nel mondo con Cristo e con chi
lo segue – tale è il senso della locuzione “Regno
dei cieli” – è apparentemente piccolo, fin
minuscolo, presente in un uomo umile come
Gesù di Nazaret e in un «piccolo gregge» di discepoli,
votati alla sconfitta in un confronto
con le potenze trionfali del male. Eppure la logica
del seme che diventa un albero vale anche
per il Regno e la parabola si trasforma in
un vero e proprio canto di fiducia e speranza
che spazza via gli scoraggiamenti, gli sconforti,
le frustrazioni e le delusioni.
D’altro lato, molti esegeti definiscono questo
racconto una “parabola di crescita”. L’elemento
fondamentale sarebbe proprio l’evoluzione
tra il seme e l’albero, il dinamismo efficace
che necessariamente fa esplodere l’energia
vitale del chicco di senapa e lo fa espandere
in modo sorprendente e inatteso. Si ha, così,
un altro sguardo verso l’alto, partendo da
quel semplice vegetale: è la celebrazione della
grazia divina che opera potentemente, superando
i limiti, gli ostacoli, le crisi. Come è evidente,
anche con questa interpretazione ritroviamo
la stessa lezione di fiducia e di serenità,
ma da un altro angolo di visuale.
Pubblicato il 14 luglio 2011 - Commenti (1)
07 lug
Vincent van Gogh, Pioggia (1889). Filadelfia, Philadelphia Museum of Art.
Come la pioggia e la neve scendono giù dal cielo, e non vi ritornano senza averla irrigata, fecondata e fatta germogliare, per dare seme al seminatore e pane a chi mangia, così sarà della parola uscita dalla mia bocca.
(Isaia 55, 10-11)"
La parola ebraica majîm, “acqua”, risuona
580 volte nell’Antico Testamento, come
l’equivalente greco hydôr ritorna 76
volte nel Nuovo Testamento (metà di esse
nel solo Vangelo di Giovanni). Circa 1.500
versetti dell’Antico e oltre 430 del Nuovo Testamento
sono “intrisi” d’acqua perché – oltre
ai vocaboli citati – c’è una vera e propria
costellazione di realtà che ruotano attorno
a questo elemento vitale, a partire dal mare
che spesso ha connotati negativi, quasi fosse
simbolo del caos che attenta al creato, passando
attraverso le piogge (che in ebraico
hanno nomi diversi secondo le stagioni), le
sorgenti, i fiumi, i torrenti, i canali, i pozzi, le
cisterne, la neve e così via.
Si comprende, allora, perché l’acqua si trasformi
in un emblema di Dio che in un Salmo
“primaverile”, il 65, è celebrato come il
supremo agricoltore che irriga le campagne
con il carro delle acque. Anche nella letteratura
dei Cananei, gli indigeni della Terra Santa,
si cantava «la pioggia effusa dal Cavaliere
divino delle nubi versate dalle stelle», mentre
il bacio fecondo del dio Baal faceva germogliare
la vegetazione e il temporale era
concepito come il suo orgasmo che donava alla
terra arida e assetata il seme vitale della
pioggia. A questa visione “panteistica” e materialista
la Bibbia si oppone e vede nella
«sorgente di acqua viva» (Geremia 2,13) solo
un simbolo del Signore.
Nel frammento che ora proponiamo – e
che costituisce in pratica l’ultima pagina del
cosiddetto Secondo Isaia (capp. 40-55), profeta
anonimo del VI sec. a.C. la cui opera è entrata
nel libro del grande Isaia (VIII sec. a.C.) –
l’acqua, unita alla neve, diventa invece un segno
della parola di Dio senza la quale l’esistenza
umana si tramuta in un deserto sterile.
Ciò che il profeta vuole marcare è soprattutto
la fecondità e l’efficacia di questa parola,
comparata al tipico processo naturale della
pioggia, dell’evaporazione, delle nubi e della
nuova pioggia. È un ciclo vitale che trasforma
la nostra vicenda umana quasi in una parola
divina capace, a sua volta, di rendere fertili altri
ambiti della storia.
Soprattutto si insiste sul vigore che ha in
sé la parola di Dio: essa «non ritorna a me»,
dice il Signore, «senza effetto, senza aver operato
ciò che desidero e senza aver compiuto
ciò per cui l’ho mandata». Come è evidente,
l’immagine idrica trascolora e trapassa in
quella di un messaggero celeste che ritorna
dal suo re dopo aver compiuto la sua missione.
Lasciamo, però, questa suggestiva raffigurazione
della rivelazione divina, fonte di vitalità
spirituale, e ritorniamo alla più realistica
pioggia da cui siamo partiti, che è anch’essa
principio di vitalità ma fisica.
Concluderemo, dunque, con un’invocazione
delle Diciotto Benedizioni, testo capitale
del culto giudaico: «Siano rugiada e pioggia
come una benedizione su tutta la superficie
della terra. Benedici i prodotti della terra perché
ne goda il mondo intero e concedi benedizione,
abbondanza e successo all’opera delle
nostre mani!».
Pubblicato il 07 luglio 2011 - Commenti (1)
30 giu
Beato Angelico (1387-1455), Entrata in Gerusalemme, Armadio degli argenti, Firenze, Museo di S. Marco.
Ecco viene a te
il tuo re,
giusto, vittorioso,
umile,
cavalca
un asino…
Farà sparire
il carro da guerra
e il cavallo,
e l’arco da guerra
sarà spezzato.
(Zaccaria, 9, 9-10)"
Siamo abituati a connettere questo oracolo del profeta Zaccaria a una scena a noi familiare, quella dell’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme. Ed effettivamente Cristo avanza su un’asina accompagnata da un puledro e l’evangelista Matteo subito annota: «Questo avvenne perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta…» (21,4-5) e si fa seguire la prima parte del frammento che stiamo esaminando insieme. Ebbene, vorrei porre innanzitutto l’accento proprio su quella cavalcatura che ai nostri occhi risulta modesta, l’asino, e sull’altro animale che per noi sarebbe molto più degno di un sovrano, il nobile ed elegante cavallo.
Ora, si deve ricordare che l’asino era la cavalcatura
dei principi e dei re in tempo di pace,
mentre il cavallo col suo incedere potente
e fulmineo era più adatto alle campagne
militari. Di quest’ultimo Giobbe ci ha lasciato
un ritratto folgorante: «Scalpita nella valle
superbo, con impeto va incontro alle armi.
Disprezza la paura, non teme né retrocede
davanti alla spada. Su di lui tintinna la faretra,
luccica la lancia e il giavellotto. Eccitato
e furioso, divora lo spazio; al suono del
corno non riesce a trattenersi. Al primo
squillo nitrisce: Aah…! E da lontano fiuta la
battaglia, le urla dei comandanti, il grido di
guerra» (39,21-25).
Il re che Zaccaria tratteggia ha ormai i lineamenti
messianici, e la sua non è un’opera di
distruzione ma di pacificazione e per questo
sceglie l’asino come cavalcatura. Significativi
sono, infatti, due gesti che egli compie.
Primo atto: abolisce l’esercito e gli armamenti,
eliminando carri da guerra e archi da combattimento.
È un po’ quello che sognava Isaia come
ultima meta messianica: «Spezzeranno le
loro spade e ne faranno aratri, trasformeranno
le loro lance in falci. Una nazione non alzerà
più la spada contro un’altra, non ci saranno
più esercitazioni militari» (2,4). C’è, però, anche
un secondo atto che questo re atteso e sperato
metterà nel suo programma di governo.
Egli darà il via a una diplomazia della pace,
come si legge nella riga che segue il testo
da noi citato: «Annuncerà la pace alle nazioni
». Si inaugura, così, un nuovo ordine di rapporti
internazionali, «da mare a mare, dal
Fiume ai confini della terra», ossia in tutta la
mappa geopolitica di allora, dal mar Morto
al Mediterraneo, dall’Eufrate fino all’attuale
Gibilterra, considerata come la frontiera
estrema della terra. Che questo sovrano sia
ben diverso dai politici della storia – e quindi
dagli stessi re di Giuda – appare dai tre titoli
che il profeta gli assegna.
Il primo attributo è «giusto», non solo perché
«renderà giustizia al popolo e ai poveri
secondo il diritto» (Salmo 72,2), ma soprattutto
perché in lui brillerà la giustizia divina
che è sinonimo di salvezza e benedizione.
In secondo luogo egli è «vittorioso», in
ebraico si ha la radice del verbo “salvare”,
perché su di lui risiede la protezione divina
che lo custodisce dal male che lo assedia.
Infine, il re messianico sarà «umile», in
ebraico ’anî, cioè povero, semplice, lontano
dall’arroganza e dalle prevaricazioni del potere,
simile al «popolo umile e povero» (Sofonia
3,12). Quando all’orizzonte avanzerà
un tale sovrano, si udrà un canto di gioia corale:
«Esulta grandemente, figlia di Sion,
giubila, figlia di Gerusalemme», dichiara infatti
Zaccaria in apertura al nostro frammento
biblico.
Pubblicato il 30 giugno 2011 - Commenti (1)
23 giu
San Paolo, mosaico della volta, Ravenna, Arcivescovado.
"Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno."
(Filippesi 1,21)
Potrebbe essere assunto quasi come il
motto di san Paolo. Sono poche parole
che nell’originale greco suonano così:
emoì gàr tò zèn Christòs kaì tò apothaneìn kérdos.
Il contrasto “vita e morte”, classico in tutte
le culture, viene dissolto perché il morire
non s’affaccia sul baratro del nulla: chi vi approda,
infatti, porta nella sua persona e nella
sua esistenza Cristo che è Figlio di Dio e,
quindi, vivente per sempre nell’eternità divina.
Anzi, avviene qualcosa di paradossale:
proprio perché, varcata la soglia del tempo,
non si hanno più le turbolenze della storia,
le fragilità della creatura, le debolezze della
persona che possono incrinare quell’intimità
con Cristo già ora vissuta, il morire diventa
un “guadagno”.
Certo, qualche tensione permane, come l’Apostolo fa notare nelle righe che seguono: «Sono stretto fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo (il che sarebbe meglio); ma per voi [ossia per i cristiani di Filippi e per quelli delle altre Chiese] è più necessario che io rimanga nel corpo» (1,23-24). Detto con altre parole, Paolo anela alla vita piena, totale e assoluta col suo Signore oltre la morte, ma sa di avere una missione da compiere anche nella fase temporale della sua vicenda umana, cioè quella ecclesiale che Cristo stesso gli ha affidato. Infatti, l’Apostolo definisce il «vivere nel corpo» come un «lavorare con frutto» (1,22).
Nella frase che abbiamo scelto scopriamo un aspetto particolare di questo grande evangelizzatore, la sua dimensione mistica, il suo legame intimo e profondo con Cristo, la sua comunione stretta e radicata col mistero divino che diventa una sorgente di energia e di gioia per la sua missione apostolica. Ai Galati aveva già ribadito di essere «crocifisso con Cristo»; per questo «non vivo più io, ma Cristo vive in me» (2,19-20). Ritorna un tema caro a Paolo: il cristiano attraverso il Battesimo e la fede rivive in sé il mistero pasquale di Cristo, nel suo morire e risorgere. Leggiamo con attenzione queste righe scritte ai cristiani della città di Colossi, nell’attuale Turchia centrale: «Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Ma quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria» (3,3-4).
Una nota a margine. Sopra dicevamo che Paolo comprende la necessità che egli continui a vivere e a operare nel tempo per svolgere ulteriormente la sua missione apostolica nei confronti dei Filippesi. Ebbene, se è vero che l’intimità più alta e risolutiva è quella che unisce l’Apostolo a Cristo, è altrettanto vero che egli sente con questi cristiani – più che con gli altri – un’altra intimità, quella dell’amicizia. Questi fedeli, di un’importante città della Macedonia, lo coprono di regali, mentre egli è in custodia presso il «pretorio» (1,13) e la «casa di Cesare» (4,22), in pratica la prefettura romana di Efeso. La durezza del carcere, la solitudine e la lontananza sono lenite da un affetto che unisce, sia pure a distanza, i cuori.
Sebbene molti studiosi tendano a vedere in questa Lettera la fusione redazionale posteriore di tre missive diverse inviate da Paolo ai Filippesi, alla fine la tonalità dominante è unica. La comunione di fede e di carità che unisce mittente e destinatari è il filo segreto unitario, anche quando l’Apostolo deve mettere in guardia severamente contro le devianze dottrinali che stanno allignando a Filippi (3,2-4,1). «Sono ricolmo dei vostri doni che sono un profumo piacevole, un sacrificio gradito, caro a Dio» (4,18).
Pubblicato il 23 giugno 2011 - Commenti (1)
16 giu
Mary Parker (1799-1864), Monte Sinai, acquerello, Londra, Victoria & Albert Museum.
"Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di amore e di fedeltà.”
(Esodo 34,6)
Quelle che noi abbiamo citato sono solo
le prime parole di un passo biblico che
è stato definito da un esegeta francese,
André Gelin, «la carta d’identità di Dio». Prima
di scorrere queste righe, ricostruiamo la scena
che funge da fondale. È l’alba. Mosè si è arrampicato
lungo le pendici erte e pietrose del monte
Sinai, reggendo tra le mani le due tavole
marmoree che dovranno accogliere il nuovo
Decalogo, dopo che le precedenti erano state
spezzate di fronte all’idolo del vitello d’oro eretto
dal popolo (Esodo 32,19-20). La vetta della
montagna sacra è immersa nelle nubi.
Mosè le varca e si trova nell’oscurità che
all’improvviso è squarciata da una voce possente.
È Dio stesso che si autopresenta con le
parole che abbiamo evocato. È un autoritratto
sorprendentemente dolce che si modella
sulla promessa che il Signore stesso aveva fatto
a Mosè quando costui gli aveva chiesto di
poter vedere il suo volto. «No, tu non potrai
vedere il mio volto, perché nessun uomo
può vedermi e restare vivo». Tuttavia, uno
svelamento ci sarà: «Farò passare davanti a te
tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome,
Signore, davanti a te... Ti porrò poi nella cavità
di una rupe e ti coprirò con la mano, finché
non sarò passato. Poi toglierò la mano e
vedrai solo le mie spalle, ma il mio volto non
lo si può vedere!» (Esodo 33,18-23).
Ora Mosè sa che il Dio invisibile è là, davanti
a lui, perché sta proprio proclamando il suo
nome “Signore”, in ebraico il nome sacro e impronunciabile
Jhwh. Ma subito dopo Dio aggiunge
quattro attributi che completano la sua
“carta d’identità”. Il primo è in ebraico rahûm,
che la versione “misericordioso” rende solo in
modo pallido perché il termine originale allude
alle viscere materne, a una sorta di affetto
“viscerale” appunto, totale e assoluto come
è quello di una madre o di un padre. Il secondo
aggettivo è hanûn e anche qui la traduzione
“pietoso” è esangue e debole, perché l’originale
rimanda alla “grazia”, al dono, alla gratuità
di un rapporto d’amore.
La terza qualità divina è la sua paziente attesa
che l’umanità si converta, prima che egli
debba intervenire con la sua “ira”, che in
ebraico è curiosamente (e antropomorficamente)
raffigurata con le “narici” sbuffanti
(’appîm). L’ultimo tratto è affidato a un binomio
di parole che sono quelle tipiche per definire
l’alleanza tra il Signore e Israele. In
ebraico sono hesed e ’emet, “amore” e “fedeltà”,
coppia di termini destinati a esprimere
quella ricca trama di relazioni, di sentimenti,
di affetti che intercorrono tra due persone
che sono legate tra loro da un vincolo d’amore
e da un patto di fedeltà.
La terza qualità divina è la sua paziente attesa
che l’umanità si converta, prima che egli
debba intervenire con la sua “ira”, che in
ebraico è curiosamente (e antropomorficamente)
raffigurata con le “narici” sbuffanti
(’appîm). L’ultimo tratto è affidato a un binomio
di parole che sono quelle tipiche per definire
l’alleanza tra il Signore e Israele. In
ebraico sono hesed e ’emet, “amore” e “fedeltà”,
coppia di termini destinati a esprimere
quella ricca trama di relazioni, di sentimenti,
di affetti che intercorrono tra due persone
che sono legate tra loro da un vincolo d’amore
e da un patto di fedeltà.
A questo punto il nostro frammento si allarga in un canto dell’amore, hesed, di Dio. Esso è modulato su due simboli numerici,
il 1000 e il 3+4 (allusione al 7). La giustizia divina è, certo,
perfetta perché adotta il 7, che in Oriente è segno di pienezza;
l’amore, però, usa il 1000, che è invece indizio di infinito.
Ascoltiamo, allora, le ultime parole che in quell’alba nebbiosa, sulla
cima del Sinai, Dio proclamò a Mosè: «Il Signore conserva il suo amore
per mille generazioni, perdona la colpa, la trasgressione e il peccato;
ma non lascia senza punizione, castiga la colpa dei padri nei figli e
nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (34,7).
Pubblicato il 16 giugno 2011 - Commenti (0)
09 giu
Correggio (Allegri Antonio, 1489-1534), l'Incoronata, Parma, Galleria Nazionale.
"Il Signore è lo Spirito e dove c'è lo Spirito del Signore, c'è libertà. ”
(2Corinzi 3,17)
Questa volta scegliamo una frase incisiva,
quasi lapidaria, che san Paolo incastona
in una Lettera tormentata
com’è la Seconda ai Corinzi, destinata a una
comunità travagliata e un po’ ribelle che ha
fatto molto soffrire l’Apostolo. Una frase che
non è così semplice come appare a prima vista,
tant’è vero che non sono mancati discussioni e approfondimenti da parte degli esegeti biblici.
Infatti, a prima vista sembrerebbe
che si identifichino Cristo – che nell’epistolario
paolino è chiamato Kyrios, “Signore”
– e lo Spirito Santo, oppure lo stesso Dio Padre
con lo Spirito, se si accoglie l’uso delle Sacre
Scritture secondo l’antica versione greca
che rendeva il nome divino ebraico Jhwh con
Kyrios, “Signore”.
In realtà, se noi sfogliamo la Lettera, ci accorgiamo che san Paolo conosce e distingue la Trinità: «Dio stesso ci conferma in Cristo… e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori» (2Corinzi 1,21-22). E l’ultima riga della Lettera reca questo saluto, che ancor oggi noi usiamo nella liturgia: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» (13,13).
Qual è, allora, il senso della dichiarazione di san Paolo presente nel nostro frammento? Egli forse vuole solo esaltare il nesso profondo che intercorre tra Cristo e lo Spirito Santo: Cristo lo invia col Padre nella storia dell’umanità per svelare in pienezza la sua parola di salvezza. Oppure l’Apostolo assume il termine “Spirito” in senso più lato, indicando che in Cristo c’è l’epifania dello Spirito divino, cioè della presenza salvatrice di Dio.
Ed è per tale motivo che, dove irrompe questo Spirito del Signore, fiorisce la libertà. Questa parola è ormai sulle labbra di tutti ed è inflazionata e abusata. Come diceva il filosofo mistico indiano Sri Aurobindo (1872-1950), «tutto il mondo aspira alla libertà, e tuttavia ciascuna creatura è innamorata delle proprie catene».
Un altro autore, il poeta francese “rivoluzionario” Paul Eluard (1895-1952), confessava: «Sui miei quaderni di scolaro, / sul banco e sugli alberi, / sulla sabbia e sulla neve / scrivo il tuo nome, libertà; / su tutte le pagine lette, / su tutte le pagine bianche, / pietra sangue o cenere / scrivo il tuo nome». Certo, la libertà sociale e culturale è un cardine del vivere civile e i condizionamenti e le gabbie che la società ci impone sono un male che vìola l’opera del Creatore che ha voluto libera la creatura umana.
Ma il senso che la parola “libertà” in san Paolo o in san Giovanni («la verità vi farà liberi », ad esempio) è di impronta diversa, cioè religiosa e spirituale. Da un lato, è la liberazione dal peccato, dalle catene della colpa, dagli stessi legami della Legge che ci impone una cappa di piombo di precetti senza darci la forza di osservarli e, quindi, facendoci cadere nella trasgressione.
D’altro lato, in positivo, la libertà è invece l’adesione gioiosa alla parola di Dio che dà luce e gioia, è l’accoglienza della grazia divina la quale è come un abbraccio che ci solleva dal fango del peccato.
Il respiro dello Spirito del Signore ci apre, allora, orizzonti luminosi di libertà interiore. «Mandi il tuo Spirito, Signore, sono creati e rinnovi la faccia della terra», canta il Salmista (104,30). Ecco perché dobbiamo invocare lo Spirito Santo, principio di liberazione piena e di amore. Lasciamo ora la parola a una poetessa contemporanea, Elena Bono, e a pochi suoi versi: «Lo Spirito di Dio è una colomba bianca…/ Vieni su di noi, / prima che il vento disperda le polveri stanche / e i corvi ci abbiano divorati…».
Pubblicato il 09 giugno 2011 - Commenti (0)
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