19 lug
Francesco Traini (secolo XIV), Giudizio finale, particolare con angelo e beato. Pisa, Camposanto.
"Amico, come mai
sei entrato qui senza
l’abito nuziale?...
Legatelo mani e piedi
e gettatelo fuori
nelle tenebre!"
(Matteo 16,23)
Le varie parabole di Gesù attingono
sempre alla vita sociale di un popolo.
Nel caso del banchetto nuziale
regale (Matteo 22,1-14) si fa riferimento
a un evento che, anche ai nostri giorni,
stimola l’interesse della comunicazione
e la curiosità della gente. Gesù, elaborando
un simile avvenimento, lo colora
di allusioni allegoriche modulate anche
sulla tradizione biblica: il re evoca
Dio, mentre suo figlio si trasfigura nel
Messia e il banchetto nuziale diventa
la grande celebrazione della festosa
era messianica (si legga Isaia 25,6-10);
nei servi inviati a convocare gli invitati
sono riconoscibili i profeti e gli apostoli;
gli invitati della prima cernita che si
comportano in modo così altezzoso e
fin aggressivo incarnano l’Israele peccatore
e i Giudei che rigettano Cristo; i
chiamati raccolti per le strade rimandano
ai pagani lieti di essere ammessi in
quel banchetto privilegiato, mentre la
città dei ribelli data alle fiamme è l’anticipazione
della rovina di Gerusalemme
del 70 dopo Cristo.
Rimane, però, un’altra scena piuttosto
sconcertante, introdotta solo da Matteo.
Alcuni studiosi pensano persino
che si tratti di un’altra parabola “incollata”
a quella del banchetto nuziale che è
nota anche a Luca (14,16-24). La prospettiva
sembra diversa e più universale:
siamo di fronte al giudizio finale ove
si consumerà una divisione netta, simile
a quella tra grano e zizzania di un’altra
nota parabola matteana (13,24-30).
È da questa seconda parte del racconto
che noi abbiamo desunto l’elemento
centrale piuttosto sconcertante, che vede
come protagonista un uomo senza
l’abito da cerimonia.
La perplessità che proviamo è spontanea:
una condanna così aspra è giustificata
da una semplice mancanza di etichetta?
Evidentemente no. Bisogna risalire
al simbolismo, diffuso in tutte le
culture, della veste. Essa non ha solo
funzioni concrete nei confronti del clima
o di decenza riguardo al pubblico,
ma rivela anche un aspetto emblematico,
estetico e sociale (si pensi solo alla
funzione fin esasperata della moda ai
nostri giorni). Anzi, l’abito da cerimonia
è spesso indizio di una dignità civile
o religiosa: è ciò che accade per i paramenti
sacerdotali, la corona e lo scettro
reale, la fascia del sindaco e così
via, tant’è vero che per indicare l’accesso
a una carica pubblica parliamo di
“investitura”.
È chiaro, allora, che l’assenza di abito
nuziale nel protagonista di questo secondo
racconto è indizio ben più grave di
una semplice carenza di educazione. È la
privazione di quelle opere e qualità
morali che possono ammettere al Regno
di Dio e al suo banchetto. Non è
sufficiente la vocazione a un compito (“i
chiamati”), bisogna anche adempierlo
con fedeltà e impegno così da diventare
“eletti”, cioè ammessi alla festa finale.
Fede e opere di giustizia devono unirsi
nell’esistenza, perché «non chiunque
dice: “Signore, Signore!” entrerà nel regno
dei cieli, ma colui che fa la volontà
del Padre che è nei cieli» (Matteo 7,21).
Altrimenti si è votati alle tenebre della
condanna infernale, lontani dal banchetto
del Regno di Dio. Là si avrà «pianto e
stridore di denti», un’immagine quest’ultima
non solo di freddo, come si ha nel
mondo classico e come suppone l’oscurità
con l’assenza del sole, ma anche di terrore
e di disperazione.
Pubblicato il 19 luglio 2012 - Commenti (2)
16 lug
"Parabola dei vignaioli", dal Vangelo dello zar Ivan Alexander (1355-1356). Londra, British Library.
«Questi ultimi hanno
lavorato una sola ora,
eppure li hai trattati
come noi, che abbiamo
sopportato il peso della
giornata e il caldo!».
(Matteo 20,12)
La parabola evoca, come accade
spesso alla predicazione di Gesù,
la concretezza di una situazione sociale
amaramente costante nella storia
dell’umanità. La parola di Cristo non è
né eterea né aerea, bensì è piantata
saldamente nel terreno delle vicende
umane. Di scena è ora la disoccupazione
e il precariato. Come è noto, nella
piazza del mercato, quella principale
della città, stazionavano i braccianti, in
attesa che un proprietario terriero o un
mediatore (l’infame prassi del “caporalato”
dei nostri tempi ne è la continuazione)
li prendesse a giornata.
Sappiamo lo sviluppo della parabola,
narrata dal solo Matteo (20,1-16) e scandita
sulla suddivisione della giornata secondo
l’“orologio” di allora. Si parte
con l’alba che è l’ultima parte della notte
e la prima del giorno, si procede con
la “terza ora”, cioè le nove, si passa alla
“sesta” (mezzogiorno) e alla “nona” (le
tre pomeridiane) e si giunge all’“undicesima
ora”, in pratica le cinque del pomeriggio,
alle soglie della sera e della notte.
Il compenso pattuito è di un denaro
d’argento, l’unità monetaria romana
che rappresentava il salario giornaliero
di un operaio e la spesa media di una
giornata, come si dice nella parabola
del buon Samaritano (Luca 10,35). Il denarius
recava l’effigie dell’imperatore:
si spiega così la scena del tributo a Cesare
narrata nei Vangeli (Matteo 22,19).
Strettamente parlando, quel padrone
che pattuisce con tutti un denaro di
paga, riservandolo anche a chi ha lavorato
una sola ora pomeridiana, agisce,
da un lato, correttamente sulla base del
contratto “separato” stipulato con ciascuno,
ma d’altro lato non è certo un
modello di giustizia nelle relazioni industriali.
Qual è, allora, il senso della
parabola, fermo restando che il suo
messaggio non può essere orientato
all’ingiustizia sociale? La lezione è di indole
religiosa ed esistenziale. Il padrone
della vigna lascia il passo a Dio, il
quale non lede di per sé la giustizia (il
contratto era in sé giusto), ma nei suoi
rapporti con l’umanità introduce la superiorità
dell’amore la cui generosità
va oltre la rigida norma del dovuto.
L’umanità è, infatti, costituita da persone
tutte diverse per qualità e doni ricevuti:
si va da chi ha cinque talenti a colui
che ne ha uno solo, per usare ancora
un’immagine monetaria di un’altra nota
parabola di Gesù. C’è la persona semplice
che ha poche capacità e chi, invece,
eccelle per doti straordinarie; c’è chi
è malato e fragile e chi è una quercia di
salute e di forza; c’è chi ha una modesta
dotazione intellettuale e chi è un genio;
c’è la persona debole, destinata a cadere
in errori e peccati, e c’è il giusto capace
di resistere con fermezza alle tentazioni;
c’è chi appartiene a una nazione
evoluta e privilegiata (Gesù poteva pensare
agli Ebrei, “i primi”) e c’è chi è nato
in un’area depressa e in un popolo misero
e di scarse disponibilità culturali e
sociali (i “pagani”, gli “ultimi”).
L’importante, dice Gesù, è che si entri
nel campo della vita col pieno impegno
personale. Dio, nella sua ricompensa finale,
non adotta il rigido criterio che si
fonda sui risultati, ma sceglie la via
dell’amore che premia anche chi avanza
reggendo tra le mani un piccolo frutto
del suo modesto ma reale lavoro. La vera
imparzialità è quella dell’amore che
mette sullo stesso livello chi ha ricevuto
molto e chi ha avuto poco dalla vita,
ma si è autenticamente consacrato alla
sua vocazione, anche se semplice.
Pubblicato il 16 luglio 2012 - Commenti (1)
09 lug
Dromedario utilizzato come mezzo di trasporto. Incisione tratta da "La Terre Illustree" n. 73, 24 marzo 1892. Tunisia.
"È più facile che un cammello
passi per la cruna di un ago che
un ricco entri nel regno di Dio".
(Matteo 19,24)
Il detto di Gesù, strettamente parlando, non risulta né strano né di ardua interpretazione a chi conosce il linguaggio dell'antico Vicino Oriente che ama il paradosso, i colori accesi, le tonalità forti. È stata solo la sensibilità occidentale a tentarne un ridimensionamento secondo una logica più "normale". Così c'è chi ha voluto ricondurre il greco kámêlon, "cammello" a un kámilon (la ê e la i avevano in passato e hanno oggi nel greco moderno lo stesso suono – i – nella pronuncia), che era invece una sorta di gomena o nodo marinaio: in questo modo si renderebbe meno eccessiva e più coerente l'immagine. C'è chi è ricorso fantasiosamente a una non documentata e, quindi, ipotetica porta di Gerusalemme denominata "cruna dell'ago" a causa della sua piccolezza e ristrettezza, sulla scia della "porta stretta" – evidentemente metaforica – evocata da Gesù nel Discorso della Montagna (Matteo 7,13).
In realtà, si deve lasciare il paragone in tutta la sua forza paradossale: la ricchezza è un ostacolo invalicabile per entrare nel regno di Dio che è destinato ai «poveri in spirito» e – come abbiamo visto in una precedente nostra analisi – costoro non sono tali per un vago distacco "spirituale" dai loro beni, ma perché essi sono radicalmente e totalmente liberi dall'idolatria delle cose e del loro possesso. Tra l'altro, che questo senso forte sia inteso da Gesù emerge dalla successiva reazione dei discepoli sconcertati (in greco si ha exepléssonto sfódra, cioè "furono grandemente stupiti, costernati"). E Cristo lo conferma dichiarando che la salvezza del ricco è sostanzialmente possibile solo attraverso un miracolo: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile!» (19,26).
Che il significato dell'immagine sia quello del contrasto estremo tra la microscopica cruna dell'ago e il mastodontico cammello è confermato anche da altri due paralleli esterni. Il primo è nello stesso Vangelo di Matteo, all'interno della veemente sequenza di sette "Guai!" che Gesù scaglia contro gli scribi e i farisei, rivelando che – se l'ira è un vizio capitale – lo sdegno in difesa della virtù e del bene è una virtù. Là si legge: «Guide cieche che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!» (23,24). È evidente l'implicito nesso tra questo poderoso animale e i piccoli fori del colino.
La seconda conferma viene da un testo rabbinico posteriore a Gesù, nel quale si delinea l'impossibilità e l'assurdità del far passare anche un elefante per la cruna di un ago! Cristo rivela, così, non solo la ferma condanna della ricchezza egoista che impedisce la sua sequela, come era accaduto al giovane ricco nel cui contesto è collocato il nostro detto (19,16-22), ma mostra anche la sua aderenza al linguaggio colorito della cultura in cui egli era incarnato.
In appendice ricordiamo che il cammello – in ebraico gamal, termine che vale anche per il dromedario a una sola gobba – è menzionato nella Bibbia a partire già dai patriarchi (ad esempio, Genesi 24,10-67 e 31,17.34). Curiosamente notiamo che, secoli dopo, secondo un registro riferito dal libro biblico di Esdra (2,66-67), gli Ebrei rimpatriati dall'esilio a Babilonia avevano una dotazione di ben 435 cammelli, molto più dei 245 muli, ma ovviamente meno dei più semplici asini che erano 6.720 e dei 736 cavalli. Nel Nuovo Testamento Giovanni Battista indossava abiti tessuti con peli di cammello (Matteo 3,4), mentre nella tradizione popolare beduina l'urina di cammella è considerata, a livello di cosmesi femminile, una sorta di "acqua di colonia"...!
Pubblicato il 09 luglio 2012 - Commenti (2)
28 giu
Adolphe Roger (1800-1880), Il battesimo dell’eunuco, 1840. Parigi, Notre Dame de Lorette.
"Vi sono eunuchi nati così
dal grembo materno,
ve ne sono altri resi così
dagli uomini, ve ne sono
altri che si sono resi così
per il Regno dei cieli".
(Matteo 19,12)
Il linguaggio è forte e la frase è forse la risposta a un'accusa o a un insulto lanciato dagli avversari contro Gesù che non era sposato e contro i discepoli che lo seguivano senza avere con sé le mogli: «Siete tutti degli eunuchi! ». Cristo replica usando senza imbarazzo quel vocabolo infamante, confermando così di non essere sposato, dimostrando la sua libertà nei confronti della tradizione giudaica che imponeva il matrimonio ai maestri della Legge, ma ricordando anche che la sua verginità non era una situazione meramente fisiologica o anagrafica e neppure ascetica, bensì una scelta di dedizione assoluta per il Regno di Dio e nei confronti della sua missione per il prossimo sofferente.
La triplice distinzione che egli presenta illustra questa concezione del celibato o della verginità cristiana. Si parte dagli impotenti sessuali per disfunzioni genetiche e si passa attraverso l'evocazione dei "castrati", che nell'antico Vicino Oriente erano una vera e propria categoria di funzionari (alla fine, però, rimarrà solo il titolo, come accade per l'eunuco della regina etiope Candace di Atti 8,26-40). Infine, si giunge alla scelta personale e libera dell'astinenza che non è semplicemente astensione da atti sessuali o dal matrimonio, ma è un'opzione positiva per un impegno ideale religioso e caritativo.
È quella verginità che san Paolo esalterà nel capitolo 7 della Prima Lettera ai Corinzi (vv. 25-35), presentandola come segno di donazione totale e interiore per la causa del Regno di Dio. Anche nell'Apocalisse si legge: «Questi sono coloro che non si sono contaminati con donne: infatti sono vergini» (14,4), forse con allusione alla vergine sposa dell'Agnello che è la Chiesa. È evidente che non si propone un'autocastrazione, come accadrà in qualche caso di interpretazione "letteralista" dell'antichità. Il concetto sotteso alla brutalità del termine "eunuco" è, invece, positivo e parla di consacrazione totale dell'essere e dell'amore a un ideale e a una missione.
La scelta consigliata da Gesù non significa, però, disprezzo nei
confronti del matrimonio, che è celebrato proprio nella stessa pagina
matteana al cui interno è incastonato questo detto di Cristo. Anzi,
dello stato matrimoniale viene delineato un profilo alto e l'apostolo
Paolo lo definirà un "carisma", ossia un dono divino offerto ad alcuni
(1Corinzi 7,7). Anche la comunità degli apostoli comprendeva uomini
sposati, come Pietro del quale i Vangeli menzionano la suocera (Matteo
8,14-15).
La disciplina del celibato sacerdotale farà il suo ingresso ufficiale
nel IV secolo, con i Concili locali di Elvira del 306 e di Roma del 386,
soprattutto sulla base della scelta di Cristo. Tuttavia, anche dopo,
per secoli continuerà a sussistere la prassi del sacerdozio coniugato,
come è oggi attestato dalle Chiese orientali ortodosse e cattoliche (con
l'eccezione, però, dell'episcopato).
Secondo il concilio Vaticano II, il nesso tra sacerdozio e celibato ha
«un alto rapporto di convenienza », sulla scia di una lunga tradizione
di insegnamenti ecclesiali e di spiritualità. Questo rapporto – anche se
teologicamente non essenziale al sacerdozio – è significativo e fecondo
ed è stato illustrato nel 1967 dalla Lettera apostolica Sacerdotalis
coelibatus di Paolo VI e ribadito da tanti altri testi di Giovanni Paolo
II e di Benedetto XVI.
Pubblicato il 28 giugno 2012 - Commenti (2)
21 giu
Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553), Donna sorpresa in adulterio, 1532. Budapest, Museo di Belle Arti.
"Io vi dico: chiunque
ripudia la propria moglie,
se non in caso di pornéia,
e ne sposa un’altra,
commette adulterio".
(Matteo 19,9)
Eccoci di fronte a un passo che ha suscitato una valanga di interpretazioni e commenti e che ha creato una divaricazione persino all’interno delle stesse Chiese cristiane. Facciamo
subito due premesse. La prima è estrinseca. Il testo ricorre anche in una delle sei “antitesi” che Matteo colloca nel Discorso della Montagna. In esse si illustra non tanto il superamento, ma la pienezza che Cristo vuole far emergere dal dettato biblico. Sul ripudio matrimoniale egli affermava, citando il versetto del Deuteronomio (24,1) sul divorzio: «Fu detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie – eccetto il caso di pornéia – la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio» (5,32).
La seconda premessa riguarda il contesto del nostro passo (19,1-9). In esso Gesù, provocato dai suoi interlocutori che lo volevano mettere in contraddizione con la norma sulla liceità
del divorzio «per una qualsiasi mancanza», come si affermava nel Deuteronomio, risale alla Genesi che dichiara l’uomo e la donna destinati a diventare «una sola carne» (2,24). Questo è il progetto divino sulla coppia al quale Cristo si allinea, per cui «l’uomo non deve dividere ciò che Dio ha congiunto» (Matteo 19,6). Quella del Deuteronomio è, dunque, un’eccezione concessa «per la durezza del vostro cuore» (19,8). Gesù, quindi, propone nella sua visione del matrimonio il modello dell’indissolubilità.
Ma a questo punto come spiegare l’inciso – da noi lasciato con il termine greco pornéia – che presenta un’eccezione? È probabile che qui si sia di fronte a un elemento redazionale introdotto da Matteo per giustificare una prassi in vigore nella comunità giudeo-cristiana delle origini. Sarebbe, quindi, una sorta di norma ecclesiale locale che veniva incontro alla domanda rabbinica sull’interpretazione della clausola del Deuteronomio concernente il caso del divorzio «per una qualsiasi mancanza». Nell’ebraismo si confrontavano due scuole teologiche, l’una più “liberale”, incline a concedere un largo raggio di casi di divorzio (rabbí Hillel), un’altra più restrittiva e orientata ad ammettere solo l’adulterio come giustificazione per il divorzio.
Quale sarebbe, allora, l’eccezione riconosciuta dalla Chiesa giudeo-cristiana ed espressa con il vocabolo greco pornéia? Non può essere, come si traduceva in passato, il “concubinato” non essendo esso un matrimonio in senso autentico, né una generica “fornicazione”, cioè l’adulterio, perché in questo caso si sarebbe usato il termine proprio moichéia. Tra l’altro, è interessante notare che alcune opere dei primi tempi
cristiani – come Il pastore di Erma (IV,1,4-8) – e autori come Clemente di Alessandria (Stromata 2,23) dichiarano che il marito che lascia la sposa adultera non può risposarsi perché permane il precedente legame matrimoniale.
Nel giudaismo del tempo esisteva un termine, zenût, equivalente alla pornéia matteana (“prostituzione”) che indicava tecnicamente le unioni illegittime come quella tra un uomo e la sua matrigna, condannata già dal libro biblico del Levitico (18,8;20,11) e dallo stesso san Paolo (1Corinzi 5,1). In pratica, anche se non era in uso allora questa fattispecie giuridica, si tratterebbe di una dichiarazione di nullità del matrimonio contratto, linea seguita dalla Chiesa cattolica sui casi di nullità del vincolo matrimoniale precedente. Sappiamo, però, che le Chiese ortodosse e protestanti hanno interpretato l’eccezione della pornéia come adulterio e, perciò, hanno ammesso il divorzio, sia pure limitandolo a questo caso. In realtà, la visione di Cristo sul matrimonio era netta e radicale, nello spirito di una cosciente, piena e indissolubile donazione reciproca.
Pubblicato il 21 giugno 2012 - Commenti (3)
14 giu
Albrecht Altdorfer (1480-1538), Martirio di san Floriano. Firenze, Galleria degli Uffizi.
"Chi scandalizzerà
uno solo di questi
piccoli che credono
in me, gli conviene
che gli venga appesa
al collo una macina
da mulino e sia
gettato nel profondo
del mare".
(Matteo 18,6)
Spesso questa frase è stata addotta per condannare i pedofili e persino per giustificarne la condanna a morte. Come può il “mite” Gesù che insegna il perdono, pur condannando la colpa, giungere a questo punto di crudeltà? Per interpretare correttamente il testo dobbiamo procedere per gradi. Innanzitutto puntiamo al soggetto coinvolto nello “scandalo”, termine che, come è noto, indica letteralmente il far “inciampare” uno e farlo cadere a terra, simbolo anche della tentazione perversa. Nell’originale greco non si parla di “bambini” (paidía), bensì di “piccoli” (mikroí), una categoria non anagrafica ma esistenziale, tant’è vero che subito dopo è specificata con la frase «che credono in me». Ferma restando la condanna che noi dobbiamo assegnare all’infamia della pedofilia, la questione qui trattata da Gesù è differente: di scena sono coloro che sono deboli nella fede, “piccoli” nel credere, che devono ancora crescere e che possono essere facilmente scandalizzati dal nostro cattivo esempio di “maturi” e “adulti” nella fede. Anche san Paolo ammonisce i cristiani di Roma a saper «accogliere chi fra di voi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni» (14,1). Cristo, dunque, condanna con durezza chi mette consapevolmente in crisi il fratello “piccolo” nella fede.
E lo fa ricorrendo a un simbolo di giudizio severissimo, il cosiddetto katapontismós praticato dai Romani, ossia l’esecuzione dei colpevoli per annegamento, attestata dagli storici Svetonio e Giuseppe Flavio. Ora, per tirare le fila sul valore generale di questo passo veemente, è necessario ricordare che il linguaggio semitico, usato anche da Gesù, ama i colori accesi, soprattutto nel caso di maledizioni, cioè di invocazioni del giudizio divino nei confronti delle colpe gravi. Pertanto, quel Gesù – che ha insegnato appunto l’amore e il perdono – non può certo suggerire una simile macabra esecuzione capitale o il suicidio del peccatore. Egli, però, non si astiene dal denunciare il male e ricorre a un’immagine terribile, destinata a far comprendere la gravità della colpa di chi scandalizza il fratello dalla fede fragile. È un modo simbolico e vigoroso, tipico del linguaggio orientale dalle tinte forti, per ricordare il severo giudizio divino riguardo aquel peccato. L’immagine del legare al collo la pesante macina, con un foro destinato a contenere la barra che l’asino avrebbe fatto ruotare, diventa un segno della severa condanna che incombe sullo scandalizzatore, segno che noi potremmo riutilizzare per altri giudizi su colpe gravi, sempre tenendo conto delle premesse interpretative sopra fatte. Come scrive un commentatore dei Vangeli, Simon Légasse, «la terribile sorte dell’annegato con la mola al collo è poca cosa in confronto a ciò che attende nel giudizio ultimo di Dio colui che ha provocato lo scandalo».
Pubblicato il 14 giugno 2012 - Commenti (2)
07 giu
Il profeta Elia, mosaico absidale. Ravenna, Sant'Apollinare in Classe.
"Verrà Elia e ristabilirà
ogni cosa.
Ma io vi dico: Elia è già
venuto e non l'hanno
riconosciuto."
(Matteo 17, 11-12)
Questa frase di Gesù è una risposta a un quesito di Pietro, Giacomo e Giovanni, mentre stanno scendendo dal monte della Trasfigurazione: «Perché gli scribi dicono che prima deve venire Elia?». Per spiegarel’enigma di quel “prima” e di questo ritorno del profeta Elia sulla scena del mondo, dobbiamo risalire alla fonte che aveva generato questa credenza sostenuta dagli scribi giudaici di quel tempo. Essa è da identificare in una frase del profeta Malachia nella quale Dio dichiarava: «Io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore» (3,23). A sua volta, questa evidente base biblica dell’affermazione degli scribi ha la sua matrice nel racconto della fine di Elia, assunto in cielo per una piena comunione con Dio (2Re 2,1-13).
Era sorta, così, la convinzione che il profeta, vivente per sempre presso Dio dopo la sua ascensione al cielo, sarebbe ritornato ad annunciare al mondo la venuta del Messia e il giudizio finale. Non mancherà nella tradizione successiva ebraica, cristiana e musulmana – di stampo, però, esoterico e fin eterodosso – chi affermasse la sua reincarnazione, dottrina in verità aliena all’antropologia biblica che, invece, proclama la risurrezione. La tesi del ritorno di Elia, vivacemente sostenuta da certi testi apocrifi giudaici come il Libro di Enok, ha lasciato tracce nel rituale ebraico della circoncisione, durante la quale si lascia libera la cosiddetta “sedia di Elia” nella speranza che egli si renda presente.
Nella cena pasquale si ha il “calice di Elia”, tenuto colmo sperando che egli venga a comunicare l’arrivo del Messia attraverso la porta di casa lasciata socchiusa. Si riteneva anche, a livello popolare, che Elia venisse costantemente sulla terra, senza essere riconosciuto, a sostenere i poveri, i malati e i moribondi. Si spiega, così, il fatto che, quando Gesù in croce grida l’avvio del Salmo 22 in aramaico ’Elî, ’Elî, lemâ sabachtanî («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»), la folla che assiste confonda quell’’Elî, ’Elî come un’invocazione rivolta al profeta protettore dei moribondi: «Alcuni dei presenti dicevano: “Costui chiama Elia!”... Gli altri dicevano: “Vediamo se viene Elia a salvarlo!”» (Matteo 27,47.49).
Con questi antefatti è facile comprendere la risposta di Gesù ai suoi apostoli: «Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto; anzi, l’hanno trattato come hanno voluto». Cristo si proclama, dunque, come Messia e dichiara che il suo Elia annunziatore fu Giovanni Battista. Ma la gente non lo riconobbe come precursore del Messia Gesù e lo condannò al martirio. L’evangelista Matteo alla fine esplicita questa interpretazione aggiungendo: «Allora i discepoli compresero che egli parlava di Giovanni Battista» (17,13). Già in un’altra occasione, dopo aver tessuto l’elogio del Battista, Gesù aveva ribadito questa identificazione simbolica: «Se lo volete accettare, egli è quell’Elia che deve venire» (11,14).
Pubblicato il 07 giugno 2012 - Commenti (1)
31 mag
San Pietro, mosaico della cupola. Ravenna, Battistero degli Ariani.
"Gesù, voltandosi,
disse a Pietro:
«Va’ dietro a me,
Satana! Tu mi sei
di scandalo...».".
(Matteo 16,23)
Potrà stupire questa versione del celebre monito che Gesù rivolge a Pietro, dopo avergli assegnato il primato tra gli apostoli attraverso i simboli della pietra, delle chiavi e del potere di “legare e sciogliere” (Matteo 16,13-20). Siamo, infatti, abituati al più forte: «Lungi da me, Satana!». L’apostolo aveva reagito in maniera veemente quando Gesù aveva fatto balenare il destino che lo attendeva a Gerusalemme nell’abisso di dolore e di morte della passione: «Signore, questo non ti deve accadere mai!». E Cristo gli aveva opposto un rifiuto netto.
Sarebbe più logico, perciò, pensare a una sorta di rigetto di Pietro che – dopo la sua “confessione” del «Cristo Figlio del Dio vivente», che gli aveva meritato una beatitudine da parte di Gesù – verrebbe “sconfessato” dal suo Signore e definito uno “scandalo”. Il vocabolo in greco indica la pietra che fa inciampare e, quindi, non più la pietra di fondazione della Chiesa, come Gesù gli aveva prima annunciato. A questa resa più dura condurrebbe anche la frase successiva: «Non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini», per non parlare poi del brutale appellativo usato da Gesù, “Satana”, termine di matrice ebraica che significa “avversario, accusatore”, e che rende Pietro non più l’apostolo delegato a rappresentare Cristo nella storia, ma quasi il suo antagonista.
Come si spiega, allora, questa traduzione più edulcorata che troviamo nel nuovo lezionario liturgico? In realtà, essa è fedele all’originale greco hýpaghe opíso mou, “seguimi dietro a me”. È in pratica il tradizionale Vade retro latino che è corretto, ma che noi abbiamo di solito inteso appunto come una reiezione che subentra all’elezione di Pietro. Qual è, invece, il vero significato del monito di Cristo? La risposta è semplice ed è precisata dalla frase successiva di Gesù: «Se qualcuno vuol venire dietro a me (opíso mou elthéin), rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua» (16,24).
Pietro abbandoni, dunque, la sua illusoria concezione di un messianismo fatto solo di gloria e di successo, e si metta umilmente dietro al suo Signore, salendo la strada erta e irta di prove del Golgota. È questo il vero discepolato, altrimenti si è avversari “satanici” di Cristo. La via della croce comincia, perciò, già in quel momento e Pietro è invitato a essere il seguace del suo Maestro, “andando dietro a lui”, pronto anche a «perdere la propria vita per causa mia», come dirà ancora Gesù, così da “trovarla” in un altro modo più alto e intenso.
Questo appello era già stato anticipato da Cristo nel “discorso missionario” rivolto ai suoi discepoli precedentemente: «Chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me» (Matteo 10,38). E Pietro testimonierà di aver imparato la lezione della croce, quando si avvierà al martirio che, secondo la tradizione, avvenne per crocifissione. Alcuni pensano che un’allusione a questa meta del discepolato e della stessa vita di Pietro sia nella frase che il Risorto gli rivolge sul lago di Tiberiade, dopo avergli rinnovato la missione di “pascere le pecore” del gregge di Cristo: «Quando sarai vecchio stenderai le tue mani...»; e l’evangelista Giovanni commenta: «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio» (21,18-19).
Pubblicato il 31 maggio 2012 - Commenti (2)
24 mag
L’ultima cena, vetrata. St. Mary’s Church, Norfolk (Inghilterra).
"Fate attenzione: guardatevi dal
lievito dei farisei e dei sadducei!".
(Matteo 16,6.12)
Gesù è in barca sul lago di Tiberiade con i suoi
discepoli ed essi s’accorgono di non avere pane
a bordo. Cristo dissolve la loro preoccupazione
ricordando le due precedenti moltiplicazioni
dei pani (16,5-12), ma sposta il discorso dalla dimensione
materiale a quella più spirituale, ricorrendo al
simbolo del lievito. La frase è polemica nei confronti
dei due tradizionali gruppi religiosi e politici del giudaismo.
Da un lato, i farisei, in aramaico “i separati”
o forse anche “i separatori”, cioè coloro che sapevano
distinguere i precetti della Legge biblica secondo il loro
maggiore o minore rilievo. Di per sé essi incarnavano
un’ideologia aperta, spirituale e “laica”. I Vangeli
polemizzano con loro più per l’ipocrisia e l’incoerenza
dei loro atteggiamenti che non per i contenuti
della loro dottrina che era abbastanza vicina almeno
ad alcuni insegnamenti di Gesù.
Gesù è in barca sul lago di Tiberiade con i suoi
discepoli ed essi s’accorgono di non avere pane
a bordo. Cristo dissolve la loro preoccupazione
ricordando le due precedenti moltiplicazioni
dei pani (16,5-12), ma sposta il discorso dalla dimensione
materiale a quella più spirituale, ricorrendo al
simbolo del lievito. La frase è polemica nei confronti
dei due tradizionali gruppi religiosi e politici del giudaismo.
Da un lato, i farisei, in aramaico “i separati”
o forse anche “i separatori”, cioè coloro che sapevano
distinguere i precetti della Legge biblica secondo il loro
maggiore o minore rilievo. Di per sé essi incarnavano
un’ideologia aperta, spirituale e “laica”. I Vangeli
polemizzano con loro più per l’ipocrisia e l’incoerenza
dei loro atteggiamenti che non per i contenuti
della loro dottrina che era abbastanza vicina almeno
ad alcuni insegnamenti di Gesù.
Dominante, però, è l’accezione negativa perché il
lievito, facendo fermentare la massa, ne induce anche
la corruzione, tant’è vero che per la celebrazione
della pasqua ebraica era di rigore il pane “azzimo”,
termine di origine greca che significa “non lievitato”
(in ebraico mazzôt). L’origine era da cercare nell’uso
nomadico di cuocere il pane su lastre di pietra riscaldate:
non per nulla la pasqua aveva una genesi di tipo
pastorale-nomadico. Ma l’aspetto pratico si era trasformato
in una componente rituale: nel seder pasquale
giudaico, cioè nell’ordine dei riti della cena,
c’è anche la ricerca e l’eliminazione di ogni frammento
di pane lievitato presente in casa, perché non contamini
la purezza incorruttibile del pane azzimo. A questa
prassi si è adattata la liturgia eucaristica con l’uso
dell’ostia azzima.
È facile, allora, comprendere il significato delle parole
di Gesù: l’insegnamento e il comportamento
dei farisei e dei sadducei sono principio di perversione
della comunità che li segue e i discepoli devono
vigilare per evitarne la contaminazione. Fuor di
metafora, Gesù aveva già ammonito: «Lasciateli stare!
Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida
un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!» (Matteo
15,14). San Paolo, evocando proprio la celebrazione
pasquale, espliciterà a livello morale ed esistenziale
generale il simbolismo: «Non sapete che un po’ di
lievito fa fermentare tutta la pasta? Togliete via il lievito
vecchio per essere pasta nuova, poiché siete azzimi.
Infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo,
dunque, la festa non con il lievito vecchio, né
con lievito di malizia e perversione, ma con azzimi di
sincerità e verità» (1Corinzi 5,6-8).
Pubblicato il 24 maggio 2012 - Commenti (2)
17 mag
Alessandro Allori detto il Bronzino (1535-1607), Cristo e la cananea. Firenze, San Giovannino degli Scolopi.
"Non è bene prendere il pane
dei figli e gettarlo ai cagnolini!".
(Matteo 15,26)
Scena piuttosto inattesa, questa, descritta solo da Matteo (15,21-28) e Marco (7,24-30): essa presenta un Gesù molto duro, ai limiti dell’insensibilità, a tal punto che gli stessi discepoli devono intervenire, almeno per placare la donna che li sta seguendo e che reca con sé il suo dramma. Cristo si trova nel territorio di frontiera con l’attuale Libano e un’indigena cananea (o siro-fenicia) si aggrappa a lui, sulla base della sua fama di guaritore, implorando un suo intervento per la figlia malata.
Gesù all’inizio la ignora semplicemente («non le rivolse neppure una parola»). All’intercessione dei discepoli che vogliono liberarsi di questa presenza importuna, reagisce con un gelido “no”: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa di Israele», ribadendo il primato dell’orizzonte ebraico nella sua missione, sulla scia dell’elezione di Israele. Ma la sua freddezza, sia pure motivata, non scoraggia la donna che gli urla: «Signore, aiutami!». E qui il nostro sconcerto raggiunge l’apice, sentendo Gesù replicarle in modo sferzante con un probabile proverbio quasi “razzista”: ai cani non si dà il pane destinato agli esseri umani!
È vero che nella frase si adotta il diminutivo più attenuato, kynária, “cagnolini”, ma è evidente l’appellativo spregiativo di “cani” riservato agli infedeli, cioè ai pagani, a causa della loro impurità religiosa e rituale, tipica di questi animali che già nell’Antico Testamento venivano usati come appellativo offensivo (“cani”) nei confronti dei prostituti maschi, presenti nei culti idolatrici. Ma quando il cuore di una madre soffre per la sua creatura, non conosce offese o limiti, e la sua replica è umile e coraggiosa al tempo stesso: «Eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni».
A questo punto Gesù è, per così dire, trasformato dall’esempio della donna straniera; potremmo quasi dire che riceve da lei una lezione di fede che egli esplicita, prima di concederle il dono tanto sospirato: «Donna, grande è la tua fede!». La confessione e la lode rivolte a questa madre pagana aprono idealmente le frontiere della salvezza oltre il popolo ebraico. L’unico requisito decisivo non è più l’etnia o la cultura ma la fede, come era accaduto anche nel caso del centurione romano che implorava a Gesù la guarigione di un suo servo: «In verità vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande!» (Matteo 8,10).
Naturalmente questo comportamento di Gesù, da un lato, marca la sua reale umanità legata a una mentalità, a un linguaggio, a una sensibilità, a un’appartenenza. D’altro lato, però, esso dev’esser letto nella traiettoria della storia della salvezza che ha in Israele il punto di partenza. Dio entra in dialogo con l’umanità attraverso un popolo a cui consegna il suo messaggio e l’incarico di essere testimone nel mondo della sua salvezza.
È questo il tema dell’elezione, della promessa, dell’alleanza che lo stesso san Paolo, apostolo dei pagani, riconosce ed esalta (Romani cc. 9-11), criticando con i profeti la riduzione di questa missione da parte degli ebrei solo a privilegio o a motivo di orgoglio nazionalistico. In questa luce il nostro brano dev’essere interpretato riprendendo tra le mani un testo già da noi commentato, quando Gesù si era rivolto ai Dodici invitandoli inizialmente a «non andare fra i pagani... e a rivolgersi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele» (Matteo 10,5-6), ma infine esortandoli a «fare discepoli tutti i popoli» (28,19).
Pubblicato il 17 maggio 2012 - Commenti (2)
10 mag
Gustave Doré (1832-1883), Gesù cammina sulle acque, incisione.
"Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare… I discepoli, sconvolti, urlarono: «È un fantasma!»".
(Matteo 14,25-26)
La celebre scena di Gesù che avanza sulle acque agitate del lago di Tiberiade (detto “mare” secondo il linguaggio biblico) crea un certo imbarazzo nel lettore moderno, anche credente. Sappiamo, infatti, che Cristo evita intenzionalmente i prodigi taumaturgici, rifugge dalle magie spettacolari, teme che lo si scambi per una “star” degli eventi miracolosi, tant’è vero che spesso egli compie le guarigioni in disparte dalla folla, imponendo il silenzio ai beneficiari. E allora, come spiegare questo atto così clamoroso, peraltro riferito non solo da Marco (6,45-52), la fonte primaria di Matteo, ma anche dal più tardo Vangelo di Giovanni (6,16-21)?
La scena si svolge – se stiamo all’originale greco del Vangelo – «alla quarta veglia» della notte, cioè nell’ultima delle quattro fasi in cui essa era divisa, ossia fra le tre e le sei. Abbiamo, quindi, ancora il segno della tenebra, che è nella Bibbia un simbolo negativo. Analogo è il valore del “mare” che, come è noto, nella Sacra Scrittura incarna il caos, il nulla, il male, tant’è vero che il Giovanni dell’Apocalisse, quando s’affaccerà sulla nuova creazione, scoprirà che «il mare non c’era più» (21,1). Similmente il vento tempestoso è emblema di terrore e di distruzione. Tutta la scena è, quindi, all’insegna della negatività.
Gesù si leva solenne su questo orizzonte, che è agli antipodi della terra, della luce, della quiete, quasi come il Creatore agli inizi stessi dell’atto creativo descritto dalla Genesi. Egli, perciò, compie nei confronti dei discepoli una sorta di azione simbolica simile a quelle che i profeti – soprattutto Geremia ed Ezechiele – manifestavano al loro uditorio, accompagnandole con una spiegazione religiosa. Facile è l’equivoco di chi interpreta la scena come un evento magico o preternaturale. È ciò che accade ai discepoli terrorizzati che urlano: «È un fantasma!».
È per questo che, subito dopo, Gesù spazza via la loro sensazione attraverso due frasi illuminanti che decifrano l’atto nel suo significato teologico e non magico o spettacolare. La prima è da scoprire nell’originale e non nella versione che suona così: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (14,27). In realtà, in greco si ha: egó eimi, «Io sono!». Ora, questa è la versione del nome che Dio rivela a Mosè al Sinai: «Io sono colui che sono!» (Esodo 3,14), nome abbreviato già in quell’occasione in «Io sono ». L’espressione, variamente interpretata, ci ricorda comunque che Dio è una persona (“Io”) la quale esiste e opera (il verbo “essere”).
Ebbene, in quel momento Cristo svela ai discepoli con questo atto eccezionale la sua realtà intima, nascosta dal velo della sua umanità. È un po’ quello che accadrà sul monte della Trasfigurazione: egli ora si presenta in una teofania, cioè in un segno rivelatore della sua divinità di Signore del cosmo e della storia. L’altra frase esplicativa è quella rivolta in finale a Pietro: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» (14,31). Per comprendere l’evento del cammino sulle acque – come anche gli stessi miracoli – è necessario un canale di conoscenza ulteriore rispetto a quello dei sensi e della pura e semplice ragione, ossia la via della fede e dell’adesione al mistero divino.
Pubblicato il 10 maggio 2012 - Commenti (2)
03 mag
Marco Basaiti (1470 ca-1530 ca), Vocazione dei figli di Zebedeo. Venezia, Accademia.
"Ecco, tua madre
e i tuoi fratelli
stanno fuori e cercano
di parlarti».
«Chi è mia madre
e chi sono i miei fratelli?»".
(Matteo 12,47-48)
Antica questione dibattuta è questa sui “fratelli e sorelle” di Gesù. Nel Vangelo di Matteo si legge questa domanda ironica dei Nazaretani: «Non è costui il figlio del falegname? E sua madre non si chiama Maria? E i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non stanno tutte tra noi?» (13,55-56). Abbiamo, quindi, anche i dati anagrafici di alcuni di loro, e una fonte esterna com’è l’opera Antichità giudaiche dello storico ebreo contemporaneo Giuseppe Flavio menziona Giacomo, «fratello di Gesù, detto il Cristo» (XX, 200). Lasciamo da parte le questioni strettamente teologiche sulla verginità di Maria.
Atteniamoci solo alla dimensione storica del problema. Il vocabolo greco usato dagli evangelisti è adelphós e di per sé indica il “fratello di sangue”, anche se poi dalla prima cristianità verrà applicato ai credenti in Cristo, sulla scia delle stesse parole di Gesù presenti nel nostro brano: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre» (Matteo 12,50). Tuttavia, è necessario risalire al mondo semitico e al fondo linguistico e sociale sotteso ai Vangeli, in particolare a quello di Matteo. Ora, in aramaico – così come in ebraico – c’è un termine (’aha’/’ah) che designa sia il fratello, sia il cugino, sia il nipote, sia l’alleato. In questa luce si comprende perché Abramo chiami suo nipote Lot “fratello” (Genesi 13,8), come fa Labano nei confronti del nipote Giacobbe (29,15).
Nel contesto socio-culturale giudaico di Gesù il termine “fratello” non ha, quindi, un senso univoco come nel greco, ove si ha un altro vocabolo per indicare il “cugino” (anepsiós). Ora, un antico apocrifo come il Protovangelo di Giacomo (II secolo) ha considerato questi “fratelli” in realtà come “fratellastri” perché in quello scritto, al momento del matrimonio con Maria, Giuseppe confessa: «Ho figli e sono vecchio » (9,2). C’è, però, un’altra considerazione più significativa e fondata. L’espressione “fratelli del Signore” nel Nuovo Testamento (Atti 1,14; 1Corinzi 9,5) designa in realtà un gruppo specifico, quello dei giudeo-cristiani legati al clan parentale nazaretano di Gesù. Essi costituirono una sorta di comunità a sé stante, dotata di una tale autorevolezza da imporre come primo “vescovo” di Gerusalemme proprio quel “fratello di Gesù” Giacomo citato anche dallo storico Giuseppe Flavio.
Ora, nel nostro brano matteano, Cristo sembra ridimensionare i loro privilegi, riducendoli all’ambito più generale, meno “carnale” e più spirituale, della fedeltà alla volontà del Signore. Peraltro, essi non sono mai chiamati, come Gesù, “figli di Maria”. In questa luce, più che a una classificazione “genealogica”, l’espressione «fratelli e sorelle di Gesù» mirerebbe a designare un gruppo della Chiesa delle origini, che si faceva forte del suo legame parentale- clanico con Gesù di Nazaret, come spesso accadeva (e accade) nel Vicino Oriente (e non solo). Il loro rilievo emergerà indirettamente nella controversia con san Paolo riguardo al cosiddetto “giudeo-cristianesimo”, che voleva imporre ai convertiti pagani un passaggio previo attraverso il giudaismo e, quindi, la circoncisione prima di approdare al cristianesimo.
Pubblicato il 03 maggio 2012 - Commenti (0)
26 apr
Teschio di capra, 1957, di Georgia O’Keeffe (1887-1986). San Antonio, Texas, McNay Art Museum.
"Quando lo spirito impuro esce dall’uomo,
si aggira per luoghi deserti
cercando sollievo, ma non ne trova. Allora dice: «Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito»".
(Matteo 12,43-44)
Gesù con queste parole sembra “sceneggiare” una storia diabolica, introducendo elementi dal sapore mitico. Innanzitutto precisiamo subito chi sia il protagonista, denominato “spirito impuro” (o “immondo”). La locuzione ricorre spesso nei Vangeli (ad esempio, in Marco 11 volte) ed è l’equivalente del “demonio”. Alla base c’è il concetto biblico rituale della “purità” che riguardava il tempio e la vita religiosa: quanto vi si opponeva era ritenuto “impuro”, cioè profano, sottratto all’orizzonte divino e, quindi, in qualche modo ostile a Dio. L’apice supremo di questa “impurità” è ovviamente Satana.
Ora, lo “spirito impuro”, nel racconto di Gesù, è rappresentato mentre viene espulso da una “casa”, ossia dal cuore di una persona che l’ha scacciato attraverso la conversione. Eccolo, allora, vagare nel deserto. Questo tratto è per noi sorprendente perché ha il sapore di qualcosa di fiabesco e, appunto, di mitico. In realtà, c’è una spiegazione legata alla cultura dell’antichità biblica. Il deserto è, in pratica, un mare di sabbia e, come il mare è il simbolo del nulla, del caos, così anche le aree desertiche raffigurano l’assenza della vita, dell’esistenza, della fecondità. Nasce, così, l’idea che esse siano popolate di demoni.
Quando si celebra il grande rito dell’espiazione comunitaria nella solennità del Kippur, il capro che reca su di sé i peccati del popolo e che viene quindi detto “di Azazel”, nome di un demonio dell’antica tradizione popolare cananea ed ebraica, viene allontanato nel deserto. Là egli porta le colpe di Israele perché vi si estinguano (si legga, al riguardo, il complesso rituale del Kippur nel capitolo 16 del libro del Levitico). Inoltre, nella Bibbia si evocano talora i se‘irîm, di per sé “i capri”, ma in realtà si tratta dei “satiri”, ossia di misteriosi esseri o geni zoomorfi che si assembrano e vagano nei luoghi desertici o nelle città in rovina. Il profeta Isaia, quando maledice Babilonia, la città dell’oppressione, annunzia che essa sarà ridotta a un campo di rovine nel quale «si stabiliranno le bestie selvatiche, i gufi riempiranno i palazzi, vi dimoreranno gli struzzi e vi danzeranno i satiri» (13,21).
La stessa scena è ripetuta dal profeta per il tradizionale nemico di Israele, Edom, nelle cui città devastate «i satiri si chiameranno l’un l’altro; là si poserà anche Lilit» (34,14), un demone mitologico femminile, destinato a una certa popolarità nel folclore e nelle tradizioni giudaiche posteriori. Non dobbiamo, dunque, stupirci che la Bibbia, parola di Dio incarnata, cioè legata a una cultura e a coordinate storiche e sociali antiche, assuma anche elementi mitici.
Essi servono a dare vivacità al messaggio che si vuole comunicare sul mistero del male e di Satana, la cui opera è appunto quella di stimolare la libertà umana inclinandola contro Dio, il bene, la giustizia e la verità. Ecco, allora, il deserto come sua sede perché simbolo di caos, di morte e di male, ed ecco anche il desiderio del demonio di rientrare nella casa del cuore e della coscienza delle persone ove poter esercitare il suo influsso nefasto.
Pubblicato il 26 aprile 2012 - Commenti (2)
19 apr
Anima dannata, busto in cera di scuola lombarda, XVII secolo. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.
"Qualunque peccato
o bestemmia
verrà
perdonata
agli uomini, ma
la bestemmia
contro lo Spirito
non verrà
perdonata"
(Matteo 12,31)
Questa frase di Gesù, già di sua natura
sorprendente, si fa quasi
sconcertante nel suo prosieguo
che suona così: «A chi parlerà contro il
Figlio dell’uomo, sarà perdonato; ma a
chi parlerà contro lo Spirito Santo, non
sarà perdonato, né in questo mondo né
in quello futuro» (12,32). Per sciogliere
l’imbarazzo di queste dichiarazioni partiamo
innanzitutto dalla realtà della “bestemmia”
che, nel linguaggio biblico,
ha un’accezione differente da quella
comune per noi. Il famoso comandamento:
«Non nominare il nome di Dio invano
», certo, indirettamente può essere
applicato alla bestemmia come imprecazione
infamante contro la divinità, ma il
suo valore primario va in ben altra direzione,
marcata da quell’ “invano”.
In ebraico il termine rimanda alla “vanità”
dell’idolo; quindi in causa è la degenerazione
della religione e l’arrogarsi da
parte dell’uomo di decidere a suo piacimento
quale sia il vero Dio, modellandolo
a proprio vantaggio e appropriandosi,
così, di una tipica qualità divina. Perciò
la «bestemmia contro lo Spirito» è un peccato
superiore a una semplice parolaccia
o insulto contro la divinità. È un attacco
radicale e consapevole alla realtà intima
e profonda di Dio rappresentata
dal suo Spirito. Non è un peccato di debolezza
come quello dell’adultera che
può pentirsi ed è perdonata da Cristo
(Giovanni 8,1-11). È, invece, una sfida cosciente
scagliata contro Dio.
È a questo punto che dobbiamo interpretare
l’applicazione successiva. Da un
lato, si afferma la possibilità di remissione
del peccato di negazione nei confronti
del Figlio dell’uomo. La giustificazione
è nel fatto che la sua dignità è per
così dire velata dalla sua apparenza
umana che può generare incertezza, sospetto
o reazione negativa. Si ricordi,
per esempio, la replica di Natanaele
all’apostolo Filippo che lo invitava a conoscere
Gesù di Nazaret: «Da Nazaret
può venire qualcosa di buono?» (Giovanni
1,46).
D’altro lato c’è, invece, l’atteggiamento
soprattutto degli scribi e dei farisei
che vedono gli atti gloriosi di Cristo, i
suoi miracoli, le liberazioni dal male demoniaco,
ma chiudono coscientemente
gli occhi della mente e del cuore,
perché il riconoscimento di questa “diversità”
di Gesù infrangerebbe il loro sistema
di potere e le loro elaborazioni teologiche.
Essi, dunque, negano l’evidenza
delle opere che lo Spirito di Dio manifesta
in Cristo: la «bestemmia contro lo Spirito
» è, allora, il rifiuto consapevole della
verità conosciuta come tale, è il rigetto
cosciente della parola e dell’opera di Gesù,
pur sapendola vera e santa, per proprio
interesse “blasfemo”.
In questa luce, è comprensibile la
conclusione logica: a costoro non è possibile
concedere il perdono «né in questo
mondo né il quello futuro», perché
manca il presupposto fondamentale
del pentimento e della confessione
della colpa. Essi si mettono fuori
dell’orizzonte della salvezza di propria
scelta. Il commento ideale a tale dichiarazione
di Gesù è in queste parole
di quella grandiosa omelia che è la Lettera
agli Ebrei: «Se pecchiamo volontariamente
dopo aver ricevuto la conoscenza
della verità, non rimane più alcun
sacrificio per quel peccato, ma soltanto
una terribile attesa del giudizio e
la vampa di un fuoco che dovrà divorare
i ribelli» (Ebrei 10,26-27).
Pubblicato il 19 aprile 2012 - Commenti (2)
12 apr
Liberazione di una indemoniata (sec. XV) del Maestro di San Severino. Firenze, Museo Horne.
"I Chi non è con me
è contro di me."
(Matteo 12,30)
"Chi non è
contro di noi
è per noi"
(Marco 9,40)
Abbiamo appaiato due frasi di Gesù
apparentemente contraddittorie.
Da un lato, c’è la frase riferita da
Matteo e ripetuta anche da Luca (11,23)
che sembra presentare un Gesù integralista,
e per derivazione una Chiesa gelosa
della sua esclusività nel possedere la verità
e la salvezza (il famoso detto Extra ecclesiam
nulla salus, fuori della Chiesa
non c’è salvezza). D’altro lato, Marco raffigurerebbe,
invece, un Gesù più “ecumenico”,
aperto ai semi di verità che sono
diffusi in tutta l’umanità. In realtà, l’antitesi
si scioglie se si tiene presente il
differente contesto in cui queste frasi
sono state pronunciate da Gesù.
Partiamo dall’evento che origina la
battuta di Gesù in Matteo e Luca. Come
abbiamo illustrato in una precedente
analisi del passo di Matteo 12,22-29, siamo
di fronte a un dibattito con i farisei
riguardo al tema della lotta contro Satana.
È ovvio che in questa battaglia non
si possono concedere attenuanti o accordi:
il male deve vederci schierati in un
duello e chi non sta dalla parte del bene
è da considerarsi come un avversario.
Chi non è con Cristo in questa lotta
è contro di lui.
Diverso è il caso che fa da cornice alla
frase riferita da Marco. L’apostolo Giovanni
segnala a Gesù un esorcista estraneo
alla comunità cristiana che opera contro
il male satanico nel nome di Cristo, senza
che egli appartenga alla cerchia dei discepoli.
Giovanni l’aveva abbordato e, con
un tipico atteggiamento di autodifesa segnato
da un pizzico di chiusura e di gelosia
di stampo integralistico, l’aveva minacciato:
«Noi glielo abbiamo vietato perché
non era dei nostri» (Marco 9,38).
A questo punto Gesù reagisce proprio
con una dichiarazione di grande
apertura nei confronti del bene ovunque
si manifesti, frase citata dall’evangelista
Marco: «Chi non è contro di noi
è per noi». È curioso notare che questa
frase riflette un proverbio allora molto
diffuso: era usato anche nel mondo romano,
come attesta Cicerone nella sua
arringa Pro Ligario (n. 33).
Si dissolve,
così, l’apparente contraddizione tra i
due detti che, in realtà, contengono entrambi
una loro verità.
Non si deve, comunque, dimenticare
un principio generale che abbiamo
spesso ribadito: le parole di Cristo sono
state conservate dagli evangelisti
non in modo letterale e meccanico, ma
come messaggi vivi da incarnare nelle
varie situazioni vissute dalle comunità
cristiane. Non ci si deve, perciò, impressionare
di fronte a varianti che impediscono
di far combaciare perfettamente
certe redazioni della stessa frase.
Diverso naturalmente è il nostro caso.
Qui, infatti, sono di scena due situazioni
profondamente diverse che meritavano
da parte di Gesù giudizi necessariamente
antitetici.
Pubblicato il 12 aprile 2012 - Commenti (3)
|
|