05
nov

Il verme che non muore

Creature infernali divorano i dannati, miniatura di scuola francese tratta dall’Apocalisse di Cambrai, secolo XIII, Ms. 422. Cambrai, Francia, Biblioteca Municipale.
Creature infernali divorano i dannati, miniatura di scuola francese tratta dall’Apocalisse di Cambrai, secolo XIII, Ms. 422. Cambrai, Francia, Biblioteca Municipale.

"Essere gettati nella Geenna
dove il loro verme non muore
e il fuoco non si estingue.
Ognuno sarà salato col fuoco".


(Marco 9,47-49)

Questa frase di Gesù è, per il lettore moderno, un condensato di oscurità che cercheremo di dissolvere assumendone le singole componenti. Partiamo dalla più facile, la Geenna.
Cristo sta denunciando il peccato dello scandalo che fa inciampare «questi piccoli che credono in me» (Marco 9,42), cioè chi è fragile nella fede e può essere facilmente messo in crisi.
Ebbene, lo scandalizzatore corre il rischio di essere gettato nella Geenna che era popolarmente divenuta un sinonimo di inferno. Ma che cos’era in sé, prima di diventare un simbolo della pena dei malvagi? Era una valle il cui nome topografico completo in ebraico era Ghe’-ben-Hinnon, ossia “valle del figlio di Hinnon”, deformato nel greco Gheenna, donde il nostro Geenna.

Ma come s’era acquistata questa triste fama? Secondo quanto riferiscono alcuni testi biblici (Geremia 19; 2Re 23,10), la valle era stata trasformata nella discarica di Gerusalemme, dato che si distendeva nella periferia ovest e sud dell’antica città. Là i rifiuti venivano inceneriti e là si compivano anche riti infami come i sacrifici di bambini, passati attraverso il fuoco, in onore del dio fenicio Molok, sacrifici proibiti dalla legge biblica (Levitico 18,21), eppure praticati anche da due re di Giuda, Acaz e Manasse. Facile era, quindi, considerare quel luogo impuro (sia materialmente sia religiosamente) come la sede della condanna degli empi, l’inferno dalle fiamme inestinguibili.

Si spiega, così, il fuoco che viene evocato nel prosieguo della frase attraverso una citazione del profeta Isaia, che nell’ultimo versetto del suo libro (66,24) descrive il giudizio divino su «coloro che si sono ribellati a me: il loro verme non morirà e il loro fuoco non si estinguerà ». Se l’immagine ignea è chiara per il nesso con la Geenna, che cos’è invece il “verme”? Il riferimento è a quelle larve che si sviluppano negli alimenti o nei vegetali, ma anche nei corpi malati creando infezioni, come confessa Giobbe: «Purulenta di vermi e di croste squamose è la mia carne» (7,5). Oppure come accadde al re Erode Agrippa, persecutore dei primi cristiani, che similmente al nonno Erode il Grande, morì «divorato dai vermi» (Atti 12,23).

Il simbolo è, dunque, evidente: la punizione del malvagio è incessante, analoga a un fuoco inestinguibile e a un verme che non lascia scampo alla carne. Infine c’è il sale che viene anch’esso collegato al fuoco. Di per sé questa realtà, tipica in cucina, ha due aspetti.
È segno di solidarietà, forse anche per la sua funzione concreta di dar sapore ai cibi («Voi siete il sale della terra», dirà Gesù in Matteo 5,13) e vigore al corpo (il neonato veniva frizionato con sale, secondo Ezechiele 16,4): non per nulla nella Bibbia si parla di «un’alleanza di sale, perenne, davanti al Signore» (Numeri 18,19).
Nella nostra lingua lo strumento economico della sopravvivenza, lo stipendio, viene chiamato “salario” e il libro di Esdra definisce i funzionari persiani come «coloro che mangiano il sale della reggia» (4,14).

C’era, però, un altro aspetto, questa volta negativo. Evocando la fine di Sodoma e Gomorra sotto una pioggia di sale, zolfo e fuoco (Genesi 19), si rappresentava il giudizio divino come una sorta di crogiuolo nel quale si castigavano atrocemente i peccatori salandoli e bruciandoli. Il sale che conserva i cibi presenterebbe l’aspetto permanente di quella punizione. Qualche codice che ci ha trasmesso i Vangeli e la Vulgata, cioè la versione latina della Bibbia di san Girolamo, ha applicato invece l’immagine alle prove dei giusti trasformando la frase con questa aggiunta, che rimanda al rito di salatura delle vittime sacrificali (Levitico 2,13): «Ognuno sarà salato col fuoco e ogni vittima sarà salata con sale».

Pubblicato il 05 novembre 2012 - Commenti (2)
30
ott

Indemoniato o epilettico?

Raffaello Sanzio, Trasfigurazione, 1518-1520, particolare. Città del Vaticano, Musei, Pinacoteca.
Raffaello Sanzio, Trasfigurazione, 1518-1520, particolare. Città del Vaticano, Musei, Pinacoteca.

"Mio figlio ha uno spirito muto:
lo afferra, lo getta per terra
ed gli schiuma, digrigna i denti
e si irrigidisce
".


(Marco 9,18)

Siamo ai piedi del monte della Trasfigurazione. Gesù ha appena svelato a tre apostoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, il mistero della sua persona di Figlio di Dio celato sotto le spoglie della sua umanità.
Nella pianura sottostante s’imbatte in un caso che è classificato come possessione diabolica, secondo la comune concezione di allora (ma non solo) di interpretare uno stato patologico psicofisico riportandolo a una radice demoniaca (Marco 9,14-29). Lo stesso era accaduto anche nel caso, già da noi affrontato, del malato mentale “indemoniato” di Gerasa (5,1-20).

Che si tratti, invece, di epilessia appare dalla stessa descrizione fatta dal padre di questo giovane e che noi abbiamo messo in evidenza nella citazione del passo dell’evangelista Marco.
Inoltre, condotto davanti a Gesù, il ragazzo è preso dalle «convulsioni, cade a terra e si rotola spumando» (9,20) e il padre ricorda che «fin dall’infanzia» gli accadeva questo, al punto di «buttarsi anche nel fuoco e nell’acqua», in atteggiamento autolesionistico (9,21-22). Siamo in presenza della tipica sintomatologia dell’epilessia, rubricata popolarmente sotto uno «spirito muto» demoniaco, secondo la cultura del tempo.

In realtà, Gesù si è trovato di fronte al satanico in senso stretto, come abbiamo visto in una precedente analisi di un testo marciano (1,21-26) all’interno della sinagoga di Cafarnao. Altre volte, invece, ha davanti a sé semplicemente il limite dell’uomo, il male fisico e psichico. Si tratta della nostra imperfezione e creaturalità che ci fanno soffrire; è la nostra incompiutezza umana che comporta caducità, dolore e morte. Questa dimensione negativa nell’antica mentalità era sempre da ricondurre o a una colpa del soggetto o a un intervento demoniaco.

La figura di Cristo, come si erge liberatrice nei confronti delle possessioni diaboliche, ingaggiando una lotta con lo “spirito impuro” che devasta la creatura, spingendola al male, così si leva contro il male fisico e psichico, orizzonte nel quale Dio sembra assente, ma dove in verità può rivelare la sua presenza salvifica che è somatica e spirituale al tempo stesso. È interessante notare i verbi usati nel finale del racconto. «Il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: È morto (apéthanen)! Ma Gesù lo prese per mano, lo risvegliò (égheiren) ed egli sorse in piedi (anéste)».

Ebbene, questi sono i tre verbi greci usati nel Nuovo Testamento per definire la morte e la risurrezione di Cristo, sorgente di ogni liberazione dalla morte e dal male. La salvezza che egli offre è, quindi, piena: tocca la nostra creaturalità fragile, ma anche il peccato e le seduzioni che Satana e il male esercitano sulla nostra libertà facendola inclinare verso il vizio.
Certo, dobbiamo evitare, da un lato, gli eccessi di “satanismo” facendone quasi il centro della fede cristiana che è, invece, occupato da Dio e da Cristo. Dobbiamo stroncare la morbosità “satanica” in ambito magico, riconoscendo il primato di Dio e affidando in molti casi anche ad altre discipline il loro compito terapeutico, come la medicina e la psicologia.
Ma non dobbiamo dimenticare il monito di san Pietro: «Il vostro nemico, il diavolo, simile a un leone ruggente, s’aggira cercando chi divorare; resistetegli saldi nella fede!» (1Pietro 5,8-9).

Pubblicato il 30 ottobre 2012 - Commenti (2)
18
ott

Presenti all'arrivo del regno

Trasfigurazione di Giovanni Battista Paggi (1554-1627). Firenze, San Marco.
Trasfigurazione di Giovanni Battista Paggi (1554-1627). Firenze, San Marco.

"In verità io vi dico:
vi sono alcuni,
qui presenti,
che non morranno
prima di aver
visto giungere
il regno di Dio
nella sua potenza
".


(Marco 9,1)

Frase a prima vista sconcertante, questa, per quel rimando alla generazione contemporanea di Gesù che sarebbe spettatrice o della venuta del regno di Dio (così nel passo qui citato di Marco 9,1 e in Luca 9,27) o del «Figlio dell’uomo che viene nel suo regno », secondo la variante di Matteo (16,28). Fermo restando che gli evangelisti spesso riprendono le parole di Gesù Cristo incarnandole nel contesto ecclesiale in cui essi sono immersi, sorge spontanea una domanda: cosa s’attendevano di vedere quei primi cristiani durante la loro vita terrena?

Le risposte date dagli esegeti sono diverse: Gesù allude alla successiva epifania gloriosa della sua trasfigurazione oppure alla sua risurrezione, o ancora alla distruzione di Gerusalemme del 70, tutti segni espliciti e “visibili” della venuta del regno di Dio nella storia. In realtà, il centro della questione è in quel «regno di Dio», uno dei temi portanti della predicazione di Gesù, da lui desunto dall’Antico Testamento e sviluppato in modo originale. Si tratta di una metafora per descrivere il progetto trascendente ed eterno di Dio nei confronti della storia umana. Cristo afferma di essere venuto a rivelarlo e a metterlo in opera.

Ora, poiché il regno è una realtà eterna, voluta da Dio per trasformare l’essere, è in sé “puntuale”, è già “ora” e sempre; tuttavia, esso si insedia visibilmente nella storia che è fatta di uno sviluppo, di un “prima” e di un “poi” e, quindi, avrà diverse fasi di attuazione. L’azione di Cristo rende presente il regno di Dio già da adesso: «Se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto tra voi il regno di Dio» (Matteo 12,28); «il regno di Dio non viene in modo da attrarre l’attenzione e nessuno può dire: “Eccolo qui, o eccolo là!”. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi» (Luca 17,21).

Eppure, il regno dei cieli è una realtà che dovrà innervare il futuro e, quindi, è ancora da attendere. Allora, la frase citata di Gesù invita a riconoscere la presenza del regno nella persona e nell’opera di Cristo: la salvezza che egli compie con le sue guarigioni e i suoi esorcismi mostra che quel progetto salvifico è già in azione e allarga i suoi confini sottraendo spazio al Male. I contemporanei sono invitati a scoprirne la presenza viva ed efficace proprio nella figura di Gesù.

Tuttavia, non si deve immaginare che Gesù pensi già a una sorta di fine del mondo e alla sua venuta ultima e definitiva già entro la sua generazione, dopo la sua morte e risurrezione. Ci sono, infatti, varie sue affermazioni – soprattutto all’interno del cosiddetto “discorso escatologico” (Matteo 24-25; Marco 13; Luca 21) – ove a questo presente s’intreccia il futuro della pienezza non ancora compiuta nella sequenza del tempo a cui noi tutti apparteniamo, sia pure in epoche differenti.

In sintesi, il regno di Dio, essendo eterno, abbraccia e supera il tempo e, quindi, si svela in azione in modo forte con Cristo, la sua opera, la sua parola e la sua Pasqua durante quella generazione, ma anche nelle successive. Esso, però, si proietta nel futuro fino alla “pienezza dei tempi”, quando il regno avrà raggiunto la sua attuazione perfetta e conclusiva.

Pubblicato il 18 ottobre 2012 - Commenti (2)
15
ott

Vedo come alberi che camminano

Gesù guarisce un cieco, affresco, scuola cassinese. Sant'Angelo in Formis, Capua.
Gesù guarisce un cieco, affresco, scuola cassinese. Sant'Angelo in Formis, Capua.

"Quegli, alzando gli occhi, diceva:
«Vedo la gente, perché vedo
come degli alberi che camminano
»".


(Marco 8,24)

Ambientato a Betsaida (in aramaico “casa dei pescatori”), la patria degli apostoli Pietro, Andrea e Filippo, villaggio situato sul lago di Tiberiade, questo miracolo piuttosto sorprendente mette in scena un Gesù che non riesce a guarire un cieco se non attraverso due interventi successivi.
È solo Marco a narrarci questo episodio dal carattere storico e simbolico al tempo stesso. Storico, perché non si sarebbe mai inventato un atto miracoloso che mostra un Gesù incapace di guarire di primo acchito, ma costretto a ripetere l’operazione sul malato. Simbolico, per la tipologia del paziente e il contesto che assegna all’evento un probabile significato ulteriore.

Iniziamo con la vicenda concreta. Secondo la tradizionale convinzione per la quale si assegnava alla saliva un potere terapeutico, Gesù spalma la sua saliva sugli occhi di un cieco, come farà a Gerusalemme con un caso congenito analogo (Giovanni 9,6).
Impone poi le mani sul malato e attende l’esito che è, però, piuttosto imprevisto: il cieco comincia, sì, a vedere ma confessa di intuire le figure umane in maniera confusa, come se fossero alberi in movimento. Cristo, allora, ripete l’imposizione delle mani «ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa» (Marco 8,25).
Segue il monito, frequente nel Vangelo di Marco, di evitare ogni pubblicità al gesto: «Non entrare nemmeno nel villaggio», impone Gesù all’ex cieco (8,26).

Espressione dell’umanità di Cristo che si lega alle tradizioni mediche popolari e che rivela persino una difficoltà operativa, questo racconto ha, però, su di sé un velo simbolico suggestivo. Innanzitutto per la sindrome in questione, la cecità.
Certo, il fenomeno era in sé fisico, derivante anche dalle infezioni oftalmiche purulente, provocate o aggravate dal sole incandescente, dal sudiciume, dal vento che sollevava polvere. Per questo sono molteplici le guarigioni evangeliche di ciechi (Matteo 9,27-32; 20,29-34; Marco 10,46-52; Luca 18,35-43; Giovanni 9,1-7).

Ma è facile intuire che, essendo la luce un simbolo di Dio (1Giovanni 1,5) e di Cristo (Giovanni 8,12), la liberazione dalla cecità acquista un senso più profondo, messianico, tant’è vero che lo stesso Gesù, nel suo discorso programmatico nella sinagoga di Nazaret, non esita ad attribuire a sé il passo isaiano secondo il quale la sua missione comprendeva anche il ridare «la vista ai ciechi» (Luca 4,18), impegno che ribadirà come proprio e specifico ai discepoli del Battista venuti a interrogarlo come Messia (Matteo 11,5).

L’episodio del cieco di Betsaida – a causa del contesto che contiene subito dopo la confessione di Pietro, il quale proclama Gesù come il Cristo, ma che registra anche le incertezze della folla per la quale Gesù è il Battista o Elia o uno dei profeti redivivi – potrebbe anche comprendere un’allusione alla difficoltà nel “vedere” della fede. Essa può attraversare una fase preparatoria, quella appunto che intuisce confusamente in Gesù un profeta che ritorna sulla scena di Israele. Ma alla fine raggiunge la piena luce, come accade a Pietro che, secondo Marco (8,29), vede in lui “il Cristo”, ossia il Messia, e secondo Matteo (16,16) ancora di più: «il Cristo, il Figlio del Dio vivente».

Pubblicato il 15 ottobre 2012 - Commenti (1)
08
ott

Fede e legge

"I farisei" di Karl Schmidt-Rottluff, olio su tela, 1912. New York, Museum of Modern Art (MoMA).
"I farisei" di Karl Schmidt-Rottluff, olio su tela, 1912. New York, Museum of Modern Art (MoMA).

"Se uno dichiara
al padre
o alla madre:
«È
korbàn!»,
cioè offerta
a Dio, non
gli consentite
di fare più nulla
per il padre
o la madre."


(Marco 7,11-12)

Questa frase enigmatica è inserita all’interno di una polemica che Gesù sta intessendo con alcuni farisei e scribi, venuti da Gerusalemme in Galilea per verificare e censurare l’insegnamento e il comportamento del rabbi di Nazaret. Le critiche non mancano: ad esempio, i discepoli di Gesù non osservano le norme della purità rituale sancita dalla tradizione giudaica. Cristo reagisce accusando di ipocrisia i suoi contestatori attraverso un caso concreto, quello appunto del korbàn, termine aramaico che indica l’“offerta” sacra destinata da un fedele al tempio.
Il procedimento era semplice: quando un ebreo dichiarava formalmente che una somma di denaro o un altro bene era korbàn, cioè consacrato per il tempio, quella cifra o quella realtà non era più disponibile per altre finalità, secondo quanto affermava una prescrizione della tradizione giudaica presente nella Mishnah. Essa era una raccolta di norme e indicazioni che regolavano la prassi dei fedeli ebrei, prima trasmesse oralmente e poi codificate in un testo dal rabbi Jehuda ha-Nasî che aveva organizzato nel III secolo d.C. il materiale in 6 “ordini” (seder) e 63 trattati.

Gesù presenta una scandalosa applicazione di questa norma specifica. Se un ebreo vuole sottrarsi all’obbligo del mantenimento dei genitori anziani, può decidere di assumere una certa somma o un bene prezioso e dichiararlo korbàn per il tempio, così che non ne potrà più disporre per i suoi genitori e sarà libero dall’obbligo filiale. Ovviamente l’impegno a cui si sottraeva era maggiore, perciò ne risultava un vantaggio. Anzi, non di rado questo voto restava solo formale e, quindi, fittizio e non comportava una reale donazione, ma era soltanto un mezzo estrinseco per evadere quell’obbligo morale.
I maestri, scribi e dottori della Legge, erano consapevoli dell’immoralità di un simile comportamento, ma consideravano lo stesso valida la prassi. Gesù, invece, ne denuncia la perversione religiosa ed etica. Egli, infatti, risale al cuore della Bibbia, lacerando il velo ipocrita della casistica e proclama il primato del Comandamento del Decalogo: «Onora tuo padre e tua madre» (Esodo 20,12), laddove quell’“onorare” comportava un impegno operoso di rispetto, di tutela e di sostegno della vita familiare (si legga sul tema l’intenso paragrafo di Siracide 3,1-16).

La conclusione che Cristo appone alla sua polemica è di indole generale e rivela un atteggiamento fondamentale della vera religiosità: «Voi in questo modo annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (7,13). Sulla parola divina viene imposta una norma umana, a un comandamento morale si sostituisce un precetto legale, alla limpidità della spiritualità biblica subentra la meschinità dell’interesse privato, anche se ammantato di autorizzazioni ufficiali.
Ritorna anche in questo evento della vita di Gesù l’afflato della fede profetica che impediva al legalismo e al ritualismo di soffocare l’anima profonda della religione biblica. L’interiorità della coscienza e l’impegno di giustizia e carità debbono sempre avere il primato sui regolamenti e sui codici sacrali e sociali.

Pubblicato il 08 ottobre 2012 - Commenti (3)
01
ott

Cinquemila uomini

La moltiplicazione dei pani, miniatura di Daniele di Uranc, 1433. Manoscritto 4963 foglio 2v. Yerevan (Armenia).
La moltiplicazione dei pani, miniatura di Daniele di Uranc, 1433. Manoscritto 4963 foglio 2v. Yerevan (Armenia).

"Tutti mangiarono a sazietà…
Quelli che avevano mangiato
i pani erano cinquemila uomini.
"


(Marco 6,44)

Questa volta affrontiamo una questione che potrà sembrare secondaria. Ci interessiamo dei numeri nei cui confronti il mondo semitico (ma non solo) non si comporta con criteri solo quantitativi, come accade ora a noi, ma soprattutto qualitativi. Anche chi non ha una grande assuefazione con la Bibbia sa che numeri come 3 o 7 o 12 o 40 hanno spesso valore simbolico e sono segni di pienezza o perfezione. L’Apocalisse, al riguardo, è emblematica: tra cardinali, ordinali e frazionali ci offre ben 283 cifre! E tutti citano quel passo in cui si afferma che «il numero della Bestia è 666» (13,18), che è multiplo del 6 e somma di multipli del 6 (600 + 60 + 6): esso equivale al 7 “decapitato” (–1) o il 12 “dimezzato”. Per non dire poi che – secondo l’antica scienza della “ghematria” per la quale le lettere alfabetiche hanno un valore numerico – quel 666 può essere la trascrizione “cifrata” del nome “Nerone Cesare” in ebraico, NRWN QSR: N 50 + R 200 +W6 + N 50 + Q100 + S 60 + R 200 = 666.

Ma stiamo ora all’esempio da noi proposto con l’indicazione dei fruitori della prima moltiplicazione dei pani secondo Marco: 5.000 uomini e Matteo, nel passo parallelo, aggiunge: «senza contare le donne e i bambini» (14,21). Marco per la seconda moltiplicazione dei pani riduce il pubblico a 4.000 uomini (8,9), dato confermato da Matteo (15,38), sempre con la precisazione riguardante donne e bambini che nell’antico Vicino Oriente non erano un soggetto giuridico in senso stretto e, quindi, non entravano nel computo. Qualche perplessità nasce su questa folla enorme, tenendo conto che la Galilea era una regione limitata e Gesù si fermava a parlare in piccole rade del lago di Tiberiade o su prati molto ristretti con gruppi locali abbastanza ridotti. Tra l’altro, l’evangelista parla di una suddivisione «in gruppi di 100 e 50» persone (6,40).

Effettivamente bisogna notare che il numero 1.000 era spesso adottato per designare semplicemente una grande quantità difficile da contare, oppure acquistava il valore simbolico dell’immensità e persino dell’infinito: Dio, ad esempio perdona e ama per «mille generazioni» (Esodo 34,7). Si tratterebbe, allora, solo della segnalazione di 4 o 5 moltitudini di persone. Tra l’altro, è curioso notare che il 1.000 in ebraico è ’elef, vocabolo che indica anche il “bue” che potrebbe essere l’unità di misura alimentare per un gruppo clanico o familiare esteso, come lo era allora la famiglia patriarcale.

Certo, in alcuni casi siamo in presenza di numeri reali o almeno legati a dati documentari, come accade nei censimenti di Israele nel deserto che aprono il libro dei Numeri (capp. 1-4): essi, in realtà, riflettono cifre del periodo in cui il popolo ebraico era stanziato nella terra promessa, con probabili ritocchi simbolici, soprattutto quando si parla delle «migliaia di Israele» (1,16; vedi 1Samuele 10,19-21), designazione riservata ai vari clan. Reali sono, in buona parte, i dati numerici allegati dal libro di Esdra nel capitolo 2 (ripresi in Neemia 7,6-72) riguardo ai rimpatriati da Babilonia. È, però, indubbio che la trasmissione stessa di simili dati nei vari codici biblici a noi giunti ha subìto spesso variazioni e incertezze.
Rimane, comunque, fermo il primato simbolico di alcune cifre: è, ad esempio, il caso – nel racconto della moltiplicazione dei pani – delle ceste avanzate, 12 nel primo caso, come i dodici apostoli o le tribù ebraiche; 7 nel secondo caso, come le nazioni della terra di Canaan (Atti 13,19) o i sette “diaconi” della solidarietà gerosolimitana (Atti 6,5). D’altronde, la sazietà e l’abbondanza sono tipiche del banchetto messianico.

Pubblicato il 01 ottobre 2012 - Commenti (1)
24
set

Indemoniato o folle?

"Guarigione dell'ossesso", Sant'Apollinare Nuovo, Ravenna.
"Guarigione dell'ossesso", Sant'Apollinare Nuovo, Ravenna.

"Aveva dimora fra le
tombe e nessuno riusciva
a tenerlo legato, neanche
con catene... spezzava
le catene e spaccava
i ceppi e nessuno
riusciva a domarlo".


(Marco 5,3-4)

Siamo – stando al racconto di Marco (5,1-20) – sulla costa orientale del lago di Tiberiade «nella regione dei Geraseni» (Matteo parla, invece, di Gadara, a sud-est dello stesso lago). Ci troviamo nella Decapoli, area a prevalenza pagana e quindi “impura”. Ecco emergere questa figura terribile, una sorta di mostro che vive o in una necropoli, tra i morti, oppure sui monti desertici delle alture del Golan. Appare, così, un altro segno di “impurità” e negatività, la morte e il deserto. Quando Gesù interpella lo “spirito impuro” che travolge quest’uomo, costui risponde: «Mi chiamo Legione», un altro elemento negativo perché rimanda all’oppressione romana e al suo esercito.

Ma non è finita. Quando Gesù decide di liberare quest’uomo dagli “spiriti impuri”, essi domandano e ottengono di entrare in una mandria di porci là allevati, tipici animali “impuri” per la tradizione giudaica. A quel punto il branco «si precipita dal burrone nel mare, affogando uno dopo l’altro nel mare». Il mare (in questo caso il lago: il linguaggio biblico denomina con un unico termine le grandi distese d’acqua) è il simbolo del caos e del male. La sequenza negativa che regge le fila del racconto è, dunque, impressionante: Decapoli, pagani, sepolcri, monti desertici, spiriti immondi/impuri, Legione, porci, mare.

Sembra, quindi, di essere in presenza di una sorta di compendio del male del mondo, del demoniaco che avvelena la storia ma anche dell’idolatria, perché Isaia descrive così gli idolatri: «Abitano nei sepolcri, passano la notte in nascondigli, mangiano carne suina e cibi impuri... bruciano incenso sui morti e sui colli insultano il Signore» (65,4.7). Qual è, allora, il significato da assegnare a questa narrazione, sia nella sua realtà storica sia nel suo valore esemplare? Innanzitutto il ritratto, offerto dall’evangelista, di quello sventurato, lo delinea come un pazzo furioso: non si può legarlo perché reagisce brutalmente, è autolesionista perché si percuote con pietre, urla in modo sconclusionato giorno e notte. Una volta sanato da Gesù è, invece, tratteggiato come «seduto, vestito e sano di mente» (5,15).

Fin qui per quanto riguarda l’evento storico, ossia la guarigione di un malato mentale, così come Gesù sanerà un ragazzo epilettico, scendendo dal monte della Trasfigurazione (9,14-29). Ma qual è il valore ulteriore che l’evangelista assegna a questo fatto? La risposta deve tener conto proprio di tutti gli elementi negativi che abbiamo prima elencato e dell’antica convinzione di Israele, secondo cui le sindromi più gravi presupponevano una colpa personale o una possessione demoniaca. La vicenda, allora, diventa una narrazione esemplare per celebrare la vittoria di Cristo sul male in tutte le sue forme: egli è, infatti, riconosciuto come «Figlio del Dio altissimo» (5,7), trionfante sulle forze oscure, sia fisiche sia morali, che tormentano la storia umana.

Pubblicato il 24 settembre 2012 - Commenti (2)
17
set

«Così che non si convertano»

San Matteo evangelista, mosaico. Ravenna, basilica di Sant’Apollinare in Classe.
San Matteo evangelista, mosaico. Ravenna, basilica di Sant’Apollinare in Classe.

"Per quelli che
sono fuori tutto
avvienein parabole
affinchéguardino, sì,
ma non vedano,
ascoltino, sì, ma non
comprendano..."


(Marco 4,11-12)

«Così che non si convertano e venga loro perdonato!»: finisce con questa fosca clausola la frase che Gesù pronunzia nel Vangelo di Marco riguardo alla funzione delle parabole che egli sta raccontando. Paradossale è proprio questa definizione della finalità delle parabole, espressa con quell’“affinché” che indica appunto uno scopo da raggiungere. Forse che Gesù ha scelto l’uso del linguaggio parabolico, che è anche il suo modo più comune di insegnare, per offuscare la mente e il cuore del suo uditorio e impedirgli la conversione («così che non si convertano») e il relativo perdono dei peccati («e non venga loro perdonato»)? La frase, in verità, si basa su una citazione del profeta Isaia che, nel giorno della sua vocazione, aveva ricevuto questo monito: «Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendilo duro d’orecchi e acceca i loro occhi, e non veda con gli occhi, né oda con gli orecchi, né comprenda col cuore, né si converta così da essere guarito!» (6,10).

Dobbiamo proprio partire da questa citazione per comprendere le dure parole di Cristo che sembrerebbero smentire la finalità salvifica della sua predicazione. È chiaro il contenuto dell’appello rivolto a Isaia: egli si scontrerà con il rigetto degli Israeliti, un fenomeno scontato e ben noto ai profeti. Ebbene, quegli imperativi sono in realtà equivalenti a indicativi: si adotta questa forma per mostrare quale sarà il risultato della predicazione profetica, che Dio certamente non vuole, ma che gli è già nota ed è inserita nel suo disegno di salvezza. Questo progetto salvifico, però, continuerà lo stesso e si attuerà giudicando il peccato e l’indurimento del cuore e salvando chi si convertirà e compirà il bene.

L’imperativo non è, quindi, un invito a operare in quella linea negativa, bensì è un modo per rappresentare in forma efficace che neanche il male sfugge al piano divino, che non esiste una divinità negativa che si oppone all’unico Signore, come insegnava il dualismo religioso (Dio del bene contro il dio del male), che la libertà umana con le sue scelte perverse non è ignota al Creatore e non frustra la sua volontà di salvezza. Nello stesso libro di Isaia si giunge al punto di porre anche il male sotto il comando divino: «Sono io che formo la luce e le tenebre, faccio il bene e provoco il male» (45,7). Con questa frase così aspra si vuole soltanto ricordare che nulla sfugge all’onnipotenza del Signore; anche il male e il peccato possono essere inquadrati nel suo grande disegno sull’essere e sull’esistere.

Gesù cita, dunque, questa tesi importante formulata nello scritto isaiano e quella “finalità” («affinché...») è di tipo “scritturistico”, cioè equivale alla tradizionale espressione «affinché si adempia la Scrittura che dice...». L’evangelista ne condivide con Gesù (che rimanda a Isaia) il contenuto: le parabole, che dovrebbero essere un luminoso esempio di rivelazione, diventano un elemento di ostinazione contro Cristo. Questo, però, non deve impressionare, perché Dio – che sa anche dal male trarre un bene – continuerà lo stesso a compiere l’insediamento del suo Regno. È interessante vedere come Matteo abbia riletto questa frase di Isaia e di Gesù sostituendo alla finale («affinché...») una causale più immediata e chiara («perché...»). Il messaggio in parabole di Gesù non è accolto «perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri d’orecchi, hanno chiuso gli occhi...» (Matteo 13,15).

Pubblicato il 17 settembre 2012 - Commenti (4)
10
set

Cristo liberatore e lo "spirito impuro"

Liberazione di un indemoniato, ex voto. Cesena, Madonna del Monte.
Liberazione di un indemoniato, ex voto. Cesena, Madonna del Monte.

"Nella sinagoga
vi era un uomo
posseduto da uno
spirito impuro.
Cominciò
a gridare:
«Che vuoi da noi,
Gesù Nazareno?
Io so chi tu sei:
il Santo di Dio!»"


(Marco 1,23-24)

Siamo nella cosiddetta “giornata di Cafarnao”: nell’arco di un giorno e nello spazio di questa cittadina che s’affaccia sul lago di Tiberiade, Gesù compie una serie di atti miracolosi. Uno di questi eventi si svolge nella sinagoga locale (quella che Giovanni inserì come fondale per il celebre discorso di Gesù sul “pane di vita”): all’improvviso una persona si alza nell’assemblea, mentre Gesù sta insegnando con grande autorità, e gli si scaglia contro interpellandolo e apostrofandolo (Marco 1,21-26). Chi travolge quest’uomo apparentemente normale, facendone un avversario di Cristo?

In lui agisce un’inattesa presenza specifica, sollecitata dalla parallela presenza di Gesù. È una presenza vitale e personale che interloquisce con Cristo, paradossalmente riconoscendolo come «Santo di Dio», rivelandosi quindi come dotata di una trascendenza e di un’origine divina. Si ha, perciò, un’epifania di Satana il quale sa di avere come avversario Dio stesso, presente e operante in Gesù Cristo. Non possiamo qui ridurre l’evento a una guarigione da una malattia grave, come la demenza (Marco 5,1-20) o l’epilessia (9,14-29), casi che in seguito considereremo e rubricati dagli evangelisti come possessioni diaboliche.

Sappiamo, infatti, che nell’antico Vicino Oriente si era inclini a porre sotto l’insegna del demoniaco tutto il negativo della storia: le malattie fisiche, le devianze psichiche, gli influssi sociali nefasti, il peccato personale, il male in generale. Qui, invece, si ha una presenza personale specifica; è l’incontro con un essere misterioso che si erge contro Cristo dichiarandosi suo avversario; con lui Gesù ingaggia un duello che si risolve con un comando efficace e salvatore: «Esci da quest’uomo!». E, in finale, l’urlo che si ode rappresenta il grido di sconfitta di Satana. La salvezza non viene da formule e gesti esoterici, da filtri o pozioni magiche, ma solo da un ordine autorevole e operativo di Cristo.

Al centro di questo racconto non c’è, quindi, lo “spirito impuro”, il diavolo, ma Cristo liberatore dal male. Il cristianesimo rigetta ogni forma di dualismo che veda come arbitri della storia e dell’essere due divinità antitetiche: il demonio non è il principio del male che combatte il principio divino del bene. Satana (in ebraico “avversario”) è inferiore a Dio ed è da lui controllato e dominato. Anche se, dunque, la sua presenza dev’essere ridimensionata, il diavolo (in greco, “colui che divide”) è un essere personale che agisce con forza. Certo, l’uso del termine “persona” è per lui un po’ improprio, perché si tratta di un concetto positivo, usato anche per Dio (ad esempio, le tre “persone” della Trinità).

Satana è, invece, l’antitesi di Dio, nel quale l’essere persona è pienezza assoluta; è l’antitesi anche dell’uomo, la cui persona dovrebbe essere segno di intimità, di donazione, di amore. Lo scrittore francese agnostico André Gide scriveva: «Se il diavolo potesse, direbbe: Io sono colui che non sono». E curiosamente lo stesso autore concludeva: «Non credo nel diavolo; ma è proprio quello che il diavolo spera: che non si creda in lui». A lui farà eco Giovanni Papini quando diceva che «l’ultima astuzia del diavolo fu quella di spargere la voce della sua morte».

Pubblicato il 10 settembre 2012 - Commenti (2)
30
ago

Si fece buio

Cristo in croce di Jean-Baptiste Van Loo (1684-1745). Firenze, Palazzo Pitti.
Cristo in croce di Jean-Baptiste Van Loo (1684-1745). Firenze, Palazzo Pitti.

"Dall'ora sesta
si fece buio
su tutta la terra,
fino all’ora nona."

(Matteo 27,45)

Matteo ha evocato una coreografia di eventi clamorosi attorno alla morte di Gesù. Il loro scopo è di presentare la vicenda finale di Cristo nel suo significato profondo, “teofanico”, cioè rivelatore dell’azione divina di salvezza, approdo di una storia di annunci già offerti dall’Antico Testamento. È così che l’evangelista convoca una serie di immagini bibliche per illustrare il senso autentico e profondo della morte di Cristo, che si è compiuta in quel pomeriggio primaverile intorno all’anno 30. Tre sono i segni introdotti da Matteo.
Il primo è comune anche a Marco e Luca ed è lo squarcio nel “velo del tempio”, ossia di quella cortina di porpora, di scarlatto e lino che nascondeva il Santo dei Santi, la sede dell’arca dell’alleanza e della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Facile è intuire il valore di quel segno: Dio non è più misterioso e invisibile, ma è visibile in quell’uomo crocifisso, tant’è vero che il centurione e la sua scorta esclamano: «Davvero costui era Figlio di Dio!» (27,54).

Il secondo segno “teofanico” è classico nella Bibbia, il terremoto accompagnato da un’eclissi di sole, un evento che in questo caso non è documentabile storicamente e astronomicamente, ma il cui valore è simbolico perché, come accade al Sinai, «tuoni, lampi, nube oscura» e «il monte che trema molto» (Esodo 19,16.18) fanno parte della scenografia dell’ingresso di Dio nell’orizzonte della storia umana. In tal modo si vuole marcare la trascendenza e la potenza divina. Il profeta Amos, per descrivere «il giorno del Signore», cioè il suo giudizio sulla storia umana, usa un’immagine affine: «In quel giorno – oracolo del Signore Dio – farò tramontare il sole all’ora terza [mezzodì] e oscurerò la terra in pieno giorno» (8,9).

Infine, il terzo segno, il più importante per spiegare il valore ultimo della morte di Gesù: «I sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono. E uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti» (27,52-53). Significativo è l’inciso «dopo la sua risurrezione »: la morte e la risurrezione di Cristo segnano l’inizio del trionfo sulla morte per l’intera umanità. I membri del popolo di Dio («i santi morti») sono uniti alla vittoria di Gesù sulla morte: le loro tombe sono spalancate, i corpi risorti entrano nella «città santa», cioè Gerusalemme nuova e perfetta, mentre la loro “apparizione” è la testimonianza della realtà della vittoriosa risurrezione di Cristo che ha preceduto la loro.

In conclusione, la narrazione matteana della morte di Gesù non dev’essere letta in modo cronachistico, ma nella sua densità religiosa. Certo, l’evangelista offre molti dati storici e spaziali su quella morte, ma vuole che i suoi lettori ne colgano il significato profondo, l’unicità assoluta, la dimensione teologica. Ed egli lo fa ricorrendo a quei segni biblici del velo, della tenebra, dei sepolcri aperti e dei giusti risorti. Quella morte, infatti, non è solo un evento storico, ma è l’ingresso della divinità nella caducità dell’esistenza umana per trasformarla e introdurla all’abbraccio con Dio e l’eterno.

Pubblicato il 30 agosto 2012 - Commenti (4)
23
ago

«Il suo sangue ricada su di noi!»

Gesù davanti a Pilato, affresco di scuola cassinese. Sant’Angelo in Formis, Capua.
Gesù davanti a Pilato, affresco di scuola cassinese. Sant’Angelo in Formis, Capua.

"Tutto il popolo esclamò:
«Il suo sangue
ricada su di noi
e sui nostri figli».

(Matteo 27,25)

Una vasta bibliografia è fiorita attorno al duplice processo subito da Gesù, quello presso il tribunale supremo giudaico, il Sinedrio, e la successiva istanza imperiale presso il governatore romano Ponzio Pilato. I Vangeli, nella loro relazione di quegli eventi, riflettono anche il contesto storico in cui la comunità cristiana allora viveva, con evidenti tensioni rispetto all’ebraismo da cui essa proveniva. Questo aspetto specifico è percepibile nella redazione matteana di quegli atti: essa è protesa a marcare le responsabilità del Sinedrio, attenuando quelle – decisive per la sentenza finale – del procuratore romano.

Significativi, al riguardo, sono due elementi evocati solo da questo evangelista: l’intervento della moglie di Pilato, «turbata in sogno a causa dell’uomo giusto» Gesù (27,19), e la lavanda delle mani, gesto in realtà biblico, scandito da una dichiarazione di Pilato: «Non sono responsabile di questo sangue». Si spiega, così, l’accento spostato sul Sinedrio e sul popolo ebraico, come appare nella frase veemente che abbiamo posto sotto la nostra attenzione. È evidente che con essa Matteo, il cui Vangelo era indirizzato a cristiani di origine giudaica, vuole ormai segnare fortemente il distacco dalla Sinagoga e mostrare l’apertura della Chiesa verso il mondo pagano.

Sappiamo, d’altronde, che i Vangeli non sono documenti storiografici in senso stretto: pur fondandosi su avvenimenti testimoniali e memorie storiche, essi offrono una molteplice rilettura teologica della figura, delle vicende e delle parole di Gesù di Nazaret. Non per nulla sono quattro e hanno alla base autori e situazioni originarie differenti. Dal punto di vista storiografico, è difficile essere drastici rispetto alle responsabilità della condanna a morte di Gesù. Certamente la pena di morte fu irrogata solo da chi aveva il potere giuridico di emetterne la sentenza, cioè il tribunale romano.

Non possiamo, però, ignorare che il Sinedrio aveva rubricato la colpa di Gesù da religiosa (la bestemmia) a politica (la ribellione a Cesare) per eliminare una figura imbarazzante per la classe dirigente religiosa e politica giudaica di allora. Si spiega così la frase della folla evocata da Matteo, secondo un’espressione biblica tradizionale per condannare un delitto o una persona pericolosa, assumendone la responsabilità (si veda 2Samuele 1,16 e 3,29). Questo, tuttavia, non può assolutamente autorizzare – come purtroppo è avvenuto con l’antisemitismo di matrice cristiana – a usare la frase matteana per sostenere l’assurda accusa di “deicidio” per il popolo ebraico (e neppure per i Romani).

Chiaro ed esplicito è stato il concilio Vaticano II quando ha affermato: «Sebbene le autorità ebraiche con i propri seguaci si siano adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua Passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi né agli Ebrei del nostro tempo» (Nostra aetate, n. 4). A questo, poi, si aggiunge il legame radicale del cristianesimo con Israele, affermato dallo stesso san Paolo nelle pagine appassionate dei capp. 9-11 della Lettera ai Romani o dalla frase suggestiva del Gesù di Giovanni: «La salvezza viene dai Giudei» (4,22).

Pubblicato il 23 agosto 2012 - Commenti (2)
16
ago

Il bacio di Giuda

Bacio di Giuda, copia del mosaico della basilica di San Marco, Venezia.
Bacio di Giuda, copia del mosaico della basilica di San Marco, Venezia.

"Giuda si avvicinò
a Gesù e disse:  «Salve, Rabbì».
E lo baciò.
 Gesù gli disse: «Amico, per
questo sei qui!».

(Matteo 26,49-50)

In quella notte fosca, nell’orto degli Ulivi, detto in aramaico Getsemani (“frantoio per olive”), s’avanza Giuda, il discepolo soprannominato “Iscariota”, forse “uomo di Kariot”, un villaggio meridionale della Terra Santa, oppure – secondo le varie ipotesi interpretative formulate dagli studiosi – deformazione del termine latino sicarius, con cui i Romani bollavano i ribelli al loro potere, o ancora ’ish-karja’, “uomo della falsità”, forse un soprannome negativo assegnatogli successivamente.

Il celebre gesto del bacio che egli compie è divenuto un emblema del tradimento, e Gesù, secondo il Vangelo di Luca, reagisce tristemente: «Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo?» (22,48).
Matteo, invece, registra solo una reazione secca da parte di Cristo. In greco si ha soltanto ef’ ho párei, che significa: «Per questo sei qui!», in pratica, «fa’ quello che hai deciso di fare». Ma questa frase, simile a un soffio, è introdotta da un amaro hetáire, “amico”. L’evangelista, però, riferirà uno sbocco inatteso di quel gesto, a distanza di poche ore da questo scarno dialogo tra l’ex discepolo e il suo Maestro: Giuda, infatti, restituito ai mandanti il prezzo del tradimento, travolto dal rimorso, s’impiccherà (27,5).

Forse egli aveva vissuto una delusione interiore rispetto al sogno di diventare il seguace del Messia politico liberatore dal potere oppressivo imperiale e per questo aveva tradito, ritrovandosi però alla fine interiormente sconvolto.
Noi ora ci poniamo una domanda più teologica. Se il tradimento era iscritto nel disegno di Dio che comprendeva la morte salvifica del Figlio, quale responsabilità poteva ricadere su chi ne doveva essere lo strumento di attuazione?
Non è forse vero che Gesù aveva dichiarato che «nessuno [dei discepoli] sarebbe andato perduto tranne il figlio della perdizione, perché si adempisse la Scrittura» (Giovanni 17,12)?
La questione è delicata: da un lato, c’è la libertà efficace di Dio che opera nella storia e nel mondo; d’altro lato, c’è la libertà della persona umana di Giuda. Questa seconda libertà è stata sollecitata in Giuda da Satana, come aveva ribadito lo stesso Gesù: «Non ho forse scelto io voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!», si legge nel Vangelo di Giovanni (6,70), e lo stesso evangelista nota che, dopo l’ultima cena con Gesù nel Cenacolo, «Satana entrò in Giuda...; il diavolo gli aveva messo in cuore di tradire» (13,2.27). E aggiungerà che alla base del tradimento c’era la cupidigia del denaro (12,4-6). La volontà di Giuda si era, quindi, esercitata liberamente, cedendo alla tentazione diabolica.

Come, invece, si è manifestata la libertà di Dio, espressa nella frase «perché si adempisse la Scrittura» usata da Gesù per collocare l’evento del tradimento in un altro disegno superiore? Questa formula vuole semplicemente indicare che anche la libertà umana con le sue follie e vergogne può essere inserita in un disegno divino superiore. Giuda opta coscientemente e responsabilmente per il tradimento aderendo a Satana, e Dio inserisce questo atto umano infame nel suo progetto libero ed efficace di redenzione. Dio non è, quindi, preso in contropiede dalla scelta del traditore; egli la rispetta e non la blocca, ma la riconduce all’interno del disegno salvifico che si attuerà proprio con la morte di Cristo.

Pubblicato il 16 agosto 2012 - Commenti (2)
09
ago

Il giorno e l'ora

Giudizio Finale (1289-93), particolare dei serafini, affresco di Pietro Cavallini (1240 ca.-1320 ca.). Roma, Santa Cecilia in Trastevere.
Giudizio Finale (1289-93), particolare dei serafini, affresco di Pietro Cavallini (1240 ca.-1320 ca.). Roma, Santa Cecilia in Trastevere.

"Quanto a quel
giorno e a
quell'ora
nessuno lo sa, né
gli angeli
del cielo, né il
Figlio ma solo
il Padre".


(Matteo 24,36)

Partiamo da una domanda iniziale che i discepoli rivolgono a Gesù. Egli, sostando davanti al monumentale tempio gerosolimitano eretto da Erode, aveva annunziato la futura rovina di quell’edificio.
I discepoli, allora, gli avevano chiesto: «Di’ a noi quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo » (Matteo 24,3). È evidente che, nel loro quesito, essi intrecciano eventi diversi tra loro: la distruzione del tempio da parte dei Romani nel 70, la nuova venuta di Cristo giudice della storia e la fine del mondo. Si concentrano qui alcuni interrogativi che hanno tormentato la Chiesa delle origini e che hanno vari riflessi nel Nuovo Testamento (si leggano, ad esempio, le Lettere di Paolo ai Tessalonicesi o il libro dell’Apocalisse o la Seconda Lettera di Pietro nella finale del cap. 3 e così via).

Queste domande sono usate da Matteo come cornice per il cosiddetto “discorso escatologico”, il quinto e ultimo intervento ampio di Gesù, presente nei capp. 24-25 di quel Vangelo. Il termine “escatologico” è di matrice greca e indica le “realtà ultime”, cioè la fine della storia, ma anche il fine di tutto l’essere. Non si tratta, infatti, di una dissoluzione nel nulla ma di una redenzione, di una salvezza, di una nuova creazione («cielo nuovo e terra nuova», Apocalisse 21,1), comprendente il giudizio divino discriminante tra bene e male (si legga Matteo 25,31-46, una pagina memorabile che vede Cristo protagonista di questo atto ultimo della storia umana).

Il discorso escatologico di Cristo non vuole descrivere i fenomeni fisici o gli eventi terminali che sigleranno la fine del mondo, anche se in apparenza le immagini usate sembrano inclinare in questa linea.
In realtà, si tratta di simboli desunti da una letteratura popolare nel giudaismo di quei secoli, presente anche nella Bibbia col libro di Daniele, e denominata “apocalittica”. Il termine di genesi greca designa una “rivelazione” (si pensi all’Apocalisse di Giovanni): essa ha come meta l’apertura simbolica del sipario sul destino ultimo dell’essere e dell’esistere. Proprio perché essa si affaccia su un ignoto tenebroso, questa letteratura ama segni, visioni, scene che recano impresse sensazioni di terrore o di indecifrabilità.

Cristo ricorre a questo apparato non per elaborare previsioni su quell’evento estremo, bensì per creare tensione e impegno nei confronti del regno di Dio, già inaugurato con la sua venuta ma destinato a raggiungere una meta di pienezza futura, un po’ come aveva fatto balenare nella parabola del granello di senape che cresce fino a diventare un albero (Matteo 13,31-32).
In questa luce si comprende la frase sorprendente che abbiamo ritagliato da quel discorso. A Gesù poco interessa fare oroscopi sulla fine del mondo oppure sugli antefatti storici: essi sono certamente inseriti nel piano salvifico divino.

Egli, invece, nella sua esistenza storica e umana si interessa solo di ciò che riguarda la sua missione, ossia instaurare le basi del regno di Dio, un progetto di salvezza, di liberazione, di amore che fiorirà pienamente in quell’eternità, destinata a subentrare «a quel giorno e a quell’ora» della fine che il Padre celeste ha disegnato nel suo piano generale di creazione e di redenzione. In questa frase di Gesù brilla, quindi, la sua umanità reale e non fittizia.
La divinità, alla quale egli partecipa come Figlio di Dio, sarà invece svelata nella sua risurrezione e nel suo ritorno al Padre.

Pubblicato il 09 agosto 2012 - Commenti (0)
02
ago

Il Messia di chi è figlio?

Sacra parentela, dipinto originario della Germania, circa 1500. Philadelphia, Museum of Art.
Sacra parentela, dipinto originario della Germania, circa 1500. Philadelphia, Museum of Art.

"Gesù chiese
ai farisei: «Che
cosa pensate
del Cristo?
Di chi è figlio?».
Gli risposero:
«Di Davide»".


(Matteo 22,41-42)

Questa volta non sono i suoi avversari a punzecchiare Gesù, come accade ripetutamente nella pagina del capitolo 22 di Matteo, una pagina costellata di “controversie”, ossia di polemiche con farisei e sadducei. Ora è lui stesso che provoca i farisei riuniti in un’assemblea, rivolgendo loro il quesito che abbiamo citato, apparentemente banale. Non era, infatti, noto a tutti i lettori della Bibbia che il Messia sarebbe disceso dal filo genealogico davidico? Ricordiamo che la parola “Cristo” è la versione greca dell’ebraico “Messia” (Mashiah) che significa “consacrato”, e che “figlio” è usato spesso in senso lato per indicare un discendente. Dov’è, dunque, la difficoltà?


Essa è da cercare nel prosieguo della discussione. Gesù, infatti, mette sul tappeto del dibattito un celebre Salmo messianico, il 110, ritenuto opera di Davide come si evince dal titolo che gli era stato apposto: «Di Davide. Salmo». L’inno, composto dal famoso sovrano considerato appunto dalla tradizione come l’antenato del Messia, «mosso dallo Spirito » (22,43), inizia con un oracolo divino che è così introdotto: «Disse il Signore [Yhwh Dio] al mio Signore [il re Messia] ». Segue l’oracolo: «Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici sotto i tuoi piedi». Davide, quindi, chiama il Messia «mio signore». Facile è l’obiezione di Cristo: «Se dunque lo chiama “Signore” come può essere suo figlio?» (22,44-45). Se il Messia-Cristo è “figlio di Davide”, come può Davide definirlo suo “Signore” e quindi a lui superiore?


I farisei si trovano impastoiati in una disputa di taglio rabbinico, un genere nel quale peraltro eccellevano. Gesù li avviluppa nella stessa rete che essi più di una volta avevano teso contro di lui con i loro quesiti. A questo punto, però, ci si attenderebbe di vedere come Gesù – qui raffigurato nella veste di un rabbí giudaico – riesca a risolvere la contraddizione tra un Messia contemporaneamente figlio e Signore di Davide, secondo l’analisi appena fatta del Salmo 110. La conclusione di Matteo è spiazzante: «Nessuno era in grado di rispondergli e, da quel giorno, nessuno osò più interrogarlo» (22,46). Marco, che ambienta questa scena nell’area del tempio di Gerusalemme, senza introdurre i farisei come interlocutori, conclude semplicemente: «la folla numerosa lo ascoltava volentieri» (12,37).


La risposta a quell’apparente contraddizione è ovviamente possibile solo in sede cristiana. Per il giudaismo, infatti, il Messia rimane creatura umana e come tale non potrà essere definito “Signore”. Nel cristianesimo il Cristo ha certamente una reale dimensione storica e, quindi, è ancorato nella sua umanità a una discendenza, quella davidica, attestata dalla genealogia che lo stesso Matteo pone in apertura al suo Vangelo: «Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo » (1,1). Egli è, dunque, realmente «figlio [discendente] di Davide», legato alla linea della promessa messianica (2Samuele 7; Salmo 89). Ma contemporaneamente è figlio di Dio e, in questa luce, è “Signore” di Davide. Il mistero centrale del cristiano, l’Incarnazione, risolve dunque anche l’enigma del Salmo 110, posto da Gesù all’attenzione dei farisei.

Pubblicato il 02 agosto 2012 - Commenti (2)
26
lug

I sette mariti

Simone Pignoni (1611-1698), Rut e Booz. Firenze, Collezione Cisbani.
Simone Pignoni (1611-1698), Rut e Booz. Firenze, Collezione Cisbani.

"Alla risurrezione, di
quale dei sette quella
donna sarà moglie?
Tutti infatti l’hanno
avuta in moglie!"


(Matteo 22,28)

Se si va a cercare su un dizionario biblico la parola “levirato” (dal latino levir, “cognato”) si trova più o meno una definizione di questo tipo: «Prassi giuridica dell’antichità ebraica e di altri popoli, secondo la quale se un uomo sposato decedeva senza figli, il fratello più giovane ne doveva sposare la vedova per assicurare una discendenza al defunto: il nome del morto e la sua eredità sarebbero stati assegnati al primogenito di questa nuova unione». Nell’Antico Testamento sono tre i testi che presentano tale istituto. I primi due riguardano il primogenito del patriarca Giuda di nome Er, morto precocemente (Genesi 38,6-11), e Booz che prese in moglie Rut, sposa del defunto Elimelek, essendo suo unico parente (Rut 1,11; 4,5).

In pratica, da questi due testi emerge che il cognato (o il parente prossimo, in caso di assenza di cognati) doveva sposare la vedova di suo fratello, così da poter assicurare un erede. Il terzo testo è, invece, squisitamente giuridico e offre un’articolazione più complessa dell’obbligo con una serie di specificazioni, limitazioni ed eccezioni che non è il caso di puntualizzare in questa nostra trattazione (Deuteronomio 25,5-10). Il nostro compito è, infatti, quello di spiegare il caso limite addotto dai Sadducei, una corrente conservatrice del giudaismo del tempo di Cristo, proposto a Gesù per metterlo in imbarazzo. Essi prospettano una catena di levirati nei confronti di una sola donna: sette fratelli subentrano in matrimoni successivi, morendo però tutti prima di aver assicurato una discendenza alla vedova e, quindi, al loro primo fratello defunto.



Il paradosso fittizio è introdotto per costringere Gesù a schierarsi con loro contro i farisei – l’altra corrente giudaica avversaria – negando la risurrezione che questi ultimi sostenevano come dottrina di fede. Infatti, sogghignando, alla fine gli domandano: «Alla risurrezione, di quale dei sette la donna sarà moglie? ». Cristo, nella sua risposta, non cade nel tranello e replica volando alto: «Alla risurrezione non si prende né marito né moglie, ma si è come gli angeli del cielo» (22,30). Egli nega, così, una lettura “materialistica” della risurrezione. E aggiunge una motivazione teologica ulteriore, citando un passo dell’incontro di Mosè con il Signore al roveto ardente del Sinai: «Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe. Non è il Dio dei morti ma dei viventi! » (22,32; cfr. Esodo 3,6).

Dio non si lega a cadaveri, ma a esseri viventi ai quali apre un orizzonte di vita oltre la morte secondo categorie differenti rispetto a quelle meramente “carnali”, basate sulla nostra storia che si muove secondo le coordinate dello spazio e del tempo. Si tratta di un nuovo ordine di rapporti, di una nuova creazione, di un orizzonte nel quale i vincoli parentali e sociali sono trasfigurati. Queste parole di Gesù avevano conquistato quel grande filosofo e scienziato credente che fu Blaise Pascal. A partire dal 1654 fino alla morte (1662) egli portò sempre con sé un foglio, cucito nella fodera del farsetto, intitolato “Fuoco”, e scoperto alla morte del pensatore da un domestico.

Eccone il testo modulato sulle parole di Gesù, commentate liberamente da Pascal: «Dio d’Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti. Certezza, certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo. Dio mio e Dio vostro. Il tuo Dio sarà il mio Dio. Oblio del mondo e di tutto fuorché di Dio. Egli non si trova se non per le vie indicate dal Vangelo».

Pubblicato il 26 luglio 2012 - Commenti (2)

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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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