21 feb
Sano di Pietro (1406-1481), San Girolamo nel deserto. Parigi, Louvre (Scala).
"Quale padre tra
voi...se il figlio
gli chiede
un uovo,
gli darà
uno scorpione?"
(Luca 11, 11-12)
La frase completa di Gesù, che ora
prendiamo in considerazione, comincia
con un’immagine piuttosto
chiara per descrivere l’amore del Padre
celeste che si preoccupa dei suoi figli,
anche se non sempre come essi vorrebbero
a causa dei loro pensieri non del
tutto perfetti. Si ha, infatti, questa
espressione: «Quale padre tra voi, se il
figlio gli chiede un pesce, gli darà una
serpe al posto del pesce?».
L’immagine
ha un suo senso: l’anguilla, ad esempio,
assomiglia molto a una biscia, così
come molti pesci sottili e flessuosi evocano
la forma e il movimento delle serpi.
L’evangelista Matteo aggiunge a questa
un’altra figura, altrettanto coerente:
«Chi di voi, al figlio che gli chiede un
pane, darà una pietra?» (7,9). Un ciottolo
levigato e una pagnotta possono assomigliarsi.
Ma che senso ha, invece, il paragone
che Luca introduce tra un candido e rotondeggiante
uovo e un animaletto nerastro
com’è il nostro scorpione? Ebbene,
la risposta è ancora una volta, come
in altri casi, da cercare nell’ambiente
naturale in cui Gesù vive e parla.
Egli, infatti, ama evocare (e le sue parabole
ne sono una testimonianza illuminante)
pesci, pecore, cagnolini, uccelli,
serpi, avvoltoi, tarli, asini e altri elementi
del paesaggio in cui i suoi uditori
operano, naturalmente non fermandosi
alla zoologia, interessandosi anche
della botanica (semi, zizzania, grano,
viti, fichi, senapa, gigli, querce, canneti
e così via).
Ora, lo scorpione (’akrab in ebraico,
skorpíos in greco) è presente nella Terrasanta
e in Siria in una dozzina di specie
diverse dai vari colori, gialli, bruni, neri,
rossi, a strisce e soprattutto biancastri.
Questi ultimi, che possono raggiungere
anche i 15 centimetri di lunghezza,
quando s’arrotolano su sé stessi nascondendosi
nelle pietraie del deserto, assumono
appunto la forma di un piccolo
uovo e possono, perciò, trarre in inganno
e, quindi, colpire col loro aculeo velenoso,
che però non è mortale anche
se doloroso e fastidioso. Ecco, allora,
spiegata la comparazione di Gesù che
perde, in questo modo, la sua apparente
paradossalità o incongruenza.
A questo punto vorremmo aggiungere
l’applicazione del paragone che
è sorprendentemente diversa in Matteo
e Luca. Il primo evangelista, infatti,
più direttamente conclude: «Se voi,
che siete cattivi, sapete dare cose buone
ai vostri figli, quanto più il Padre
vostro che è nei cieli darà cose buone
a quelli che gliele chiedono» (Matteo
7,10). Luca, invece, ha: «...quanto più
il Padre vostro del cielo darà lo Spirito
Santo a quelli che glielo chiedono»
(11,13).
Ancora una volta si dimostra
come gli evangelisti non sono meri
verbalizzatori delle parole di Gesù, ma
cercano di scavarne e scovarne il senso
profondo e l’applicazione vitale:
ora, il dono dello Spirito Santo, che
trasforma l’intero essere del fedele,
non è forse la “cosa buona” per eccellenza?
Pubblicato il 21 febbraio 2013 - Commenti (4)
14 feb
Tintoretto (Jacopo Robusti, 1518-1594), anta d’organo con gli evangelisti Luca e Matteo. Venezia, Santa Maria del Giglio (Scala).
"Padre, sia
santificato
il tuo nome,
venga il
tuo regno..."
(Luca 11,2)
Tutti i cristiani conoscono a memoria la
preghiera che Gesù ha insegnato ai
suoi discepoli. Se, però, aprono il Vangelo
di Luca, anziché invocare il Padre celeste
con sette domande, si ritrovano a pregarlo
solo con cinque e non del tutto coincidenti
con le formule che essi ripetono nelle loro
orazioni o nella liturgia: «Padre, sia santificato
il tuo nome, / venga il tuo regno, / dacci
ogni giorno il nostro pane quotidiano, / e
perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti
perdoniamo a ogni nostro debitore, / e
non abbandonarci alla tentazione» (11,2-4).
Ebbene, noi conosciamo a memoria la
versione più ampia offerta dall’evangelista
Matteo (6,9-13): essa riflette probabilmente
un adattamento all’uso che già si faceva
della preghiera di Gesù nella comunità
cristiana delle origini e nella sua liturgia.
Questa variazione, che non intacca la
sostanza dell’orazione, è la conferma di
un elemento fondamentale per comprendere
i Vangeli. Essi, pur riferendo dati storici,
non sono manuali storiografici in senso
stretto, non sono biografie rigorose né
tanto meno verbali dei fatti o dei detti di
Cristo. Gli evangelisti assumono gli eventi
trasmessi dai testimoni (come accade per
Marco e Luca) o da loro stessi vissuti (come
nel caso di Matteo o Giovanni) e li ordinano
all’interno di una trama, riferiscono le
parole di Gesù adattandole al loro uditorio,
attualizzandole e incarnandole nei
nuovi contesti.
La loro è, dunque, una fedeltà duttile e la
loro finalità ultima non è tanto la ricostruzione
storica in senso accademico, ma l’annunzio
della storia della salvezza. Così, Matteo
incastona il Padre nostro nel Discorso della
Montagna, che raccoglie vari interventi
pronunziati da Gesù in momenti diversi e delinea
una sorta di minicatechismo sulla preghiera
(si legga il passo Matteo 6,5-9 che precede
il Padre nostro).
Luca, invece, fa fiorire il
“Padre” (egli ha solo l’invocazione nuda Páter
che sembra riflettere l’aramaico abba,
“babbo”, caro a Gesù) da una domanda di
uno dei discepoli, il quale chiede a Gesù una
preghiera distintiva per la sua comunità, così
come i discepoli del Battista o altri gruppi religiosi
del tempo si distinguevano proprio
per una loro preghiera-simbolo, simile a un
vessillo di riconoscimento.
Come si diceva, le cinque invocazioni di Luca
sono forse la forma originaria del Padre
nostro insegnata da Gesù, prima delle aggiunte
introdotte dall’uso comunitario e riferite
da Matteo. Luca, però, ha reso le invocazioni
più comprensibili nella loro formulazione
anche ai suoi interlocutori che erano cristiani
non di origine ebraica ma pagana.
È per
questo che leggiamo invece di «Rimetti a noi
i nostri debiti…», come si ha in Matteo, un
più chiaro «Perdona a noi i nostri peccati».
Nella lingua usata da Gesù, l’aramaico, i peccati
erano appunto chiamati hobáin, “debiti”
nostri nei confronti di Dio. La realtà profonda
della preghiera che Cristo ha voluto insegnarci
rimane, dunque, intatta anche nelle
” diversità redazionali degli evangelisti.
Pubblicato il 14 febbraio 2013 - Commenti (2)
07 feb
Cristo in casa di Marta di Giovanni da Milano (secolo XIV). Firenze, Santa Croce.
"Marta, Marta,
tu ti affanni
e ti agiti
per
molte cose...
Maria ha scelto
la parte migliore."
(Luca 10,41-42)
Gesù è accolto festosamente nella casa
di una famiglia amica: è una scena di
serenità e di pace che vari pittori hanno
voluto ricreare nelle loro tele, da Tintoretto
nel 1500 (Monaco) a Velázquez nel 1618
(National Gallery di Londra), da Vermeer nel
1653 (a Edimburgo), fino a Overbeck nel
1815 (a Berlino). È solo l’evangelista Luca
(10,38-42) a narrarci questo episodio che presenta
due donne, Marta e Maria, mentre Giovanni
introdurrà un’altra scena parallela ma
differente che vede ancora le due donne nello
stesso atteggiamento che tra poco descriveremo
(12,1-11).
Nella narrazione giovannea,
però, non solo si indica la località, Betania,
un sobborgo di Gerusalemme, ma si fa anche
emergere la figura del fratello Lazzaro, il
quale era stato oggetto di un intervento clamoroso
di Cristo: come si sa, egli l’aveva riportato
in vita (11,1-45).
Ma ritorniamo all’episodio descritto da Luca.
Ciò che accade entro quelle pareti è noto:
Marta funge da padrona di casa (non si cita
Lazzaro), ed è subito coinvolta nei calorosi riti
dell’ospitalità, una realtà molto sentita e
vissuta in Oriente. La sorella Maria, invece, si
intrattiene nell’ascolto dell’ospite.
Le parole che Gesù riserva a Marta, infastidita
per l’assenza di collaborazione della sorella,
hanno dato alla scena un valore simbolico,
interpretato dalla tradizione come
la raffigurazione di due modelli di vita, quella
attiva e impegnata nel sociale e quella
contemplativa e mistica. La prima sarebbe
stata svalutata dalla risposta di Gesù a scapito
della seconda.
Anche il poeta francese Paul Claudel, nel
suo dramma Lo scambio (1894), darà il nome
di Marta alla protagonista umile e laboriosa
facendone l’emblema della dedizione alla famiglia,
all’esistenza quotidiana, agli impegni
concreti. In realtà, le cose stanno diversamente
se si approfondisce il testo evangelico,
a partire dalle parole di Cristo che suonano
così: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per
molte cose, ma di una sola cosa c’è bisogno
[altri codici antichi hanno invece questo testo:
«ma c’è bisogno di poco, anzi di una sola
cosa»]. Maria ha scelto la parte migliore, che
non le sarà tolta».
Ebbene, di Marta nel racconto di Luca si diceva
che «era tutta presa», quasi «distolta» a
causa del servizio a cui si era totalmente dedicata.
Qui è la chiave per comprendere la puntualizzazione
di Gesù. Marta si è lasciata assorbire
completamente dalle cose esteriori.
Maria, invece, incarna il modello del discepolo
che, in qualsiasi contesto, è in ascolto della
Parola divina e tiene sempre la barra rivolta
verso «la parte migliore» e fondamentale.
Detto in termini generali, non è il lavoro in
sé che allontana da Dio e dallo spirito (Gesù
con tutto il suo predicare, guarire, incontrare,
ascoltare non era forse anche lui un “attivo”?),
bensì è l’alienazione nell’agire, è l’essere
catturati totalmente dalle cose, senza
più un atteggiamento interiore, implicito o
esplicito, rivolto verso Dio, una sorta di canale
intimo aperto verso di lui.
Pubblicato il 07 febbraio 2013 - Commenti (2)
04 feb
Entrata di Cristo in Gerusalemme, affresco, 1303-1304, di Giotto. Padova, cappella degli Scrovegni.
"Mentre stavano
compiendosi i giorni
in cui sarebbe stato
elevato in alto,
egli rese
duro il suo volto
incamminandosi verso
Gerusalemme."
(Luca 9,51)
Frase contorta e oscura, questa di
Luca, che noi abbiamo parzialmente
lasciata nel tenore greco originario.
Innanzitutto ricordiamo che qui
– stando alla struttura del terzo Vangelo
– inizia la lunga marcia che condurrà
Gesù alla città del suo destino terreno
finale e che occuperà quasi dieci capitoli
del racconto di Luca (da 9,51 a 19,28).
Viaggio, certo, geografico-spaziale, ma
anche simbolico-spirituale. L’evangelista
definisce fin dall’inizio la meta e la
esprime con una sola parola greca, análempsis,
da noi tradotta in modo esplicativo,
“essere elevato in alto”.
L’antica versione latina, la Vulgata di
san Girolamo, aveva semplicemente e
letteralmente dies assumptionis, cioè “i
giorni dell’assunzione/ascensione” del
Risorto, evento che Luca descrive sia in
finale al suo Vangelo (24,50-53), sia in
apertura alla sua seconda opera, gli Atti
degli Apostoli (1,6-11). Effettivamente
l’ascensione al cielo è un modo per rappresentare
la gloria della risurrezione;
l’umanità di Cristo ha avuto il suo svelamento
supremo nella morte e sepoltura;
la sua divinità si mostra nuovamente
nel suo splendore con l’“assunzione”
al cielo che è il segno dell’infinito
e dell’eterno di Dio.
L’evangelista Giovanni vede, però,
questa epifania divina del Figlio compiuta
già mentre egli è sulla croce: «Quando
sarò innalzato da terra, attirerò tutti a
me» (12,32; si leggano anche questi altri
passi giovannei: 3,16 e 8,28).
Perciò, possiamo
dire che la meta ultima dell’itinerario
di Gesù a Gerusalemme è sia il
Calvario, cioè la morte e risurrezione,
sia il monte degli Ulivi o dell’ascensione.
Per raggiungere questo punto terminale
decisivo nel quale si riveleranno in
pienezza l’umanità di Cristo e la sua divinità,
è necessaria da parte di Gesù una
scelta forte e radicale.
Essa è formulata nell’originale greco
di Luca con un’espressione curiosa: Gesù
«fece una faccia dura».
La locuzione, che è
un po’ simile alla nostra quando parliamo
di una “decisione ferrea”, riflette in
realtà il linguaggio profetico, in particolare
quello di Ezechiele che a più riprese
usa l’immagine del «fissare la faccia verso
Gerusalemme» (21,7), mentre il Signore
gli dichiara: «Ecco, io ti do una faccia indurita
quanto la loro faccia» (3,8).
Siamo, quindi, di fronte a una svolta
nella vita di Cristo: egli, sulla base della
profezia che è quasi la lampada che illumina
la sua missione, si avvia al compimento
della volontà del Padre con una
scelta determinata e cosciente.
Egli
non è vittima rassegnata di eventi esteriori
che lo superano e lo condizionano. Gesù
sa che, all’interno dei giochi di potere
che compongono la storia, si dipana un
progetto superiore del quale egli è protagonista.
Ed è Gerusalemme la città del
“compimento” di questo disegno di morte
e di vita, di sofferenza e di gloria, di male
e di redenzione, che egli accoglie e attua
con determinazione e fermezza.
Pubblicato il 04 febbraio 2013 - Commenti (0)
24 gen
Cristo sul Calvario incontra la Madre e la Veronica. Francesco Bonsignori, (1455 -1519 ca.), Firenze, Bargello (Scala).
"Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua."
(Luca 8,1-2)
Qualche lettore si chiederà: dov’è
mai la difficoltà in questa frase
che abbiamo sentito tante volte
nelle prediche senza imbarazzarci, anche
perché di croci da portare ne abbiamo
non poche nella nostra vita quotidiana?
Abbiamo voluto proporre questo
lóghion – come lo chiamano gli studiosi
– ossia questo “detto” lapidario di
Gesù, per mostrare in verità quanto minuziosa
debba essere la nostra lettura
dei testi biblici, così da non perdere la
ricchezza delle loro iridescenze tematiche
e delle loro sfumature. Partiamo
innanzitutto dal tema della frase pronunziata
da Cristo.
L’espressione «venir dietro a me» (in
greco opíso mou érchesthai) designa la
sequela del discepolo che deve avere come
emblema di imitazione il suo Maestro
e Signore, muovendo i passi della
vita sul suo stesso sentiero.
Questo percorso
comprende due decisioni. La prima
è il “rinnegare sé stessi”, ossia abbandonare
l’egoismo e l’interesse personale.
È ciò che non farà in quella notte
drammatica san Pietro il quale, anziché
“rinnegare sé stesso”, “rinnega” il
suo Signore (Matteo 26,69-75; Luca
22,54-62).
La seconda scelta da compiere è
quella di avviarsi sulla salita ardua del
Calvario, pronti a essere coerenti fino
alla fine, sacrificando ogni cosa, anche
la stessa vita. Matteo presenta, infatti,
questo detto di Gesù così: «Se qualcuno
vuol venire dietro a me, rinneghi sé
stesso, prenda la sua croce e mi segua»
(16,24).
Come è evidente, l’evocazione
è quella della crocifissione; in altri termini,
l’evangelista, che scrive a una comunità
cristiana contestata e perseguitata,
fa balenare davanti ai loro occhi
anche il rischio del martirio, una scelta
estrema da compiere sulla scia del
suo Signore.
Diverso è il contesto a cui si rivolge
Luca: i cristiani sono poveri e in gravi
difficoltà nell’esistenza quotidiana. Ecco,
allora, la variante che egli introduce
per applicare la frase di Gesù all’esperienza
che i suoi lettori stanno vivendo:
il discepolo «prenda la sua croce ogni
giorno e mi segua». Quell’“ogni giorno”
è significativo perché evoca l’impegno
che si deve assumere nelle vicende giornaliere.
La “croce” diventa il simbolo
di tutte le prove, le fatiche, i sacrifici,
le sofferenze che gravano sulla vita e
che il cristiano accoglie con fedeltà e costanza
come segno della sua adesionesequela
a Gesù.
È questa una sorta di legge evangelica,
tant’è vero che più avanti Cristo ribadisce:
«Colui che non porta la propria
croce e non viene dietro a me, non può
essere mio discepolo» (Luca 14,27). E
non è detto che sia meno impegnativo
portare la propria croce ogni giorno rispetto
all’atto estremo del martirio. È
un po’ quello che affermava Pirandello
in un suo dramma, Il piacere dell’onestà
(1917): «È molto più facile essere un
eroe, che un galantuomo. Eroi si può essere
una volta tanto; galantuomini, si
dev’essere sempre».
Pubblicato il 24 gennaio 2013 - Commenti (4)
17 gen
Cristo risorto appare a Maria Maddalena, 1521-1523, affresco di Bernardino Luini. Milano, chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore (Scala).
"C’erano con Gesù i Dodici e alcune donne...
Maria, chiamata Maddalena,
dalla quale erano usciti sette demoni."
(Luca 8,1-2)
La storia dell’arte ha potuto ricamare
molto liberamente immagini
erotiche attorno alla figura di Maria
originaria del villaggio di Magdala
(che s’affaccia sul lago di Tiberiade):
l’ha ritratta, infatti, spesso discinta o
nuda, coperta solo dai lunghi e morbidi
capelli, anche quando la rappresentava
nello stato di penitente, come accade
nella tela di Tiziano (1523) di Palazzo
Pitti o alle varie “Maddalene” di Guido
Reni, riprese in repliche e copie. Ma
questa donna – che seguirà Gesù fino ai
piedi della croce e che lo incontrerà il
mattino di Pasqua nell’area cemeteriale
di Gerusalemme ove era stato sepolto
(Giovanni 20,11-18) – era proprio
una prostituta convertita?
Se stiamo al testo di Luca che abbiamo
citato, troviamo solo questa annotazione:
da lei Gesù aveva fatto «uscire
sette demoni». Più o meno una cosa
analoga è detta delle altre figure femminili
che costituiscono, coi Dodici, il seguito
di Cristo: «Alcune donne che erano
state guarite da spiriti cattivi e da infermità
».
Ora, è noto che spesso nella
Bibbia non si distingue nettamente
tra malattia e possessione diabolica.
Ad esempio, il giovane che Gesù guarisce
ai piedi del monte della Trasfigurazione
rivela chiaramente i sintomi
dell’epilessia, ma gli evangelisti parlano
di un «demonio» o di uno «spirito impuro
» (vedi, ad esempio, Marco
9,14-28, oppure Luca 9,37-43).
Il nesso tra peccato e malattia, che
spesso affiora nell’Antico Testamento, favoriva
questa confusione, ma a noi non
permette di identificare un malato con
un ossesso. Ora, nel caso della Maddalena,
Luca parla di una sua liberazione da
ben sette demoni.
Si può, perciò, o ipotizzare
una grave forma di possessione
diabolica o più semplicemente – per la
ragione sopra addotta – di una grave e
particolare infermità (il sette è un numero
simbolico che indica pienezza)
dalla quale Gesù l’avrebbe liberata.
A questo punto è legittima la domanda:
perché si è pensato che questo stato
di male fosse collegato alla prostituzione?
La risposta sarà per molti un po’
sorprendente perché si lega non tanto
al testo citato, quanto al suo contesto.
Nella pagina precedente, del tutto indipendente,
si narra infatti l’episodio che
si svolge nella casa di un capo dei farisei
di nome Simone, del quale Gesù è
ospite (Luca 7,36-50). Là effettivamente
entra in scena «una peccatrice di quella
città»: essa rivela, però, uno spirito di
pentimento e di umanità superiore a
quello dei benpensanti che sono a
mensa con Simone.
Sulla base di questo semplice accostamento
narrativo esteriore si è applicata
l’etichetta di prostituta a Maria di
Magdala, identificata appunto senza
fondamento con quella “peccatrice”. Si
tratta, alla fine, di una calunnia che, comunque,
non sfiorò mai la mente di
Gesù. Egli, infatti, la volle alla sua sequela,
fino al vertice supremo della
sua vicenda terrena e al suo ingresso
nella gloria pasquale.
Pubblicato il 17 gennaio 2013 - Commenti (4)
10 gen
I precursori di Cristo con santi e martiri del Beato Angelico, 1423-1424, particolare di predella d’altare. Londra, National Gallery (immagine Scala).
"Gesù aveva circa
trent’anni
ed era figlio,
come si riteneva,
di Giuseppe,
figlio di Eli..."
(Luca 3,23)
Gesù sta per entrare sulla scena
pubblica. È un trentenne residente
a Nazaret, considerato figlio di
Giuseppe: è proprio dall’espressione
«come si riteneva» che nasce la definizione
di “padre putativo” assegnata allo
sposo di Maria nei confronti del figlio
legalmente da lui assunto in carico.
È appunto all’inizio della predicazione
di Cristo che l’evangelista Luca decide
di tracciare il suo albero genealogico,
così come aveva fatto Matteo (1,1-17)
all’inizio, però, della vita fisica del Bambino.
Le differenze tra le due genealogie
sono talmente tante da suscitare più
di una perplessità.
Perplessità che un po’ si diradano tenendo
conto del valore più simbolico-spirituale
che storico-documentario di
un simile genere letterario. Infatti, attraverso
gli anelli genealogici (77 in
questo caso), non si vuole tanto delineare
con rigore scientifico la sequenza dei
discendenti, quanto il legame che
l’anello terminale ha con figure di una
storia più ampia e con personaggi o vicende
emblematiche.
È per questo che
Matteo, adottando una genealogia “discendente”,
parte da Abramo come radice
della figura di Gesù ebreo secondo la
carne. Luca, invece, che scrive a cristiani
di prevalente matrice pagana, sceglie
la via “ascendente” e fa risalire Gesù fino
ad Adamo, cogliendo così la sua fraternità
con l’intera umanità.
In sintesi, potremmo dire che le genealogie
evangeliche di Cristo hanno lo scopo
di esaltare l’incarnazione del Figlio di
Dio sia nella storia umana (Adamo) sia
in quella messianica della salvezza (Abramo
e Davide).
Si traccia, quindi, un’identità
più religiosa che storica, anche se ovviamente
si assumono per l’edificazione
della serie genealogica varie figure reali
che hanno contrassegnato la vicenda del
popolo al cui interno Cristo è inserito.
Le
due versioni genealogiche di Matteo e Luca
non sollecitano di per sé un’analisi storiografica,
se non in sede critica, perché
la loro meta è quella di offrire la carta
d’identità non anagrafica, bensì teologica
del personaggio centrale.
Egli è contemporaneamente «figlio
di Adamo, figlio di Dio», come dicono
gli ultimi anelli dell’ascesa nei secoli
fatta da Luca (3,38). La rilevanza di Cristo,
quindi, non è destinata solo al popolo
ebraico, ma si stende universalmente
anche sulla storia umana, al di
là del percorso all’interno del tempo di
un popolo preciso, come è Israele.
Una
nota curiosa riguarda l’eventuale nonno
“ufficiale” di Gesù.
Se, infatti, leggiamo la sequenza di Matteo,
abbiamo il nome di un certo Giacobbe
(«Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo
di Maria»); Luca, invece, ci presenta un Eli
non meglio noto («Giuseppe, figlio di
Eli»).
Il bisnonno è, però, comune a entrambe
le genealogie, sia pure con una
lieve variante di nome: Mattan per Matteo
(1,15), Mattat per Luca (3,24). Diversità
e coincidenze che confermano la fluidità
storica di questo e di altri alberi genealogici
offerti dalla Bibbia.
Pubblicato il 10 gennaio 2013 - Commenti (3)
02 gen
Presentazione di Gesù al Tempio, affresco, 13031304, di Giotto da Bondone. Padova, Cappella degli Scrovegni (immagine Scala).
"Egli è qui per la caduta
e la risurrezione di molti in
Israele e come segno di
contraddizione e anche a te
una spada trafiggerà l’anima."
(Luca 2,34-35)
Ad accogliere la modesta famiglia
di Nazaret nel tempio di Gerusalemme
non sono i sacerdoti di alto
rango, ma due fedeli anziani, Simeone
e Anna. Il primo, «uomo giusto e pio
che aspettava la consolazione di Israele
», cioè il Messia (Luca 2,25), mosso dallo
Spirito Santo, proclama un oracolo
di stampo profetico che ha come destinatari
sia il neonato Gesù, che egli regge
tra le sue braccia, sia sua madre Maria.
Come spesso accadeva agli antichi
profeti di Israele, il tono è forte e il contenuto
severo.
Per Gesù Simeone usa, nel testo greco
del Vangelo di Luca, la definizione seméion
antilegómenon, «segno di contraddizione
». Attorno a questo bambino già
si addensa il suo futuro: davanti a lui si
confronteranno salvezza e giudizio, fede
e incredulità, «i pensieri di molti cuori saranno
svelati» (2,35). Un giorno Gesù, divenuto
adulto, dirà: «Pensate che io sia
venuto a portare pace sulla terra? No, vi
dico, ma divisione!» (Luca 12,51). Non si
può restare neutrali o indifferenti di
fronte a Cristo: è una pietra che può diventare
una testata d’angolo che regge
un edificio, ma che può essere anche pietra
d’inciampo sulla quale ci si può sfracellare
(Luca 20,1718).
Ecco, però, che Simeone si rivolge in
modo inatteso anche alla madre di Gesù
con un annunzio ugualmente fosco.
In una tavola di un maestro renano del
XIV secolo conservata ad Aquisgrana
una spada scende dalla croce di Cristo e
trafigge il cuore di Maria.
Il simbolo della
spada, segno del giudizio divino, era
cantato dal profeta Ezechiele (14,17) e,
come commenta la Bibbia di Gerusalemme,
Maria, «vera figlia di Sion porterà
nella sua vita il doloroso destino del
suo popolo; con suo figlio, sarà al centro
di questa contraddizione, nella quale
i cuori dovranno manifestarsi in favore
o contro Gesù».
Maria è nel cuore della
battaglia pro o contro Cristo.
Questo oracolo avrà altre letture più
fantasiose, come quella di Origene che
pensava al dubbio come spina nel fianco
della fede pura di Maria davanti all’apparente
fallimento del Figlio. Alcuni nell’antichità
arrivavano al punto di immaginare
una sua morte violenta per martirio!
Sta di fatto che, a partire dal XIII secolo, il
cuore di Maria nelle raffigurazioni sarà
trapassato o da una spada, oppure da cinque
spade, tante quante erano le piaghe
del Cristo crocifisso. Alla fine le spade diverranno
sette, dato il valore simbolico
di pienezza legato dalla Bibbia a questo
numero, ma anche secondo un antico
elenco devozionale di dolori mariani: la
profezia di Simeone, la fuga in Egitto, la
ricerca di Gesù nel tempio tra i dottori della
legge, la via crucis, la crocifissione, la
deposizione dalla croce e la sepoltura.
Amedeo di Losanna, monaco cistercense
e vescovo, morto nel 1159, nella sua V
omelia affermava che «il martirio del
cuore supera i tormenti della carne.
È
la corona di questo martirio del cuore
quella che ha conquistato la Vergine gloriosa
quando, tenendosi abbracciata alla
croce venerabile della passione del Signore
e Salvatore nostro, sorbì il calice e si
inebriò di questa passione, vuotò il torrente
del dolore e subì una sofferenza di
cui nessuno ha conosciuto l’eguale».
Pubblicato il 02 gennaio 2013 - Commenti (2)
21 dic
L’annuncio ai pastori, particolare, affresco della Natività, 1192. Monti Troodos, monastero bizantino di Nostra Signora di Araka (Scala).
"Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e sulla terra pace agli uomini che egli ama."
(Luca 2,14)
Quante volte abbiamo cantato nella
Messa il Gloria in excelsis, e
nella nostra memoria è incastonato
in modo indelebile anche il suo
prosieguo che mette in scena la pax in
terra destinata agli hominibus bonae voluntatis.
Quest’ultima espressione è talmente
comune da essere divenuta uno
stereotipo per definire i giusti, appunto
gli «uomini di buona volontà». Può,
quindi, sorprendere che la traduzione
italiana del Vangelo di Luca che si legge
nella liturgia abbia, a differenza della
versione latina, la formula «pace agli
uomini che egli [Dio] ama», dove è evidente
che la volontà è quella divina e
non l’umana.
Quest’inno, intonato dagli angeli nella
notte natalizia, rivolto ai pastori che,
«pernottando all’aperto vegliavano tutta
la notte facendo la guardia al loro
gregge» (Luca 2,8), vuole infatti esaltare
la gloria di Dio, cioè la sua presenza efficace
che è trascendente («nei cieli»), ma
è anche operante nella storia proprio attraverso
il dono della pace offerto
all’umanità.
Ebbene, nell’originale greco
si parla semplicemente degli «uomini
dell’eudokía». Ora, questo vocabolo
è usato per designare il progetto salvifico
di Dio, è quindi la sua benevolenza,
il suo amore. In forma didascalica
potremmo parafrasare così: «Pace agli
uomini che sono oggetto della buona
volontà di Dio».
Tra l’altro, anche nei celebri
manoscritti giudaici di Qumran,
presso il mar Morto, ci si imbatte in
una formula ebraica analoga che esalta
la “buona volontà” di Dio di cui gli uomini
sono oggetto.
È interessante notare che, alle soglie
della passione di Cristo, durante il suo
ingresso trionfale a Gerusalemme, la folla
dei suoi discepoli canterà: «Pace in cielo
e gloria nel più alto dei cieli» (Luca
19,38). Commentava l’esegeta americano
Raymond E. Brown: «È un tocco pieno
di fascino che la moltitudine della milizia
celeste proclami la pace sulla terra,
mentre la moltitudine dei discepoli proclama
la pace in cielo: i due passi potrebbero
diventare quasi un responsorio antifonale
». Ora, inno natalizio e inno pasquale
s’intrecciano tra loro sul tema della
pace, lo shalôm messianico, celebrato
già nell’Antico Testamento.
La pace biblica, come è noto, non è
solo assenza di guerra e di odio, ma è
anche pienezza di vita, di amore, di
gioia. Il Messia è per eccellenza il «Principe
della pace» (Isaia 9,5). Paolo ai cristiani
di Efeso ricorda che «Cristo è la
nostra pace» perché, abbattendo idealmente
il muro che separava nel tempio
di Gerusalemme il “Cortile degli Israeliti”
dal “Cortile dei Gentili”, ossia dei pagani,
ha creato «in sé stesso, dei due, un
solo uomo nuovo, facendo la pace» (Efesini
2,1415).
Ed è significativo che siano i pastori
i primi destinatari di questa “annunciazione”
natalizia, figure che un trattato
del Talmud, la grande raccolta delle
tradizioni e delle norme giudaiche,
considerava impure a causa della loro
convivenza con gli animali e disoneste
per le loro violazioni dei confini territoriali
durante le loro migrazioni e le
loro soste, e quindi inabili a essere giudici
e testimoni nei processi (Sanhedrin
25b). Si prefigurava già il detto di
Cristo riguardo agli ultimi destinati a
essere i primi.
Pubblicato il 21 dicembre 2012 - Commenti (2)
13 dic
Arrivo della Sacra Famiglia alla locanda di Betlemme di Joseph von Fuehrich, olio su tela, 1838. Berlino, Nationalgalerie, Staatliche Museen zu Berlin (Scala).
"Diede alla luce
il suo figlio primogenito,
lo avvolse in fasce e lo pose
in una mangiatoia,
perché non c’era posto
per loro nell’alloggio."
(Luca 1,34)
La grotta, il bue e l’asino, mezzanotte:
guai se nel nostro presepe mancassero
questi elementi che recano con sé tutta
l’atmosfera natalizia e le emozioni bellissime
di un’infanzia innocente, forse perduta. Ma se
scorriamo le righe del racconto evangelico di
Luca, di questo apparato non c’è menzione perché
esso è sbocciato liberamente come un fiore
della tradizione su un testo che è, invece, molto
più sobrio. Ecco, allora, alcune brevi annotazioni
attorno alla narrazione lucana.
La prima riguarda quel sorprendente “figlio
primogenito” che farebbe pensare ad altri
figli successivi di Maria. Già abbiamo avuto
l’occasione di puntualizzare che questa è una
nota giuridica nella quale si esalta la primogenitura,
elemento capitale nella struttura
familiare ebraica e nell’asse ereditario. È paradossale,
ma – come abbiamo avuto modo di
documentare per un passo di Matteo (2,25) –
nel mondo semitico si può parlare di una madre
che muore di parto «dando alla luce il suo
figlio primogenito»!
La seconda nota ci porta nell’ipotizzata
grotta della nascita di Gesù. Il greco di Luca
parla, però, di un “alloggio” (katályma), non
di una “locanda o albergo” (in greco pandochéion,
come si ha nella parabola del Buon
Samaritano: Luca 10,34). Siamo, quindi, in
presenza di una casa dove probabilmente risiedevano
i parenti di Giuseppe, casa già occupata
nel suo vano principale (“alloggio”).
Rimaneva, però, uno spazio ulteriore ove si
ospitavano gli animali nelle notti fredde; talora
era ricavato nella roccia, ma non necessariamente,
né era raro il fatto che vi dormissero
anche persone. Ecco, allora, spiegata
quella “mangiatoia” (fátne) nella quale viene
adagiato il neonato Gesù.
Siamo, perciò, in un contesto familiare, comune
alla gente di modeste condizioni, soprattutto
in un villaggio agricolo-pastorale
com’era la Betlemme di allora, i cui fasti di “città
di Davide”, come la denomina Luca (2,4),
erano stati da sempre soppiantati da quelli di
Gerusalemme, poco distante. Suggestivo è, invece,
il gesto appuntato da Luca: Maria «avvolse
in fasce» con premura materna il suo
bambino. Nel racconto parallelo della nascita
di Giovanni Battista si nota semplicemente
che «Elisabetta diede alla luce un figlio» nella
casa sua e di Zaccaria, circondata dalla festa
dei parenti (1,57-58).
Infine, da dove vengono il bue e l’asino? È
probabile, certo, la presenza di qualche animale
domestico in quella casa, come sopra abbiamo
prospettato. Ma la tradizione ha, forse,
introdotto questo particolare leggendo allegoricamente,
cioè con una libera applicazione,
un passo di Isaia in cui il Signore si lamenta
dell’ottusità del suo popolo con questo paragone
vivace: «Il bue conosce il suo proprietario
e l’asino la greppia del suo padrone, ma
Israele non conosce, il mio popolo non comprende
» (1,3).
Pubblicato il 13 dicembre 2012 - Commenti (1)
08 dic
Visitazione, Maria ed Elisabetta, miniatura, Egerton 1149, f.53v. Londra, British Library.
"Maria disse all'angelo:
«Come avverrà questo,
poiché non conosco uomo?»".
(Luca 1,34)
Il racconto lucano dell’annunciazione
a Maria ha da sempre un intoppo in
questa risposta che la «vergine, promessa
sposa a un uomo della casa di Davide
di nome Giuseppe» (1,27) rivolge
all’angelo che le affida l’incarico di generare
il «Figlio dell’Altissimo» (1,32). È
noto che il verbo «conoscere» nel linguaggio
biblico può indicare anche l’atto
sessuale. La replica di Maria è agevolmente
decifrabile nel senso più immediato.
La donna ha finora perfezionato
il primo atto del complesso rituale
matrimoniale giudaico, quello del fidanzamento,
che non presuppone ancora
la convivenza.
Pertanto, la reazione di Maria è abbastanza
logica: non “conoscendo” ancora
il suo futuro sposo (in senso pieno)
dato il suo statuto di “fidanzata”, non
potrà ora concepire e poi generare. Ecco,
a questo punto, la precisazione successiva
dell’angelo: «Lo Spirito Santo
scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo
ti coprirà con la sua ombra: perciò
colui che nascerà sarà santo e chiamato
Figlio di Dio» (1,35). La generazione di
Maria prescinde dal legame nuziale
con Giuseppe, tant’è vero che il racconto
parallelo di Matteo (1,18) la vede già
incinta «prima ancora che andassero a
vivere insieme». Là sarà ancora un angelo
a puntualizzare lo stesso concetto: «Il
bambino che è generato in lei viene dallo
Spirito Santo» (1,20).
Se le cose stanno così, perché ci si è accaniti
in passato su queste parole di Maria?
La preoccupazione era quella di
esaltare la Vergine in modo tale da non
farle mai balenare nella mente neppure
la possibilità di un pensiero o un atto
che non fosse in linea con la sua verginità.
Così, alcuni padri della Chiesa come
Gregorio di Nissa, Ambrogio e Agostino
assegnarono a quel presente («non conosco
») un valore di futuro: «non conoscerò
uomo», non ho intenzione – neanche
nel matrimonio con Giuseppe – di
avere rapporti sessuali, emettendo così
un voto di castità perpetua. Ovviamente,
di tutto questo non c’è traccia nella
narrazione lucana.
Questo, però, non significa che la verginità
della madre di Cristo non sia nel
centro del testo evangelico. Il progetto divino,
rivelato attraverso il messaggero
angelico, esclude esplicitamente che Gesù
nasca da un seme umano: Dio opera
in Maria mediante il suo Spirito rendendola
feconda e incinta già in quel
momento epifanico. In questa luce è
ben diversa la situazione tra le due donne
protagoniste del Vangelo dell’infanzia
di Gesù secondo Luca: Elisabetta è
una moglie sterile, implora un figlio e
Dio le concede di averlo tramite il marito
Zaccaria e, così, nasce Giovanni; Maria è
vergine e il figlio che avrà è dono divino
in senso assoluto senza diretta mediazione
umana (Giuseppe avrà solo la funzione
estrinseca di padre legale).
Come scrive un esegeta, Raymond
E. Brown, «nell’annunciazione della
nascita del Battista ci troviamo di
fronte a un ardente desiderio dei genitori
che sentono molto la mancanza
di un figlio. Maria è invece vergine,
non ha ancora vissuto col marito, non
ha questa umana e ardente attesa: per
lei si tratta di una sorpresa. Non si ha
più a che fare con la supplica da parte
dell’uomo e col generoso esaudimento
da parte di Dio. Qui ci troviamo davanti
all’iniziativa di Dio che oltrepassa
qualsiasi cosa sognata da uomo o
da donna».
Pubblicato il 08 dicembre 2012 - Commenti (2)
04 dic
Annunciazione alla fontana di Toros di Taron (secolo XIII-XIV), Ms 6289 f 143r, 1323, miniatura armena, scuola di Glajor (Sinuia). Matenadaran, Erevan, Armenia.
"L'angelo le disse:
« Rallègrati, piena di grazia:
il Signore è con te»".
(Luca 1,28)
Appena ascoltiamo queste righe di Luca,
si affollano nella mente tante immagini
che l’arte cristiana ha dispiegato su
muri, tele, tavole, pietre durante i secoli per
rappresentare l’annunciazione dell’angelo a
Maria, mentre nelle nostre orecchie sembra
echeggiare una delle tante Ave Maria che la
musica ha intessuto di armonie. Può, però,
stupire che proprio quella prima frase angelica
non contenga nella versione proposta
quell’“Ave” o almeno quel “Ti saluto” tradizionale
a cui siamo abituati da sempre, soprattutto
attraverso la recita del rosario.
Di per sé il greco originale, cháire, potrebbe
ammettere anche una simile resa; ma
l’evangelista, in filigrana, vuole far affiorare
l’eco di un’altra voce, quella dei profeti e
del loro invito alla gioia messianica rivolto
alla “figlia di Sion”, cioè a Gerusalemme personificata
e, quindi, a tutto il popolo dell’alleanza.
Così, ad esempio, canta il profeta Sofonia:
«Rallègrati, figlia di Sion, il re di Israele, il
Signore è in mezzo a te...» (3,14). Nel grembo
della figlia di Sion, sede del tempio e della casa
di Davide, Dio entra in dialogo col suo popolo.
Nel grembo di Maria, la nuova figlia di
Sion, il Signore si rende presente in maniera
piena e perfetta nel suo Figlio.
In questa linea si spiega anche l’appellativo
successivo che, in greco, conserva lo stesso
verbo del “rallègrati”, cháirein: infatti, si ha il
participio passivo kecharitoméne, che ha per
soggetto sottinteso Dio. Il significato genuino
sarebbe, perciò, «tu che sei stata riempita
della grazia» divina. Maria è la sede dell’effusione
suprema della grazia (cháris) del Signore,
perché in lei è presente Dio stesso nel Figlio
che lei concepisce e genera. San Bernardo,
in una sua pagina famosa, spingerà retoricamente
Maria ad accettare questo dono:
«L’angelo aspetta la tua risposta, Maria! Stiamo
aspettando anche noi, o Signora, questo
tuo dono che è dono di Dio. Sta nelle tue mani
il prezzo del nostro riscatto...».
Il primato è, dunque, divino; Maria – come
scriverà sant’Ambrogio – non è il Dio del
tempio, ma il tempio di Dio. In lei brillano in
pienezza la grazia divina, la volontà salvifica
del Signore, il suo amore redentore. Maria è
la nuova arca dell’alleanza, avvolta nella nube,
segno del mistero di Dio (Esodo 40,35):
«Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza
dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra
», le dice l’angelo Gabriele (Luca 1,35). In
lei si ha, dunque, la presenza definitiva di
Dio nella storia umana. Il racconto dell’annunciazione
è, quindi, squisitamente teologico
e cristologico.
Una nota in appendice. La tradizionale
preghiera mariana dell’Ave Maria ha, comunque,
la sua radice proprio nel testo lucano
e ha una sua prima, simbolica testimonianza
nella stessa grotta di Nazaret detta
dell’“Annunciazione”, sede di un culto giudeo-
cristiano fin nei primi secoli. Su una
delle pareti si è scoperto un graffito con questa
invocazione in greco, XAIPE MAPIA, che
è appunto il “Rallègrati Maria”, trasformatosi
nel latino Ave Maria del rosario, la preghiera
diffusa fin dal Medioevo e ancora viva
nei nostri giorni come la più popolare
orazione mariana.
Pubblicato il 04 dicembre 2012 - Commenti (2)
26 nov
Le tre Marie al sepolcro, particolare dalla Maestà di Duccio di Buoninsegna (1260 ca.-1318). Siena, Museo dell’Opera della Metropolitana.
"Le donne fuggirono via dal sepolcro,
piene di spavento e di stupore.
E non dissero niente a nessuno
perché erano impaurite".
(Marco 16,8)
Abbiamo intenzionalmente posto i
puntini di sospensione al termine
della nostra citazione, perché questa
volta vogliamo affrontare non tanto
un passo difficile del Vangelo di Marco,
quanto piuttosto un vuoto. Tutti gli studiosi,
su basi ben motivate che noi soltanto
evocheremo, ritengono, infatti, che qui
finisca lo scritto marciano. Se i lettori, però,
prenderanno in mano la loro Bibbia,
troveranno che il racconto procede ancora
dal v. 9 al 20 con una sintesi delle apparizioni
del Cristo risorto. Ebbene, quella
finale – che comunque fa parte delle
Scritture ispirate e riconosciute nel Canone
della Chiesa – in realtà è un’aggiunta
redazionale più tarda, come si
intuisce tenendo conto di due fattori.
Il primo è lo stile di questo brano finale,
profondamente mutato rispetto
all’asciuttezza e vivacità del dettato di
Marco: si ha l’impressione di essere di
fronte a un riassunto delle apparizioniincontri
del Risorto che l’evangelista
forse non aveva apposto nelle ultime
pagine del suo racconto. La seconda ragione
è da verificare nei più antichi e
importanti codici pergamenacei che ci
hanno trasmesso il testo dei Vangeli: ebbene,
in quei manoscritti l’attuale finale
manca, e così si attesta che allora essa
non era considerata come originaria.
Altri codici antichi dei Vangeli offrono
differenti conclusioni e anche i Padri
della Chiesa hanno al riguardo non poche
esitazioni e oscillazioni.
È indubbio che il Vangelo di Marco
non poteva finire col v. 8 sopra citato,
così incompiuto e sospeso (soprattutto
nel dettato greco originario). Ci è ignota
la causa per cui alla finale dell’evangelista
si sia sostituito l’attuale sommario
dei vv. 9-20, né si sa quando questo sia
avvenuto, anche se si deve riconoscere
che già nel II secolo alcuni autori cristiani,
come Taziano e sant’Ireneo, ne attestano
la conoscenza e molti codici posteriori
l’hanno accolto, seguiti dalle antiche
traduzioni dei Vangeli. È per questo
che esso si presenta anche nelle nostre
Bibbie e su questo testo la Chiesa ha posto
il sigillo della canonicità e, quindi,
dell’ispirazione divina, anche se la pagina
non è frutto dell’opera di Marco.
Sappiamo, infatti, che molti libri biblici
– pur avendo il patronato di un unico
autore – rivelano al loro interno diverse
mani di autori differenti. Il caso
più noto è quello di Isaia che vede, accanto
al celebre profeta dell’VIII secolo a.C.,
la presenza di altre voci distribuite nei secoli
successivi: le principali sono state
chiamate dagli esegeti il “Secondo” e il
“Terzo Isaia” (cc. 56-66), mentre anche altre
parti del libro isaiano sono da riferire
a questi stessi autori o a mani non identificabili.
Anche nel Vangelo di Giovanni,
la cui formazione fu molto complessa, si
notano due finali successive e distinte in
20,30-31 e 21,24-25, testimonianza di redazioni
diverse del testo giovanneo.
Il concetto di “ispirazione” divina
non è, infatti, rigido, quasi fosse un dettato
diretto tra Dio e un autore, ma è
una presenza molto ampia dello Spirito
divino che attraversa non solo guide,
profeti, sapienti, apostoli, ma anche autori
che hanno raccolto il loro messaggio
(è il caso di Marco, collegato probabilmente
a Pietro e un po’ anche a Paolo,
ma pure di Luca, discepolo di Paolo)
e redattori vari. Il suggello che la Chiesa,
illuminata dallo Spirito, impone al testo
finale della Bibbia, permette al fedele di
coordinare questa molteplicità nell’unità
di respiro della parola di Dio.
Pubblicato il 26 novembre 2012 - Commenti (2)
19 nov
Il bacio di Giuda, particolare del ragazzo che fugge lasciando il mantello in mano agli inseguitori, dal Codice Aureus Escurialensis Fol. 81r (facsimile). Madrid, monastero dell’Escorial.
"Seguiva Gesù
un ragazzo
che aveva
addosso
solo una sindone.
Lo afferrarono,
ma egli
lasciò cadere
la sindone
e fuggì via".
(Marco 14,51-52)
È la notte dell’arresto di Gesù. Giuda è
avanzato nell’orto del Getsemani, tra gli
ulivi, accompagnato da «una folla con
spade e bastoni».
L’atmosfera si fa concitata:
dopo il bacio del tradimento e il colpo di scena
dell’orecchio mozzato da «uno dei presenti
a un servo del sommo sacerdote», Gesù viene
arrestato e ha appena il tempo di fare una dichiarazione
amara: «Come se fossi un ladro
siete venuti a prendermi con spade e bastoni...
».
A essa aggiunge una nota teologica che
è anche un segno di accettazione: «Si compiano
dunque le Scritture!». Alla fine i discepoli
si danno a una fuga piuttosto codarda.
Un ragazzo che, forse per il caldo o per pura
e semplice praticità, si trova in quel campo
rivestito di un lenzuolo, viene coinvolto
nel tumulto di quell’arresto che egli aveva
seguito forse solo per curiosità.
Si tenta di
bloccarlo per un controllo, ma egli riesce a
sgusciar via da quel panneggio e ad allontanarsi.
Ci si è chiesti da sempre perché mai,
in una scena così drammatica, Marco abbia
voluto introdurre un particolare così marginale
e fin stravagante.
La risposta comune è
semplice: si tratterebbe di una pennellata
autobiografica, simile a ciò che accadeva in
passato quando i pittori in una scena evangelica
amavano raffigurare sé stessi, sullo
sfondo o tra la folla.
Protagonista dell’episodio sarebbe, allora,
il giovane evangelista Marco che avrebbe assistito
alla cattura di Gesù.
Molti, però, hanno
puntato l’attenzione sul termine con cui è
definito il lenzuolo indossato dal ragazzo e
che noi abbiamo lasciato com’è nell’originale
greco sindón, “sindone”.
Ora è noto che
anche il nudo corpo di Cristo deposto dalla
croce era stato avvolto in una “sindone”:
«Giuseppe d’Arimatea, comprata una sindone,
depose [il corpo di Gesù] in un sepolcro
scavato nella roccia» (Marco 15,46).
Sappiamo
anche che da questa sindone egli uscirà,
abbandonandola nella tomba, stando almeno
alla testimonianza di Giovanni che, però,
non usa il vocabolo “sindone”, bensì quello
più generico di “teli” posati là nel sepolcro
col sudario che aveva coperto il volto del Cristo
morto (20,5-7).
Molti studiosi sono convinti che questa
scenetta, pur essendo reale, acquisti un valore
secondario e simbolico proprio attraverso
l’evocazione della “sindone”. Essa si trasforma
in una sorta di compendio cifrato e
anticipato della risurrezione.
Cristo, infatti,
ha lasciato sulla terra il segno della sua morte,
il lenzuolo funebre, per ricordarci che
quella fine fu reale e non fittizia, attestazione
della sua umanità autentica.
Ma il fatto
che essa sia ormai soltanto un telo vuoto,
rende la sindone un simbolo vivo della risurrezione
e, quindi, della gloria e della divinità
di Cristo, Figlio di Dio.
Pubblicato il 19 novembre 2012 - Commenti (1)
12 nov
Angeli con calice, Crocifissione (particolare). Roma, San Carlo alle Quattro Fontane.
"Potete bere il calice
che io bevo, o essere
battezzati nel battesimo
in cui io sono battezzato?".
(Marco 10,38)
Giovanni e Giacomo sono ancora avvolti
nel fumo delle illusioni politiche
che avevano accompagnato
l’entrata in campo di Gesù, acclamato come
Messia: non riescono, infatti, a concepire
il regno di Dio se non in termini di
potere. Ecco, allora, la richiesta anticipata
di due posizioni di prestigio nel futuro organigramma:
uno alla destra di Gesù e
l’altro alla sua sinistra in quell’ideale consiglio
dei ministri del regno dei cieli.
La
replica di Cristo è severa: «Voi non sapete
quello che chiedete». E subito dopo, attraverso
due immagini, mostra quanto diversa
sia la logica del progetto che egli sta
realizzando, stracciando così ogni concezione
messianica nazionalistica.
Per essere ammessi al regno che Gesù
sta instaurando, c’è innanzitutto un “calice”
da bere. Di per sé l’immagine nella
Bibbia e nel giudaismo è ambivalente.
Da una parte, c’è il calice della gioia, della
consolazione offerta alle persone in lutto
dopo i funerali; c’è il calice dell’ospitalità
(Salmo 23,5) o quello del rito pasquale.
D’altra parte, però, c’è anche il calice
dell’ira di Dio, espressione di una prova
lacerante, della sofferenza e del giudizio
sul male: «Nella mano del Signore è un calice
ricolmo di vino drogato. Egli ne versa:
fino alla feccia ne berranno tutti gli
empi della terra» (Salmo 75,9).
Ora Cristo nella sua passione e morte,
assumendo su di sé il peccato
dell’umanità, berrà questo calice terribile.
Ne proverà disgusto, tant’è vero
che implorerà Dio così: «Abba’, Padre,
tutto a te è possibile, allontana da me
questo calice!» (Marco 14,36). Ma alla fine
non esiterà nella scelta.
A Pietro, che
con la spada tenta di impedire la sua cattura
nel Getsemani, replicherà: «Non devo
forse bere il calice che il Padre mi ha
dato?» (Giovanni 18,11). È, dunque, questa
la via, tutt’altro che trionfale, che conduce
alla gloria e quel calice verrà presentato
anche ai discepoli se lo vorranno
seguire sulla via della croce.
L’altra immagine è quella del “battesimo”
che è assunta da Gesù nel suo significato
etimologico di base: il termine deriva
dal verbo greco bápto o baptízein,
“immergere”.
Siamo, perciò, in presenza
di un’immersione non tanto nell’acqua
rigeneratrice e vitale del Battesimo
cristiano, quanto piuttosto nelle onde
tumultuose e tenebrose di un abisso di
sofferenze, del mare tempestoso delle
prove. Si ritorna, così, al simbolo del calice
a cui sono chiamati anche i seguaci
di Cristo, se vogliono essere ammessi alla
gloria del regno di Dio.
Gesù, a questo punto, convocati anche
gli altri dieci apostoli, impartisce loro
una lezione sulla vera “carriera” cristiana
(Matteo 10,41-45).
Essa è paradossalmente
modellata sul suo esempio di
“servo”, che «è venuto non per farsi servire,
ma per servire e dare la propria vita»,
ed è sintetizzata in questo “codice” ideale
ben diverso da quello che si assegnano
i politici e i potenti della terra:
«Chi vuole diventare grande tra voi sarà
vostro servitore e chi vuol essere il primo
tra voi sarà schiavo di tutti».
Pubblicato il 12 novembre 2012 - Commenti (2)
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